Artigiano, designer, architetto e molto altro ancora...Sono mille i volti di Angelo Tacchinardi, tutti con il progetto al centro, in qualsiasi forma d'espressione. Progetto che ha sempre come obbiettivo il risveglio, la sollecitazione, l’attrazione sensoriale, giocata attraverso l’uso del colore, della luce, dei materiali nudi, materici, diretti, naturali.

Lo abbiamo intervistato in esclusiva per farci raccontare il suo mondo, quello dello studio in cui lavora, lungo il naviglio grande a Milano, un ex vetreria del primo dopoguerra, riprogettata e riconvertita dal punto di vista funzionale ed energetico.

Idea e forma, creatività e manualità, pensiero e gesto costruttivo. Le tue opere vivono di un’intensa fase ideativa e progettuale ma di un altrettanto importante dimensione realizzativa. Come si conciliano le due dimensioni e soprattutto come vengono influenzate dal fattore tempo? Come non perdere la forza generatrice in processi che durano spesso molto tempo?
Per me idea progettuale e realizzazione non sono due ambiti che considero distinti, non c’è prima l’idea/progetto a cui segue lo studio per la realizzazione, la cosiddetta ingegnerizzazione. Quando decido di realizzare un’opera ce l’ho già in testa finita, la vedo, con i materiali e i particolari costruttivi. All’inizio a volte faccio delle veloci verifiche costruttive e di accostamento dei materiali per vedere se l’idea “regge”, spesso  faccio un veloce disegno a mano libera e colorato, non faccio disegni tecnici di progetto, lavoro di getto. Per esempio la forma del Barbatrucco, un “oggetto luminoso” con funzione di mobile bar, l’ho realizzata assemblando dei pezzi di compensato seguendo la forma che avevo in mente, anche la consolle Carrozzeria è nata così, ho tagliato velocemente dei foglietti di alluminio leggero duttile e con la cucitrice ho creato la forma. In questi casi ho creato dei bozzetti in scala 1:1 e poi ho realizzato il lavoro definitivo, in altri casi faccio dei modellini in altre scale oppure, più spesso, realizzo il lavoro definitivo direttamente. Quando inizio, il lavoro è già finito, devo solo realizzarlo, per questo il fattore tempo non ha influenza sulla forza generatrice. La realizzazione diventa come una routine temporale, i lavori la cui realizzazione è lunga, ripetitiva, metodica e che richiede molta costanza li considero dei “contenitori di tempo”. Mi piace quando in alcuni lavori è leggibile la stratificazione temporale, il depositarsi degli strati, la giustapposizione di pezzi simili. Spesso questi lavori di stratificazione sono la rappresentazione di “pezzi/brani” di paesaggio in cui il tempo è alla base della composizione naturale. La natura è un contenitore temporale infinito, vivo, mutevole, con un’estetica illimitata, la mia sensibilità tenta di fissare nei lavori alcuni episodi che mi hanno emozionato.

La materia è l’assoluta protagonista del tuo lavoro. Utilizzi diversi materiali, molti di recupero. Come hai imparato le tecniche e quali sono i tuoi materiali preferiti?
Ho imparato usandoli, apprendimento empirico. Sin da piccolo ho sempre lavorato con le mani, mi costruivo i giochi assemblando materiali diversi, ho avuto la fortuna di avere sempre un laboratorio a disposizione con attrezzi e materiali, soprattutto legno e metallo, i materiali più reperibili e che sono i miei preferiti. Utilizzavo il laboratorio di mio nonno e mio nonno per imparare, uso ancora adesso alcuni dei suoi attrezzi.
La luce è un tema che ti appassiona da tempo. La tua visione si colloca in una dimensione che interpreta la luce come strumento funzionale al progetto o come fonte di emozione e benessere psicofisico per chi vi si confronta?
Sicuramente l’obiettivo primario è quello psicofisico, progetto “luci da compagnia”, ricerco l’atmosfera che creano nell’ambiente che le contiene, disegnando di ombre le superfici, proiettando luce calda riflessa dai metalli. In alcuni casi le ombre si muovono perché il riflettore è ruotante. La funzione ha maggior rilievo nelle istallazioni luminose che fungono da fonte principale di illuminazione.
In che modo ti confronti invece con il progetto architettonico? Quali sono i tuoi principi di progettazione e quali i valori che cerchi di perseguire sempre nei tuoi interventi?
Il progetto architettonico parte dal dialogo con il committente, è fondamentale la scoperta del linguaggio altrui. Un lavoro di scavo, di osservazione della sua sensibilità, cultura, abitudini di pensiero, modo di vivere e interrogarsi sulla propria personalità e capacità di esprimersi. È come l’inizio di un viaggio dove bisogna fare attenzione a come il progetto andrà a incidere sul bene comune, l’impronta che produrrà rispetto al prima e al proprio bilancio interno. Per cui il mio approccio progettuale è fatto di mediazione, mi sforzo di provocare l’interlocutore utilizzando il terreno comune che sono riuscito a scoprire attraverso l’analisi. Se ha una coscienza di sé molto definita, una forte personalità è più semplice, ci si diverte di più, si gioca sulla provocazione, sulla ludicità, si saggiano i limiti di comprensione/accettazione, lo scambio si dinamizza molto. Posso lavorare di getto a viso aperto, mi espongo maggiormente, posso esprimermi nella totalità. È da questo tipo di rapporto che nascono i progetti che danno più soddisfazione. Viceversa a volte mi confronto con delle personalità desertiche in cui è difficile trovare dei fili conduttori, delle tracce da implementare, il famoso terreno comune. In questi casi mi trovo un po’ in difficoltà e il mio intervento si riduce, si contrae. Con il luogo del progetto, in coerenza, utilizzo lo stesso approccio che io definisco filologico, vado alla scoperta, cerco sempre di valorizzare le sue peculiarità, indago la mediazione, magari proponendo dei contrasti che mettono in risalto l’esistente.

