area 101 | álvaro siza

location: Studio Álvaro Siza, Porto

year: 2008

Studio Álvaro Siza, Porto, July 19th 2008
photo by FG+SG

François Burkhardt: Come spieghi il successo e l’interesse nei confronti della tua opera?
Alvaro Siza: Negli anni Sessanta ero praticamente sconosciuto, poche persone mi conoscevano in Portogallo e quasi nessuno in Spagna. L’avvenimento che ha fatto scoprire l’architettura portoghese in tutto il mondo è stata la rivoluzione del 1974. Il momento politico che l’Europa stava vivendo faceva sì che si fosse concentrata molta attenzione sugli accadimenti portoghesi. Solo allora moltissime persone sono arrivate per vedere cosa stava succedendo, tra di loro una serie di architetti, fra cui Bernard Huet allora direttore de “L’Architecture d’aujourd’hui”, che dedicò spazio al mio lavoro.
F.B.: La pubblicazione, se non mi sbaglio, è del 1978.
A.S.: Sì, ma lui era già venuto in precedenza. Fece un primo articolo per documentare il mio lavoro per il SAAL1 e poi mi dedicò un numero monografico. Il primo. Bisogna citare altre due persone che si sono interessate molto presto al mio lavoro. Prima ancora di Huet, Vittorio Gregotti con un articolo molto generoso pubblicato su “Controspazio“, e Oriol Bohigas che fece una presentazione su “Arquitectura Bis“. Bisogna citare anche Pierluigi Nicolin con la presentazione su “Lotus” dei lavori per il SAAL.
F.B.: In quel momento storico il Portogallo stava subendo un forte influsso italo-iberico, soprattutto italiano.
A.S.: Anche il tuo invito a partecipare alle “Settimane della Progettazione“ del 1975 fu una cosa inaspettata.
F.B.: A Berlino dici?
A.S.: Era strano che un architetto portoghese fosse chiamato a Berlino, con professionisti di fama internazionale, a fare proposte per l’integrazione dell’architettura contemporanea in un ambiente storico; anche se c’erano architetti bravissimi come Fernando Távora, fatto piuttosto curioso dato che Távora era membro del CIAM e conosceva tutti gli architetti del TEAM X. Lui aveva un certo pudore e non gradiva la diffusione del suo lavoro. Ritornai a Berlino nel 1977 in occasione della presentazione della mia mostra che fu presentata anche al PAC di Milano. In seguito fui invitato a partecipare all’IBA2 di Berlino e dopo iniziai a lavorare in Olanda, ancora una volta in un quartiere complesso dove il 50% degli abitanti erano immigrati. È stato molto difficile liberarmi dall'idea di essere uno specialista di progetti di partecipazione e ho dovuto fare molti concorsi per trovare un lavoro diverso da questo genere, poiché avevo bisogno di altre esperienze progettuali.
F.B.: Invece il riconoscimento in Portogallo è arrivato molto più tardi…
A.S.: In Portogallo ero conosciuto durante il periodo precedente il ’74, quando c’erano pochi architetti e poco lavoro. I lavori erano appannaggio di alcuni professionisti molto vicini al regime e il loro accesso era molto difficoltoso. In seguito ci fu il progetto di Boa Nova che inizialmente non era stato ricevuto positivamente e solo dopo che il mio lavoro ha iniziato ad avere molti consensi, è riuscito ad ottenere anche un successo popolare. Successivamente sono stato chiamato da un’agenzia di banche per progettare alcune filiali. In quel periodo ero già considerato un architetto che poteva fare qualcosa per l’immagine dell’agenzia di una banca, era lo spirito dell’epoca. Ma il SAAL, rispetto alle possibilità di lavoro in Portogallo, è stato disastroso perché dopo lo sconvolgimento politico coloro che avevano lavorato per questo progetto sono stati emarginati, la polizia ha iniziato a fare inchieste sugli architetti che vi avevano partecipato con l’idea che fossero militanti del partito di estrema sinistra.

