area 155 | italian stories architecture between portrait and self-portrait

Se dovessimo rispondere a un amico straniero su quali siano i simboli riconoscibili dell‘architettura italiana degli ultimi anni credo avremmo non pochi problemi a individuare una risposta plausibile.
C‘è il Bosco Verticale di Stefano Boeri, un‘icona anomala che ha colpito l‘immaginario collettivo e mediatico, oltre ad aver avuto il pregio di fare discutere anche all‘interno della critica architettonica italiana e internazionale.
Lo stesso si potrebbe dire della Cantina Antinori di studio Archea, per un mix interessante tra monumentalismo domestico all‘italiana e capacità di adattarsi a un paesaggio così strutturato e insieme fragile. Con qualche parentesi aperta la “Nuvola” di Massimiliano e Doriana Fuksas, soprattutto per le attese di vedere trasformato un modello così fluido e differente rispetto al contesto italiano in un corpo di fabbrica reale. Importanti sono una serie di strategie progettuali per scheletri in cemento armato nel Sud del nostro Paese riportati felicemente in vita dalla coppia Cherubino Gambardella-Simona Ottieri. Alcuni originali interni domestici di Francesco Librizzi che hanno avuto un‘impressionante azione virale nella Rete su scala globale. Renzo Piano che diventa senatore a vita, primo architetto in questa posizione, e che spende la sua autorevolezza a favore della centralità civile dell‘architettura e sulle periferie come cuore di uno dei problemi nazionali da affrontare. L‘emergere di un professionismo maturo attraverso una serie di opere urbane che si distinguono per qualità diffusa come nei lavori di piuarch, Park e Labics, Pietro Carlo Pellegrini, Piero Lissoni e 5+1AA. I testi teorici di Pier Vittorio Aureli, anche se generati in un ambiente internazionale più legato al dibattito accademico tra Londra e New York. Mentre la rivista San Rocco, risultato di un collettivo di architetti, curatori e artisti italiani che dal 2010, ha generato un progetto critico ambizioso, dando voce a una nuova generazione di autori capace di rileggere la problematica relazione tra progetto contemporaneo e storia. E, per chiudere, una massa infinita di disegni, collage, fotomontaggi che hanno invaso la Rete con una modalità originale perché segni “teorici” ammalianti, ma poi diventando una vera e propria “maniera” stilistica che non sembra conoscere una reale evoluzione di senso. Fatta eccezione per Beniamino Servino e Luca Garofalo che in una serie di recenti pubblicazioni hanno prodotto un tentativo originale di crescita di questo fenomeno. Tutto questo non considerando alcune (ma non troppe) opere di grandi firme internazionali come il MAXXI di Zaha Hadid, la Fondazione Prada di Rem Koolhaas e la Fondazione Feltrinelli di Herzog & de Meuron, che mantengono l‘Italia nel circuito delle nazioni “aggiornate”. Poca cosa se si confronta l‘architettura con la moda, il cinema, il design, l‘economia alimentare, le bio-tecnologie o alcuni dei settori produttivi più evoluti e sperimentali del nostro Paese. Tutto, invece, in linea rispetto a una situazione generalizzata che vede la cultura architettonica globale avviluppata in una crisi profonda di strumenti e contenuti a causa di una metamorfosi globale che sta producendo domande inedite cui questa disciplina non sembra in grado di offrire, al momento, risposte innovative. L‘ultimo decennio ha vissuto nel panorama architettonico il progressivo affievolirsi della carica neo-monumentale di una forma estrema di International Style, materializzazione in scala simbolica del pensiero neo-liberista su scala globale, con il conseguente appiattimento delle differenze e di ogni forma di possibile cortocircuito alternativo. La crisi finanziaria del 2008 ha certificato una condizione di disagio profonda che nessuno voleva riconoscere, impastata contemporaneamente con una metamorfosi radicale dei nostri