area 103 | Paris

Stefano Fera: La consultazione internazionale per la Grande Parigi, sembra voler rimettere in discussione l’idea stessa di città capitale. Idea tipicamente ottocentesca, e connessa a una concezione centralista dello Stato che in Italia abbiamo conseguito a fatica e in tempi relativamente recenti. Si pensi al continuo traslocare tra il 1861 e il 1871 della capitale italiana, prima a Torino, poi a Firenze, infine a Roma. Oggi il tema consiste nel trasformare una grande città radiocentrica, accerchiata da una congerie di comuni di varia dimensione e natura, in una metropoli capace di far fronte a complessi problemi sociali e infrastrutturali, ma anche di reggere l’antica competizione con Londra. In che modo, secondo voi, Parigi saprà affrontarlo?

Genoa July 31st, 2008. Urban Lab, floating seat located in the old Port, designed by Renzo Piano

Renzo Piano: Innanzitutto va detto che Parigi è da sempre una grande città-laboratorio, da più punti di vista, certamente da quello sociale, ma anche urbanistico, architettonico e culturale. E ciò, proprio perché è una città che riesce ad acuire e far esplodere al suo interno conflitti, anche laceranti, per poi ricomporli e giungere – è il caso di dirlo – a esiti rivoluzionari. Situazioni come quelle verificatesi recentemente nelle banlieues esprimono drammi che solo Parigi può vivere, in quanto tali drammi sono il risultato di un’autentica segregazione. Se è vero che, in generale, il futuro delle città dipende dalla soluzione del problema delle periferie, è pur vero che in città come le nostre, o anche nella stessa Londra, per quanto difficile, tale problema non sembri irrisolvibile. A Parigi, invece, appare particolarmente difficile perché le banlieues costituiscono polarità satelliti in aperto antagonismo alla città storica. Inoltre, a Parigi il problema dell’integrazione sembra dipendere, più che dal razzismo, dalla disattenzione. Ricordo che quando si verificarono i fatti più gravi, due o tre anni fa, i Parigini sembrarono accorgersene solo quando i banlieusards presero a incendiare le auto parcheggiate in centro. Nelle famose Villes Nouvelles, in certe zone, si annidano sacche di grave disagio sociale sempre pronte a esplodere con rivolte esasperate dall’indifferenza della città e del governo, dato che nessuno sembra realmente sforzarsi di trovare una qualche forma d’integrazione. Oltre a ciò, mi sembra si possa dire che le Villes Nouvelles parigine nascano da un’interpretazione, se vogliamo più moderna, ma meno sottile delle New Towns inglesi, che invece aspiravano alla realizzazione un sogno, forse utopico, ma alquanto straordinario di giustizia sociale, o quantomeno rispecchiavano a una certa visione della società.

Renzo Piano - photo by Pietro Savorelli 

Jean Nouvel: Sono convinto che sia necessario uscire dall’ambito delle vecchie idee, in base alle quali si tende a pensare che la città possa essere “creata”, che possa essere “disegnata”. Non credo proprio, invece, che le cose stiano così. Nell’ambito degli studi economici si fanno ancora analisi su quel che è successo nel XX secolo, che ha comunque costituito l’avvento di una radicale trasformazione urbana, di un caos che ha prodotto ciò che doveva produrre, cioè cose a volte stupefacenti e poetiche, a volte assolutamente invivibili e caricaturali. Pertanto oggi siamo di fronte a questa situazione, e siamo pure di fronte a una scollatura di tipo politico e amministrativo, che fa sì che i territori urbani siano gestiti da diversi sindaci, da diversi amministratori locali e da diverse autorità. Tuttavia io non vedo assolutamente Parigi uscire da Parigi. Parigi è già là, e credo che il termine banlieue sia un termine ottocentesco che non dovremmo più usare. C’è una metropoli che è pur sempre una città. Ora questa città può anche avere i nomi di vari comuni che possono essere assimilati a ciò che erano prima i nomi dei quartieri. E allora mi sembra difficile dire se la frattura amministrativa sia davvero all’origine di tutti i problemi e di questo sviluppo caotico, anche perché quando ci si guarda attorno, ciò non appare poi così evidente. Perché se, per esempio, si prende in esame Londra, cioè una città molto più grande, ci si rende conto che anch’essa ha un suo centro e una sua banlieue. Marsiglia, che è un unico comune, presenta più o meno gli stessi problemi, dunque non è poi così automatico questo ragionamento. Quello su cui è più interessante riflettere, quello che va rimesso in discussione è il metodo stesso di pensare e di programmare lo sviluppo urbano. Io sono convinto di questo, lo dico da trent’anni e non mi stanco di ripeterlo.

