area 104 | introverted architecture

Herzog & de Meuron, Tate Modern London, 2000 - photo by Margherita Spiluttini

L’idea che l’architettura si mostri attraverso la facciata, il suo aspetto esteriore, non può essere negato, in ogni caso non può costituire un assunto esclusivo, un a priori secondo cui il valore del progetto dipende in via preferenziale dal disegno del prospetto. Sono passati ormai trent’anni dalla Strada Novissima e senz’altro possiamo guardare a quell’esperienza con una sufficiente distanza poiché, al di là della propaganda momentanea, l’esperienza del postmoderno tendeva ad affermare non solo l’importanza della partitura architettonica e il carattere fondativo della composizione del fronte, quanto il senso ed il valore della città, della struttura urbana incentrata sulla strada. Da questo punto di vista, secondo una sequenza scalare già individuata da Leon Battista Alberti, ciò che indichiamo come l’esterno di un edificio non definisce altro se non l’interno, il limite, la sostanza che perimetra lo spazio urbano e con esso il disegno dei luoghi in cui si svolge la vita e le attività collettive. In concreto, oltre l’ambiente naturale e le architetture che lavorano alla scala del paesaggio, ogni architettura nella città finisce paradossalmente per essere interpretata, ma soprattutto vissuta, non già come un edificio solitario, piuttosto come frammento di un più generale progetto d’interni che descrive e rappresenta lo spazio abitabile della città in cui ogni individuo si muove superata la soglia del privato. Si tratta di una dimensione e una visione tutta introversa che individua ad ogni passaggio di scala un più ampio contenitore e mai una dimensione esclusivamente esterna. La città stessa e ogni ambito pubblico, in quanto spazio percorribile e misurabile, altro non è se non un luogo dotato di un confine che pertanto non può risultare, compiutamente, che un interno. D’altra parte qualsiasi architettura inserita e concepita come parte di un assieme più ampio è paradossalmente sempre e comunque introversa sia osservata dall’esterno che ovviamente abitata e percorsa dall’interno. Tuttavia in certi edifici tale condizione diviene assoluta e non relativa, evidente e fondativa e non semplice metafora, si tratta di una decisione e una dimensione ricercata e, ancora una volta, interna al progetto. Riflessioni che non esprimono però un inutile quanto pretestuoso giudizio di valore, non aderiscono ai precetti zeviani, del tutto superati, per i quali un’architettura è tale solo se contiene uno spazio interno ma, al contrario, raccontano scelte legate al valore dell’abitabilità di un luogo o dell’intangibilità dello stesso. A questi progetti Area rivolge in questo numero il proprio sguardo pubblicando una selezione di opere e quindi di testi che, per la loro natura introversa, rappresentano un’anima intenzionalmente timida o riservata non per questo meno efficace o priva di interesse.