modi di vivere, trasformare e interpretare il mondo che ci circonda. Siamo come ciechi e impotenti di fronte a un cambiamento epocale che sta minando le fondamenta del pensiero occidentale moderno senza che si sia ancora in grado di leggere le tracce del mondo che ci accoglierà nei prossimi decenni. Non si tratta di una semplice crisi ma di una rottura epistemologica che corrisponde conseguentemente all‘incapacità di utilizzare parole e strumenti in maniera adeguata rispetto ai fenomeni che stiamo attraversando. Questo ci porta a guardare a termini come “nazione” e “identità” in maniera se non altro circospetta, per il grado d‘inquinamento simbolico di cui sono stati caricati negli ultimi due secoli. Mentre probabilmente parole come “comunità”, “luogo”, “corpo”, “bellezza”, “sensi”, “ecosistema” e “post-metropoli” ci potrebbero aiutare a ripensare l‘architettura in maniera differente e utile per gli scenari che si avvicenderanno nei prossimi anni. La grande sfida è quella di superare una dimensione antinomica che ha caratterizzato il pensiero globale negli ultimi secoli: uomo-natura, interno-esterno, pubblico-privato, città-campagna, casa-strada, reale-digitale, tecnico-manuale sono solo alcuni dei pensieri rigidamente binari che appaiono superati da una realtà che sta cambiando molto rapidamente proponendo sfide nuove alla cultura contemporanea e al mondo del progetto, indipendentemente dalle latitudini di riferimento. Cosa consentirà all‘architettura di continuare a essere considerata un‘arte civile, utile e necessaria al di là della capacità dei singoli autori di conferire qualità profonda agli spazi che verranno realizzati? Cosa permetterà a una comunità sempre più fluida, instabile, individualizzata di riconoscersi in un‘architettura al punto da considerarla un monumento contemporaneo? Si tratta d‘interrogativi universali su cui anche l‘architettura italiana contemporanea è chiamata a dare risposte originali e spiazzanti, lasciando definitivamente alle spalle questioni impalpabili come lo stile o il momentaneo peso mediatico di sirene che cercano di convincerci che l‘architettura evaporerà per sempre tra un fruscio di foglie o il tintinnio dei bit.
Credo sia necessario partire da una premessa che ci ha sempre (ahimè) distinto dalla maggior parte degli altri paesi occidentali: l‘architettura moderna è un problema per la maggioranza della società italiana. La cultura architettonica italiana, che nel secolo scorso ha prodotto capolavori di astrattismo mediterraneo, opere capaci di mediare tra continuità, tradizione e contemporaneità, visioni radicali capaci d‘intuizioni fulminee sul mondo che cambiava, pensieri e monumenti neo-razionali e universali, è comunque rimasta il prodotto di una élite che raramente ha avuto la forza d‘incidere diffusamente sui destini del nostro territorio che, nel frattempo, ha moltiplicato la sua superficie costruita di almeno dieci volte. Quindi non è vero che in Italia non si costruisce, ma è invece tristemente chiaro che l‘architettura, quella degli autori capaci di fare la differenza, non ha avuto la forza e la possibilità di rendere questa disciplina un fatto riconosciuto socialmente e apprezzato.
A questa condizione, per contrasto, va affiancata un altro elemento rappresentato da quell‘anomalia culturale che solo l‘Italia aveva saputo elaborare nel secondo dopoguerra, capace di mettere insieme arcaico e avanguardia, storia e modernità, figura dell‘uomo e astrazione, dettaglio e industria, disegno e visione, teoria e problematicità.
Tra la fine degli anni Trenta e gli anni Ottanta la cultura architettonica italiana è stata una delle realtà più sofisticate e originali sulla scena internazionale grazie a una serie di scritti e visioni che, malgrado le sue difficoltà politiche e sociali, hanno avuto la forza di diventare pensiero universale, riconosciuto e condiviso oltre i nostri confini.
