Quanti segni ci sono per fare i disegni? Che importanza ha il segno per il disegno? Cosa comunicano i segni di diverso spessore? Da Prima del disegno, Bruno Munari (Corraini,1996)

Per Munari, alla radice del progetto e del disegno, i segni sono le prime formulazioni di un pensiero da ricombinare in infinite variazioni, come quelli tracciati e raccontati in Prima del disegno, e come gli scarabocchi che illustrano Favole al telefono di Gianni Rodari, che mostrano le possibilità espressive di una scrittura primaria e automatica. La Libreria 121+ dedica una mostra (inizialmente prevista per novembre 2020, poi rinviata a causa del Covid) al segno di Bruno Munari, con opere originali su carta della Galleria Maurizio Corraini, disegni, scarabocchi su pagine di agenda, ma anche lavori in serigrafia e multipli che esplorano il tema del segno.
Sono Scarabicchi, Amuleti, segni curvi, orizzontali, verticali, spezzati, mossi... delle piroette saltellanti con cui la mano scivola sul foglio. Ed ecco che, giocando con le parole improvvisazione e casualità, il segno diventa la cifra della sperimentazione più libera, e sulla carta compaiono figure, tratti spessi e sottili, segni bizzarri che creano un racconto fatto di linee.

“Anche a noi (soprattutto a noi architetti, designer, grafici, illustratori, modellisti, prototipisti, stylist che siamo perseguitati dalle immagini) servirebbe uno psicoanalista che ci proponesse il gioco, profondamente garbato, dello squiggle: uno scarabocchio da sviluppare in disegno e da lì in racconto. […] Lo scarabocchio non è dunque solo uno scarabocchio (e tanto meno se si traveste da “scarabicchio”), è uno “strumento mirato”, salvifico: è uno specchio dell’anima e dell’inconscio. Ben lo sapeva Bruno Munari. Ben lo sapeva se, introducendo “Prima del disegno” (1996), scriveva “Quanti segni ci sono per fare i disegni?” e poi partiva con la mano, con la biro, con la matita, con il pennello, su fondo bianco o su carta colorata, dentro un ideogramma o fuori nel cielo aperto a tirar segni (tirar segni alla luna, raccogliere cerchietti come acini d’uva e colature di succo come zampe di ragno). Infatti un sospetto ci rimane sugli scarabicchi di Munari: che il “Nostro” il cervello non lo avesse spento affatto e che non si tratti quindi di una “scrittura automatica”, ma piuttosto del voler arrivare (o meglio farci arrivare) in un certo punto: un punto alla Munari, chiaro solo a Munari. Un punto dove, attraverso l’automatismo del gesto, ci aspetta una risposta. È la stessa cosa come tagliare un’arancia, non per mangiarla, non per spremerla, ma per mostrare le leggi eterne della natura. È la stessa cosa che “scrivere” linguaggi sconosciuti di popoli non esistiti (per leggere il rincorrersi di “belle calligrafie” etrusche o sumere o aborigene). È la stessa cosa che mettere l’arte in valigia, per poi, arrivati in una camera d’albergo, tirarla fuori...”. Marco Romanelli

La mostra amplia e arricchisce la riflessione nata con il libro Munari per Rodari, e ripropone la stessa leggerezza e la capacità di dare vita a mondi fantastici mettendo insieme elementi apparentemente opposti e lontani.