Jean Nouvel - photo by Pietro Savorelli

S. F.: Partendo da quali premesse si può rimettere in discussione l’attuale modo di programmare la città?
J. N.: Innanzitutto rendendosi conto che ancora subiamo l’eredità della Carta d’Atene, ossia dello zoning più elementare, che impone una suddivisione del territorio per singole funzioni, vale a dire raggruppando in una zona tutte le attività industriali, in un’altra tutte le residenze, in un’altra ancora tutte le attività terziarie e così via. Per un attimo abbiamo creduto che le cose fossero un po’ cambiate anche in seguito a un certo dibattito cui ho preso parte. Ci eravamo detti: ”bisogna assolutamente cambiare il modo di pensare la città francese che non deve essere più pianificata nelle prefetture”. Perché erano le prefetture che programmavano perfino il Piano di Occupazione dei Suoli, lo Schéma Directeur, applicando sempre lo stesso modello da Dankerque a Marsiglia, seguendo sempre gli stessi principi, sia per una città di 10.000 abitanti, sia per una di 60.000. Mancava cioè qualsiasi riflessione che muovesse da un’analisi attenta, puntuale, mentre ciò è proprio in cui credo, come credo nell’analisi storica e geografica. Così come credo che le programmazioni pluriennali siano delle stupidaggini. Ricordo, infatti, che quando si lavorava su proiezioni ventennali, ogni previsione era sempre smentita dai fatti, la cui evoluzione non seguiva mai il percorso ipotizzato. Per questo le nostre Villes Nouvelles sono dei fantasmi, con un’estensione che si sviluppa a macchia d’olio, appoggiandosi su città che già esistevano e di cui sono diventate le caricature. Questo modo di procedere non è praticamente mai cambiato, questo è il processo che bisogna rimettere in discussione.

view from Centre Pompidou - photo by Pietro Savorelli

S. F.: Tuttavia, nonostante le giuste critiche, l’epoca delle Villes Nouvelles e delle New Towns coincide con l’ultimo momento in cui si è avuto un ampio dibattito internazionale sul tema della casa. Tema fondamentale per la costruzione delle città, poi passato in secondo piano per la maggiore attenzione rivolta all’edificio speciale come il museo, la biblioteca, ecc., ossia a quei progetti che sono stati identificati con i Grand Travaux, o i Cantieri dei Presidenti. Non pensate che il dibattito sulla Grande Parigi possa ridare centralità al progetto della residenza che proprio in Francia e nella capitale ha una tradizione così illustre?

Jean Nouvel, Musée du Quai Branly

R. P.: Me lo auguro! Anche se in realtà la stagione dei Grand Travaux fu inaugurata, agli inizi degli anni ’70, proprio dal buon Centre Pompidou – che non si chiamava ancora così, bensi Plateau Beaubourg – e poi proseguita con i grandi cantieri di Mitterand. Stagione che altro non ha espresso se non una visione sostanzialmente retorica della città, perché mirata a celebrare la capitale, in modo anche un po’ astratto. Per l’amor del cielo, lungi da me il moraleggiare, però è vero che dopo di allora l’attenzione si è progressivamente allontanata dal tema della casa. Invece, ai tempi di Jean Prouvé, cui ero molto legato e che venivo a trovare da studente, ci si muoveva più sul terreno della prefabbricazione, soprattutto di quella cosiddetta “pesante”. Si aveva una visione sociale del costruire, era l’epoca dei Grands Ensembles, progettati da pochi architetti straordinari che dedicavano, in maniera davvero umile, il proprio tempo e il proprio sapere a costruire bene le case popolari. Alcuni di questi edifici sono particolarmente interessanti, anche perché in essi era presente una costante ricerca, una continua sperimentazione dei vari sistemi. Quando ero studente me li andavo a vedere e a studiare tutti, perché in quei progetti coglievo la speranza di dare corpo al sogno etico e politico di una casa per tutti. C’era il modello russo che giudicavamo opprimente, stalinista, e poi c’era il modello francese che trovavamo invece molto più interessante. C’era dietro a tutto quel fermento una tradizione sostanzialmente sociale. C’era, è vero, una grande attenzione, in generale, al tema della residenza che mi sembra culminasse proprio negli anni ’60, gli anni in cui mi sono laureato.

Jean Nouvel, Musée du Quai Branly

J. N.: In Francia siamo stati pionieri anche nel tema degli alloggi sociali, ma siamo stati caricaturali anche lì, e ciò perché abitare non è soltanto avere un alloggio, ma è soprattutto sapere quello che si fa, anche quando non siamo a casa nostra o accanto a casa nostra. Abitare è sentirsi a proprio agio in un territorio che è tutt’intorno alla casa, che è vissuto quotidianamente e regolarmente, mentre il nostro habitat sociale è stato spesso segregato. Il tema dell’alloggio sociale non si affronta unicamente disegnando la pianta di un appartamento, il dettaglio di un balcone, la struttura in cemento armato dell’edificio. Vuol dire soprattutto porsi delle domande: ”si sta bene qui, ci si può vivere a tutte le ore del giorno e della notte? Mi sento solo? Ho intorno a me ciò di cui ho bisogno?”. Tuttavia credo che il problema dell’abitazione sia terribile.

render of La Défense with the placement o Tour Signal project and future buildings

Terribile perché le norme per la progettazione degli alloggi sociali non sono cambiate, la pressione speculativa e le logiche del profitto economico fanno sì che le case siano sempre più piccole. E inoltre una casa vale molto se è in città ed è là che si rivolgono le maggiori attenzioni. Quindi, la sola speranza di ottenere delle case decenti, in fin dei conti, è nella riconversione dell’edilizia esistente. Infatti, ogni volta che si riconverte un qualche vecchio edificio, si ha la speranza di non dover soggiacere alle norme che ammazzano o ai metri quadri che soffocano e, in questo caso, si ha anche la speranza di poter prendere qualche scorciatoia, d’inventare qualche stratagemma. Altrimenti il punto di partenza posto dal quadro normativo è mortale.