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la visione dello chef Davide Scabin

Davide Scabin è il creatore di Combal.zero. Tutti i tempi e i ritmi legati al cibo sono esattamente calcolati con attenzione e cura del dettaglio. Ha incrementato il valore dello scenario del food con la sua personale coreografia, diventando precursore dell’”art & food design”. Dalla cucina di Combal.Zero, sulla meravigliosa collina del Castello di Rivoli e del Museo d’arte moderna, Scabin incanta gli ospiti con i suoi lavori unici, dopo lunghi studi sulla materia prima e le forme, le consistenze e le temperature, orientando la sua ricerca a scoprire le nuove tendenze del design.

Check Salad
Check Salad

area: In che modo la sua cucina applica il design al cibo?
davide scabin: Il design applicato al food ha in genere una valenza prevalentemente estetica e trascura molti degli aspetti di ergonomia e funzionalità che fanno di un progetto, un vero progetto industriale. Ciò che per me significa food design oggi è invece un’espressione meno visibile, mi interessa creare una condizione progettuale. Ad esempio nel 2006 con “Scabin Salt System” ho ripensato a un nuovo sistema di salatura, scientifico e inconfutabile. Skube sono delle pasticche di sale compresso, con un taglio centrale che permettono di salare secondo il tempo di cottura, senza considerare né il peso né il volume dell’acqua impiegata. Ho realizzato 3 pasticche che, combinandole, consentono di dare scientificità alla salatura, traendone notevoli vantaggi anche per la salute. I miei spaghetti al pomodoro con questa premessa del sale, diventano un piatto di design applicato al food.
Nel 2007 ho progettato IT, Identity Taste. IT è una visione molto futuribile di un mio progetto che crea una carta d’identità del gusto. Attraverso un kit di autoanalisi con delle soluzioni liquide ognuno testa quello che è il suo punto di gradimento su una scala Scabin di 6 punti. IT può essere applicato anche su vasta scala sociale, aiutando a diminuire l’utilizzo di sale. I “Cyber Eggs”, i primi sono del 1997, hanno invece un approccio totalmente immediato, e sono dotati di una valenza totalmente estetica.
area: Come si è evoluta la cucina negli ultimi anni? Si registra un’evoluzione nell’uso dei materiali e delle forme?
D.S.: Il tavolo è rimasto così com’era 60 anni fa, i ragazzi delle nuove generazioni per esempio sono mediamente 5 cm più alti, ma le cucine molto spesso non hanno ergonomia nelle misure, né nelle forme. I cassetti sono inutili, servirebbe piuttosto una piastra calamitata, dove i coltelli rimangano fermi, in ordine e senza che rischino di caderti su un piede… Gli spigoli di una cucina sono un altro dettaglio trascurato; così come gli angoli che, se hanno valore estetico, sono anche sede di batteri, difficilmente lavabili, quindi poco igienici.
area: Che caratteristiche deve avere la cucina oggi? Come dev’essere la luce?
D.S.: La luce ideale per la mia cucina è identica a quella della sala in cui il cliente sta consumando il mio piatto. Avere la stessa luce significa controllare le medesime scale cromatiche e dunque vedere il piatto così come lo vede il cliente. Nella mia cucina lavoro anche stando seduto, proprio perché quando devo preparare il piatto voglio avere lo stesso angolo visivo del cliente.
area: Quali devono essere le caratteristiche del piatto? Che forma dovrebbe avere?
D.S.: Solitamente usiamo piatti quadrati, perché nel quadrato è più facile comporre una forma, stabilire una sequenzialità… soprattutto nelle portate del secondo, è più immediato dare ordine al piatto. Però ultimamente sono ritornato alla forma classica del piatto tondo, dove è necessario operare in maniera concentrica. Noi lavoriamo molto anche sui piani verticali, ma da questo punto di vista non c’è stata grande innovazione e, al di là del pensile, non è stato studiato niente.
area: Cucchiaio, coltello e forchetta, sono gli strumenti più adatti?
D.S.: Non necessariamente gli strumenti per mangiare devono essere gli stessi. La bacchetta per esempio dona un’attenzione totalmente diversa a quello che mangiamo. Consigliamo per esempio l’uso di bacchette molto affusolate per consumare la nostra “Check Salad”, oppure, nel caso di clienti occidentali proponiamo la forchetta ghiacciata o le mani. Attraverso lo shock termico creiamo una tensione e aumentiamo la soglia di attenzione, anche nelle percezioni gustative. Prendere lo strumento in mano per mangiare non diventa più un gesto meccanico. Nella Check Salad ci sono 26 elementi vegetali, 26 gusti diversi e il piatto crea un vero e proprio check sul tuo gusto. Sarebbe impossibile assaggiare 26 gusti in poche portate, riesci a farlo solo se hai un’attenzione molto alta.