photo by FG+SG

F.B.: L’aver costruito molte ville per la media borghesia è stata un’esperienza che hai riversato anche nel lavoro con il sottoproletariato. Ritieni che sia stata utile?
A.S.: Moltissimo. Mi ricordo che quando ho cominciato il SAAL fui chiamato da alcuni studenti, perché la scuola aveva un ruolo di contatto con gli abitanti del centro di Porto. Fecero inchieste nella zona storica di Barredo, un’area molto povera del centro, relativamente alle condizioni di vita. Era un quartiere terribile ad altissima densità. Molte famiglie abitavano nella stessa stanza con problemi sociali incredibili. Alcuni studenti aderirono al programma SAAL poiché vivevano e conoscevano personalmente i problemi degli abitanti e uno di questi era Souto de Moura. Parlammo a lungo e mi dissero che erano molto interessati a questo programma poiché conoscevano la gente di São Victor, che aveva chiesto aiuto, ma c’era bisogno di un progettista. Alcuni architetti, impegnati politicamente, mi dissero che non ero pronto per un progetto come questo perché ero abituato a progettare case borghesi. A questa obiezione risposi che proprio quella esperienze mi aveva reso preparato perché progettare una casa per una famiglia significa dialogare obbligatoriamente con il capofamiglia, la moglie, la suocera, con il vicino e l’amico a cui non piace il progetto. Quindi sono abituato al dialogo. Credo che sia la cosa più necessaria per questo genere di programma e infatti dopo ho realizzato in pochissimo tempo svariati lavori, perché il SAAL è durato tre anni, molti dei quali concentrati sul problema del dialogo, e solo in seguito siamo riusciti ad avere un progetto concreto e a costruirlo. Progetto e dialogo dovevano essere portati avanti contemporaneamente, confrontare idee e concetti attraverso la discussione con la gente. Altri avevano idee diverse, credevano di fare una pianificazione esaustiva prima di costruire una casa. Ad esempio Távora ha fatto un lavoro molto importante per Miragaia, una zona del centro, ma alla fine non ha costruito niente perché non ha avuto il tempo di passare dalla pianificazione al progetto dettagliato. Dunque è un problema di strategia. Si partiva dagli studi sull’abitazione sociale, il rapporto tra cucina e salotto etc., ma alla fine si discuteva della città. Era stata creata una commissione di progettisti e di abitanti e nella fase finale della discussione il tema della ricerca era la città. Nell’ultimo periodo gli abitanti avevano una commissione, all'interno del Comune, che discuteva con i politici e aveva molta forza. Questa è la connessione che trovo tra il lavoro interiore e la preparazione al progetto del SAAL.
F.B.: Cosa hai potuto utilizzare delle informazioni fornite dalle persone che hanno partecipato a questo progetto e fino a che punto hai potuto tener conto delle loro osservazioni?
A.S.: La discussione con le persone ci obbligava ad una riflessione più aperta e creativa, assolutamente indispensabile per raggiungere la certezza di quello che si fa. Ci sono molti modi per ottenere questa convinzione, ma in quel periodo non ne esistevano: l’architettura dell’International Style era sommersa dalla critica, a partire dal CIAM, e il periodo eroico degli anni ‘30 e ‘40 era finito. L’ambiente del CIAM, ogni volta che si riuniva, era da un lato pieno di inquietudine, di urgenza di cambiare, dall’altro colmo di difficoltà nel trovare punti di appoggio per qualsiasi mutamento. In Italia il Neorealismo aveva dato un enorme impulso, non solo all’architettura, ma anche al cinema, alla letteratura etc. C’erano nuovi riferimenti per affrontare una diversa concezione del lavoro che non era la stessa degli anni eroici. Lavorare con gli abitanti di Porto e anche in Olanda, seppur in condizioni politiche diverse, è stato molto utile al fine di individuare il ruolo dell’architetto, cosa fare e che legittimità utilizzare per poter intervenire. Soprattutto in seguito a un periodo in cui lavoravo per una banca che mi chiedeva di progettare un edificio emblematico, di creare un’immagine in grado di richiamare l’attenzione del pubblico: questo lato pubblicitario del fare architettura lo ritengo piuttosto deprecabile. Si possono produrre belle opere, ma si sente comunque qualcosa di gratuito dietro a quello che si fa. Solo dopo pochi anni parlare di progetti di partecipazione era divenuta una cosa proibita, inaccettabile. Un architetto che affrontasse questo tema, trattato per molti anni su tutte le riviste, era considerato disprezzabile. Non senza un fondo di ragione perché con la scusa della partecipazione fu costruita pessima architettura.