Gli scritti teorici e le riviste ideate da Giuseppe Pagano, Luigi Moretti, Ernesto Rogers, Gio Ponti, Bruno Zevi, Aldo Rossi, Vittorio Gregotti, Manfredo Tafuri, Giancarlo De Carlo, Alessandro Mendini, Ettore Sottsass, Franco Purini, Andrea Branzi, Paolo Portoghesi, Pier Luigi Nicolin e Marco De Michelis (solo per ricordare le punte più alte) sono stati un punto di riferimento virale originale nel contesto internazionale perché si nutrirono dell‘anomalia di un Paese in fragile equilibrio tra memoria profonda e modernità imperfetta.
Con la fine del secolo appena passato la carica ideale di almeno tre generazioni d‘autori si è andata esaurendo in un combinato composto tra i tanti rivoli auto-referenziali dell‘accademia, che non ha avuto la capacità di nutrire altre anomalie, e un Paese che si è progressivamente normalizzato e involgarito nel ventennio televisivo berlusconiano.
Le risposte durante gli anni Novanta sono state differenti muovendosi tra un necessario aggiornamento internazionale, il rinnovamento di parole d‘ordine e orizzonti culturali, la riscoperta della matrice radicale-situazionista e l‘eccitamento digitale, senza che però si rigenerassero condizioni di originalità rispetto al contesto globale, ma piuttosto dando la sensazione che l‘Italia fosse diventata un‘ospitale provincia dell‘impero.
Anche il contemporaneo richiamo al Regionalismo Critico, una comoda coperta di Linus che ha risvegliato la nostra sopita voglia di strapaese, evoluta grazie a linguaggi architettonici più evoluti (portoghesi, spagnoli o olandesi che fossero), ha solo avuto la capacità di aggiornare il lessico costruttivo dell‘ultima generazione di costruzioni, senza però generare una riflessione autonoma capace di offrire una via originale a questo movimento transnazionale di domesticazione del moderno.
Uno dei meriti importanti del lavoro della generazione di fine secolo è quello di avere scassato il formalismo di Scuole e baronetti che stavano asfissiando le nostre università, portando un vento diverso, aperto al confronto con realtà tecnologicamente e socialmente più evolute, e affiancato da quella straordinaria rivoluzione Erasmus che in Italia ha avuto un peso fondamentale.
L‘azione individuale e congiunta di Mirko Zardini, Stefano Boeri, Francesco Garofalo, Mario Lupano, e Pippo Ciorra ha avuto un profondo effetto sul riposizionamento culturale del nostro Paese e sulla definizione di nuove parole d‘ordine che hanno segnato le generazioni più recenti di progettisti.
In contemporanea il lavoro teorico e progettuale di Cherubino Gambardella, Carmen Andriani, Aldo Aymonino e Alberto Ferlenga ha cercato di ridefinire i caratteri di una continuità-rottura necessaria con la cultura del progetto interno all‘accademia, riflettendo criticamente sui contenuti profondi di una tradizione del moderno italiano e traghettandoli verso una fase nuova, in cerca di un‘identità differente.
Questo fenomeno di ridiscussione faticosa dei caratteri del progetto italiano ha avuto anche la forza di riportare il nuovo professionismo italiano in un ambito differente e di guardare a questo mondo come a una risorsa centrale per promuovere una qualità media, diffusa di cui le nostre città avevano un disperato bisogno.
Sono pochi i Paesi come l‘Italia che possono vantare una eterogeneità linguistica e di esperienze progettuali tanto ricche e differenti come quella che è apparsa dall‘inizio di questo nuovo secolo e continua, generazione dopo generazione, a crescere.
È indubbio che la qualità media del costruito nelle nostre città è migliorata in questi ultimi due decenni, ma sono tali i danni e il devastante consumo territoriale avvenuto in precedenza, da rendere questa percezione velleitaria.
Le architetture, nella loro media diffusa, appaiono meglio pensate e disegnate, con un significativo pensiero urbano e linguisticamente aggiornate, ma ancora troppo schiacciate dalla necessità di essere accettate da un mercato immobiliare poco innovativo e da amministrazioni pubbliche senza visione e strategie.