In passato ho impiegato strumenti non convenzionali per mangiare i miei piatti: abbiamo accompagnato il piatto “Fossil” con un martello, oppure abbiamo servito il “raviolo shake”, accompagnato da uno shaker, con il quale il cliente doveva effettuare la mantecatura de burro dei ravioli. Anche in quel caso, la posata veniva by-passata, essendo il raviolo piccolissimo, lo si beveva mentre con i “Cyber eggs” la posata non serviva, perché l’elaborato si fa esplodere direttamente in bocca.
area: Il tema degli sconfinamenti tra le discipline è un tema divertente, sono convinto che dalla cucina si possano imparare molte cose per i progetti...
D.S.: Attualmente stiamo lavorando moltissimo sulle strutture e sulle fibre naturali degli elementi, da sei mesi ormai sto effettuando delle macro sulle fibre dei vegetali. Il tatachi di melanzane è nato così: chiudendo le fibre come se fosse un tronco; quando viene tagliato si vedono le fibre aperte e occludendole immediatamente si ottiene una consistenza della melanzana completamente diversa. Abbiamo effettuato un procedimento opposto al consueto: non eliminarle l’acqua con l’aggiunta del sale, bensì bloccarla all’interno, cauterizzando le due facce del parallelepipedo.
Come quando si cuoce un filetto, o una fiorentina: si usa un fuoco forte per contenere i succhi all’interno.
Quindi abbiamo trattato una fibra vegetale come una fibra proteica. Niente altro. Però bisogna pensarci. La melanzana dentro è gonfia, perché mantiene i liquidi e cuoce quasi per induzione dell’acqua interna, dentro rimane bianca, sembra cruda e invece è cotta. Tutto questo avviene solo pensando alle fibre, se osservi i sacchettini che compongono uno spicchio di arancio capisci che la natura ha un packaging impressionante.
area: Ovviamente c’è una differenza tra la cucina domestica e quella industriale. Secondo te, è giusto mantenerla  oppure dal punto di vista del design della cucina, questi due mondi dovrebbero tendere ad avvicinarsi?
D.S.: Personalmente preferisco non avere le cucine a vista, mentre oggi al contrario la cosa che funziona di più è lo show-cooking, lo spettacolo, la performance.
area: La gente che è in sala non disturba lo chef, non lo distrae dal proprio lavoro?
D.S.: Assolutamente no, in realtà se hai la possibilità di vedere la sala hai senz’altro più controllo della situazione, ma in questo modo andiamo ad uccidere un mondo che per me dovrebbe tornare ad essere quasi primario. Tre anni fa ho iniziato a comunicare il mio cambio di linea, ho detto basta alla processione dai guru. L’elemento primario deve tornare ad essere il cliente. Il ristorante non è uno show, una mostra, una performance, una chiesa dove ti inginocchi, il fruitore deve ritornare ad essere l’elemento centrale. Intorno a lui deve girare tutto, si deve sentire attore primario. Il ristorante deve divenire nuovamente un luogo dove poter provare un’emozione, e questo potrà avvenire solo quando il cliente tornerà a scegliere senza seguire esclusivamente le ultime tendenze e recuperando un proprio gusto. Ogni esperienza deve essere filtrata dalle proprie emozioni, ormai siamo solo cacciatori e collezionisti di esperienze, le consumiamo, ma non le viviamo.
area: Tu insegni al Politecnico. Come avviene lo scambio tra chef e designer?
D.S.: La prima cosa che cerco di fare è trasferire la passione per progettare. La seconda è cercare di indirizzarli, fin dall’inizio del workshop, verso un progetto realmente applicabile, anche se solo un prototipo primordiale. Quindi gli suggerisco di iniziare a pensare con la propria pancia, di creare una connessione con quello che è il loro piacere e partire dai loro gusti primari.
area: E che tipo di lavoro fanno alla fine del workshop?
D.S.: È completamente aperto. C’è chi centra meglio l’obiettivo, c’è chi riesce veramente a fare un progetto di design con funzionalità, ergonomia, sviluppo. In fondo quello che cerco di fare
è semplicemente insegnargli a comunicare.