area 113 | benedetta tagliabue embt

Come tutte le Esposizioni Universali anche l‘Expo di Shanghai ha chiuso i battenti portandosi via quell‘effetto di stupefacente novità e di speranza che accompagna ogni rassegna mondiale dove sapere, tecnologia, commercio, architettura, si confrontano in una sorta di caleidoscopio in cui il rapporto tra le diverse esperienze appare talvolta più muscolare (pesa la differenza tra i PIL) che intellettuale. Ciò che rimane, fortunatamente, è un patrimonio di immagini e di esperienze legate alla consistenza fisica dell‘architettura, al suo carattere celebrativo e rappresentativo, identitario, spesso enfatico, tuttavia, in rari casi, anticipatore di stati d‘animo e mentali; oggetti, edifici, spazi capaci di assumere un ruolo talmente forte ed evidente da rimanere per sempre impressi nella memoria indipendentemente dalla loro permanenza (basti pensare allo “scomparso“ Crystal Palace eretto per l‘Esposizione Universale di Londra del 1851 o alla Torre Eiffel costruita in occasione di quella parigina del 1889). Certamente il padiglione spagnolo progettato da Benedetta Tagliabue ha “costruito“ e rappresentato la “messa in scena“ più riuscita ed apprezzata dell‘intera manifestazione, probabilmente più efficace, dal punto di vista del progetto di architettura, dello straordinario e iridescente padiglione inglese intenzionalmente più vicino alla performance artistica o all‘oggetto di design che non all‘idea di un edificio per esposizioni. Che l‘appuntamento di Shanghai abbia costituito un riferimento complessivo sullo stato dell‘arte in merito alle discipline dell‘architettura, del design e della tecnologia, lo si evince dalla quantità di eventi e mostre che hanno accompagnato l‘Expo, tra cui abbiamo selezionato in questo numero la bellissima mostra dedicata a 99 oggetti di industrial design prodotti in Italia dal titolo “Timeless Time“ (curata dallo studio Change Performing Arts) e magistralmente allestita dal premio Oscar Tim Yip. Area, come i lettori ricorderanno, ha dedicato all‘Expo di Shanghai un intero numero monografico, e da quella riflessione è maturato il tema di quest‘ultima ricerca dedicata alla forza e alla vitalità, per molti inaspettata, dello studio barcellonese EMBT. Quell‘edificio, una matassa fluttuante dedotta tanto dalle movenze dei tessuti che avvolgono gli orgogliosi volteggi di una ballerina di flamenco, quanto dall‘intreccio artigianale di una manualità paziente e tutta orientale, costituisce, senza dubbio, un evento la cui rilevanza apre prospettive di grande interesse per il futuro, sia sul piano critico che per le successive opere di architettura che l‘edificio stesso ha saputo immediatamente attivare. Benedetta è al contempo un architetto italiano nel senso autentico di un autore che “mischia“ rogersianamente “memoria e invenzione“ all‘interno di un lessico totalmente intriso della sua nuova identità catalana; è l‘espressione felice di una continuità che non sa di maniera quanto di viva e vitale passione di un mestiere che si intreccia con successo con una biografia indelebile tuttavia pronta ad accogliere nuovi importanti capitoli. Quanto la sua originaria appartenenza influisca e abbia influito sul suo lavoro lo si può misurare confrontando la sua opera con la migliore produzione italiana selezionata da Luca Molinari nella mostra “Ailati“ che costituiva l‘essenza del padiglione Italiana della recente Biennale di Architettura di Venezia presentata nella pagine conclusive di questo numero. In ogni caso la determinazione e la forza dell‘architettura proposta dallo studio EMTB, come dimostrano le nuove commesse cinesi, apre senz‘altro una fase nuova e importante di un agire che merita attenzione, rispetto, oltre che riconoscenza per l‘umiltà con cui ha saputo raccogliere e rilanciare il valore di un‘architettura dove complessità e artigianalità si intrecciano condizionandosi reciprocamente. L‘uso di materie povere, di superfici naturali, di scarti
di lavorazione, la sublimazione del “rustico“, continua ad essere l‘interprete, in ogni opera, di una sorta di danza dove la fissità della costruzione trasla magicamente nella dimensione tutta naturale del movimento che viceversa caratterizza ogni forma animata. Si tratta evidentemente di una sapienza personale che oscilla tra organicismo, espressionismo, moderno e vernacolare, una mescolanza di sapori ed ingredienti che riesce soltanto a chi ha vissuto e interpretato con la propria esperienza il sublime valore dell‘agrodolce.