Quindi non basta quest‘ondata di architetture “gluten free” per riportarci a una condizione differente. Forse è arrivata tardi dal punto di vista della percezione storica e dal fatto che dobbiamo confrontarci con un patrimonio edilizio realizzato negli ultimi cinquant‘anni sempre più obsoleto e ingombrante, oltre al fatto che sono diventate altre le priorità a cui la nostra architettura deve guardare.
Per complessità dei problemi strutturali (patrimonio edilizio pubblico obsoleto, infrastrutture da ripensare, fragilità ambientale, invecchiamento della popolazione), compresenza di arretratezza di una parte dei settori produttivi ed estrema avanguardia tecnico-artigianale, posizione geografica nel cuore dello scacchiere mediterraneo, debolezza di un quadro sociale dominato da paure, resistenze, depauperamento generazionale, mancanza di visione politica sul futuro, rottura sempre più evidente tra Nord e Sud, l‘Italia continua ad essere potenzialmente un Paese-laboratorio a cui anche la nostra architettura potrebbe fornire visioni e strategie alternative per lo sviluppo di scenari possibili.
Non alludo con questo alla ricerca di nuovi stili e linguaggi “italiani”, né alla definizione di contenuti identitari che spesso appaiono più figli della malinconia di un tempo passato che elaborazione di visioni per i prossimi futuri, quanto a un cambio di atteggiamento culturale e alla capacità di riguardare a queste anomalie paradossali come a leve da cui ripensarsi in maniera strutturale.
Questo numero di Area vuole essere il primo di una serie di “Storie Italiane”, piccole e grandi, passate e future, che ci aiutino a leggere le ricchezze presenti nel nostro Paese come ad alcuni dei possibili scenari con cui la cultura architettonica italiana dovrebbe confrontarsi per interrogarsi sul futuro della nostra disciplina e sulle sue potenzialità sociali, produttive e culturali.
Si tratta di esperienze che ancora credono nella relazione tra pensiero teorico, disegno della forma come contenuto profondo, cantiere come laboratorio e relazione con l‘industria come occasione di sperimentazione, tutti elementi che hanno da sempre caratterizzato la sostanza dell‘anomalia italiana e la sua relazione strutturale e simbolica con l‘Europa e il Mediterraneo.
Siamo ormai entrati in una fase storica in cui il limite drastico al consumo territoriale obbligherà l‘architettura a pensare il proprio ruolo sociale e politico in maniera drasticamente differente rispetto ai secoli precedenti.
La visione della realtà come eco-sistema complesso è una delle chiavi di lettura che riporta l‘architettura nell‘alveo di una società che guarda alla qualità della vita come a un centro ineludibile per il futuro. Per queste ragioni il lavoro sulla periferia come luogo di ricucitura di Renzo Piano, i progetti recenti di Mario Cucinella o le provocazioni futuribili di Carlo Ratti hanno avuto tanta enfasi pubblica, perché colpiscono al cuore delle paure e dei desideri di un corpo sociale più trasversale, diventando pensiero tecnico, poetico, teorico e politico.
A questo è importante affiancare un patrimonio culturale dell‘architettura italiana ed europea rappresentato dall‘idea urbana del progetto e della visione del corpo di fabbrica come “palazzo in forma di città”.