In che modo le tue opere si inseriscono nello spazio? Che tipo di dialogo instaurano con gli ambienti di diverso stile? Con quale criterio vengono scelti o realizzati ad hoc per uno specifico contesto?
Parlando delle opere create per un ambiente specifico, considero lo spazio e lo leggo sempre come una “cornice” chiusa. L’opera nasce dalla relazione, più la relazione è stimolante, impegnativa, la qualità richiesta alta e la cornice intrigante, più il lavoro scaturisce di getto, con naturalezza. Cerco sempre di collocare le opere al centro della cornice, non ricerco accostamenti di materiali, di colori o finiture, l’opera è autonoma, un elemento a sé stante, concluso, autosufficiente. Sfrutta la cornice come un podio per emergere, non dialoga, non è né in accordo né in disaccordo, a volte in contrasto, ha un confine molto netto, si staglia con molta decisione nello spazio/cornice. Questo tipo di approccio con lo spazio/cornice mi permette di non farmi problemi relativi agli stili del contesto, lavoro in autonomia, più la cornice è caratterizzata, più l’autonomia del lavori si evidenzia e il lavoro emerge, risalta.
Parli spesso di sostenibilità entrando nel senso concreto del termine, sia per quanto riguarda i materiali che utilizzi nelle tue opere, sia in senso più ampio come stile di vita e filosofia che coinvolge anche l’ambito lavorativo. Cosa vuol dire per te vivere nel rispetto dell’ambiente?
Parto dal concetto generale di “bene comune globale” al posto di “rispetto dell’ambiente”. Il mio stile di vita si basa su un concetto semplicissimo ma a quanto pare scomodissimo: ogni cosa che facciamo ha una conseguenza positiva o negativa sul bene comune globale. Cerco sempre di fare l’esercizio di pensare globalmente, ogni mia azione, decisione, attività, esigenza ha una ripercussione, un seguito in base alla politica di comportamento personale e globale che si adotta. Per questo cerco di ridurre al minimo l’impatto della mia esistenza. La nostra evoluzione è stata guidata dal bisogno di fare sempre meno fatica, di ridurre sempre di più la sofferenza, ma ora abbiamo passato il segno, abbiamo creato il mondo al contrario, viviamo al contrario, in modo paradossale, pensando solo a noi stessi in maniera svincolata dal bene comune globale, senza riflettere e senza decidere, drogati dalle abitudini e dalle finte comodità. Nella quotidianità non utilizziamo più il nostro corpo, siamo sempre servoassistiti. Tutto questo ha un bilancio spaventoso, siamo come paralizzati dalla paura di riflettere, di pensare, di accorgerci di come ci comportiamo, non lo vogliamo né sapere né sentire. Pensiamo di essere comodi e che si possa vivere solo utilizzando un unico sistema/modello ma non ci accorgiamo della scomodità e dell’impatto delle inutili sovrastrutture che abbiamo creato e che ci stanno presentando il conto. Il virus siamo noi.