photo by FG+SG

F.B.: “La terza via” ti dice qualcosa? Nella ricerca del vostro gruppo di Porto, condotto allora da Tàvora, cercavate un’alternativa sia al razionalismo legato a un modernismo internazionalista, ma anche molto legato alle speculazioni. Non eravate d’accordo nel produrre un’architettura di partito, del partito fascista dell’epoca, perché aveva una monumentalità che non dimostrava un principio democratico e in più non eravate d’accordo con lo stile vernacolare che si faceva nel sud del Portogallo, perché era molto kitsch.
Quindi, se ho capito bene, avete cercato una terza via influenzata dalla ricerca effettuata da Távora e da un gruppo di architetti portoghesi e pubblicata nel libro “L’architettura popolare in Portogallo”. Che influsso ha avuto nella tua architettura questo recupero dell’alta qualità dell’architettura popolare? E fino a quando? Poiché a me sembra che con il SAAL si sia concluso un percorso.
A.S.: Ha avuto un’influenza enorme su tutti gli architetti impegnati. È stato un fattore limitato in termini di tempo ma che ha prodotto una reale unità di lavoro. Non a caso in quel periodo è nata ”Architettura” una rivista che è diventata un organo molto importante per la nuova generazione, con Portas alla direzione. Il cosiddetto “Inquerito“3 ha coinvolto le due scuole di architettura che esistevano ed erano completamente opposte. A Porto l’interesse per l’Inquerito era generale. A Lisbona in quell’epoca c’era un scuola molto vicina al potere della quale alcuni elementi, tra cui Portas, vennero a fare la prova finale a Porto dove c’era Carlos Ramos, che è stato un uomo importantissimo. L’unione con la base politica è sempre stata fondamentale poiché lo studio era stato pagato dal governo. Questo studio sull’architettura nazionale intendeva indagare la direzione che doveva prendere in Portogallo. Invece è servita a mettere in discussione questa visione dell’architettura nazionale e ad evidenziare le diversità e le connotazioni delle varie culture esistenti anche all’interno di un territorio molto piccolo. Per me l’aspetto più importante dell’indagine è stato questo. Non propriamente formale, perché era evidente che le condizioni di produzione negli anni ‘50 e ‘60 non erano le stesse e pertanto la parte formale poteva servire come una base di appoggio molto limitata per un vero rinnovamento dell’architettura. Era una questione di spirito e di attenzione al rapporto con il paesaggio, alla coesistenza dei vari nuclei, ai villaggi etc.
F.B.: Parli di modelli perenni: stabili e continui, però metti in evidenza anche una fase totalmente opposta, quella che tu chiami “la stratificazione momentanea”. Contrariamente a coloro che pensano al perenne e all’eterno tu pensi ai passaggi che cambiano continuamente le cose e quando parlo di stratificazioni affermi che anche nella tua opera immagini la venuta di una nuova sovrapposizione che andrà a modificarla. Quindi non hai questo legame con l’eternità dell’architettura. Come arrivi a conciliare questi due principi: un’architettura che ha qualcosa di moderno, perenne e la transizione?
A.S.: Questa è una domanda molto difficile. Ma parliamo di funzionalismo, io mi considero un funzionalista.
F.B.: Ma lo sei veramente?
A.S.: Certamente! La cosa più difficile in un progetto è iniziare. È come prendere l’estremità di una maglia di un tessuto e cominciare a disfarlo poco a poco. Per me una delle estremità principali è la funzione. Per fare questo lavoro c’è bisogno di un programma funzionale fantastico. Lo sviluppo di un progetto è la liberazione dal rispetto delle funzioni. Liberare nel senso di non rispettarle, proporre qualcosa che può prendere molte vie diverse. L’esempio più significativo è stato evidente nel progetto di un convento, un edificio progettato per una comunità con una vita molto speciale e unica. Dopo aver tenuto in considerazione questo aspetto così esemplare di tale tipologia si vede, però, che un convento nel corso della sua storia si è spesso adattato a qualsiasi destinazione d’uso: museo, biblioteca, palazzo del Comune, caserma, tutto trova posto in un convento. Questo concetto di funzione per me è importante.