La capacità di produrre pensiero urbano anche in un semplice interno domestico o di guardare a un‘architettura come a un frammento più complesso, vivo, che introietta la ricchezza ed eterogeneità dell‘ambiente urbano, è un altro carattere che va continuamente ripensato, soprattutto in una fase storica che porrà sempre di più il tema della densificazione dell‘esistente. Quella linea mediana che mette a sistema Villa Adriana, i palazzi ducali di Urbino e Mantova con le intuizioni di Giancarlo De Carlo per i Collegi Universitari di Urbino, le visioni agroniche di Archizoom e Andrea Branzi con gli immaginari estremi di Baukhu, 2 a + p e Dogma, Pienza verso il centro storico di Terni di Ridolfi e le ricuciture urbane di Archea, o il recente progetto per la BNL a Roma dei 5+1AA, mostrano una genialità urbanistico-architettonica a scala 1:500 che continua a fare la forza del progetto italiano. Insieme a tutto questo, però, la nostra architettura dovrebbe recuperare il gusto e la sfrontatezza del graffio, dello scarto improvviso che spaia e disorienta, del cambio di punto di vista che si fa corpo di fabbrica e intuizione graffiante sul futuro. Questa normalizzazione necessaria ha portato a una castrazione formale e degli spazi che è invece una delle forze dell‘architettura universale. Il mondo che verrà avrà sicuramente bisogno di meno opere nuove, nessuna necessità di narcisismi autoriali superflui, ma piuttosto di lavori capaci di rallentare il nostro passo, accoglierci in maniera inattesa e farci riflettere sulla potenza che può avere uno spazio ben pensato e che abbia il potere di risvegliare quella necessità di assoluto che trasforma un singolo edificio in un monumento condiviso. L‘arco di S. Andrea di Leon Battista Alberti, l‘esedra di Villa Giulia o la Sala dei Giganti di Giulio Romano, la corte circolare di Caprarola, le geometrie vertiginose di Borromini e Guarino Guarini, le scale domestiche e monumentali di Sanfelice, le “follie” di Antonelli e le curve sensuali di Mollino, la Casa del Fascio di Terragni e le forme imperfette di Moretti, i micro-monumenti di Scarpa e la Genova interiore di Albini, il Cimitero di Modena di Aldo Rossi e la Torre Velasca dei BBPR hanno spinto autori come Italo Rota, Renato Rizzi, Pietro Carlo Pellegrini, Cherubino Gambardella, Elastico di Stefano Pujatti, Vincenzo Latina e Marco Navarra a pensare e realizzare oggetti imperfetti, perturbanti, necessari per l‘anima profonda di ogni luogo. Un ultimo scenario è rappresentato da quello che Mario Lupano definì alcuni anni fa “Lo-Fi”, indicando la necessità di un‘architettura capace di non essere aggressiva, capace di combinare tecnologia digitale, pensiero astratto e tradizioni in maniera contemporanea, a basso budget e lavorando sulle sotto-tracce che la realtà ci offre continuamente. Questa definizione sembra perfettamente sovrapporsi ai lavori e alle metodologie applicate con intelligenza dall‘ultima generazione di autori italiani che stanno trovando un equilibrio interessante tra pratica della rappresentazione e progettazione nel reale, malgrado il rischio di un manierismo post-radicale che rischia d‘impoverire alcune di queste ricerche.
I risultati sono sorprendenti per finezza estetica, quasi impalpabili per la scala con cui sono costretti a confrontarsi, silenziosi al punto da rischiare di apparire invisibili ma non per questo privi di personalità, anzi. A questo si unisce una capacità di empatia sociale e capacità di costruire bottom-up esperienze di progetto capaci di coinvolgere comunità fluide e fare sistema. I lavori recenti di Al.Bo.Ri., Francesco Librizzi, Walter Scelsi, Laboratorio Permanente, Diverserighe studio, SET architect, Fosbury architecture, Orizzontale, Parasite 2.0, Supervoid, sono da seguire con molta attenzione perché raccontano di una metamorfosi importante nel fare architettura oggi con cui confrontarsi, non solo figlia della crisi ma di una scarto culturale ormai avvenuto.
Siamo entrati in una fase storica in cui all‘architettura si chiede l‘ambizione di nuove forme di pensiero critico e teorico: politico nel suo modo di andare contro i luoghi comuni e l‘appiattimento formalista, radicale nei modi di pensare, generoso verso le realtà che ci circondano, perturbante per la capacità di creare forme di empatia originali e vitali.
E tutto questo deve ricominciare dalle Scuole di Architettura a cui si chiede di tornare a produrre teoria e visioni, sperimentazioni e dialogo con le realtà più innovative nazionali e transnazionali per avviare la costruzione di generazioni di progettisti differenti, capaci di guardare al mondo in maniera diversa e di offrire soluzioni per i nostri paesaggi antropizzati di cui c‘è un urgente bisogno.