F.B.: Tu insisti continuamente sull’idea della trasformazione delle cose attraverso il tempo. Vedi il diritto dell’opera di entrare nella storia accanto a momenti già esistenti, e quando parli di archeologia utilizzi il termine per spiegare che le cose sono startificate e che anche il lavoro dell’architetto deve essere concepito come qualcosa di effimero che passerà e verrà coperto da uno strato nuovo. Sembri accettarlo, contrariamente agli storici che interpretano l’architettura come ciò che non deve mai modificarsi, che è eterna e che fa legge.
A.S.: Parlando di archeologia questo concetto è molto chiaro, perché gli strati che spariscono lasciano tracce. È interessante notare come sia possibile fare qualcosa di nuovo con un’informazione già disponibile e riuscire a farla bene, farla sembrare una scoperta, una cosa originale di reazione ad un tema imposto e poi scoprire che era già stato fatto. Ci sono tracce, talvolta invisibili, ma evidenti dei successivi interventi. Al Chiado, ad esempio, in seguito all’incendio i muri di molti edifici sono crollati liberando un grande spazio. Ad una quota più alta altri blocchi di case sono rimasti intatti collegati tra loro da una strada in pendenza. A questo livello esiste un convento, un po’ in rovina, ma consolidato, dove mi sono recato per studiare come intervenire, dopodiché ho deciso di ridurre la profondità di queste case e di creare un cortile e un patio, a un piano intermedio, che permetteva di diminuire il dislivello con la strada. Inoltre vi era una terrazza e un cortile con delle scale dove avevo intenzione di progettare un percorso. Ho pensato che sarebbe stata una buona soluzione costruire un insieme di rampe e scale per arrivare alla quota più alta, e questo l’ho scoperto andando direttamente sul luogo e studiandolo. In seguito un’esperta di storia mi ha mostrato un’antica incisione precedente il terremoto di Lisbona dove si vedeva che la scala già esisteva. Il luogo manteneva la traccia, l’influenza di questa preesistenza. La perennità dell’architettura mi interessa in questo senso: non rimane come una mummia, ma si consolida, non resta fissa ma può cambiare in tutto.
F.B.: Tu hai cominciato studiando arte. La tua architettura ha una grande forza di espressione scultorea e in fondo hai sempre sognato di fare lo scultore. Puoi immaginare che a un certo punto abbandonerai l’architettura per dedicarti completamente alla scultura?
A.S.: No, in fondo non lo dico seriamente. Lo penso quando ho una delusione lavorativa ma in realtà non credo di cambiare, temo che ormai sia troppo tardi. La scultura e il design mi piacciono molto come esperienze parallele, come percorsi non obbligati e divertenti. Però sono sicuro che ci sia compenetrazione tra quello che faccio come architetto e quello che faccio come hobby. I linguaggi della pittura, della scultura, dell’architettura, del cinema, della letteratura e della musica appartengono alla stessa famiglia, non ci sono frontiere tra queste attività. Oggi stiamo vivendo una sorta di ossessione per la specializzazione, e in questo modo si creano barriere, talvolta anche a causa di interessi corporativi. Non sono capace di vedere separatamente scultura e architettura. Ciò che è scultoreo è architettonico, è una specie di intrusione quasi legittima. La risposta ad alcuni temi spesso si avvicina più alla scultura, che ad altro. Il museo Ibere Camargo, ad esempio, è un progetto fortemente scultoreo, ma in modo quasi inevitabile poiché lo fronteggia una enorme specchio d’acqua. Sembra mare, ma in realtà è un fiume. Una linea verde, piccola e poco profonda. Inserire un edificio in un’area come questa, un edificio pubblico che deve avere una sua rappresentatività, obbliga a creare una forma concisa che diventa inevitabilmente scultorea per evitare il rischio della sua dispersione e sparizione. Porto Alegre è una città molto dinamica da vari punti di vista e aveva bisogno di un intervento di questo tipo. Il museo è solido, è un blocco scultoreo e l’ho progettato così perché molte emozioni mi conducevano in questa direzione. È stata l’unica volta, che io ricordi, in cui ho avuto un notevole consenso fin dall’inizio dell’opera.