area 111 | zero volume

Nel 2006 usciva il nostro libro “Spazi pubblici contemporanei: architettura a volume zero”. L’ipotesi partiva dalla constatazione che il progetto degli spazi pubblici o del loisir, avesse acquistato nel tempo una autonomia funzionale e figurativa tale da renderlo un tema di architettura autonomo. Un fatto importante su cui reputavamo non fosse stata posta adeguata attenzione.
Nel collezionare e selezionare il materiale (il libro ospita un centinaio di progetti suddivisi in dieci categorie) ci chiedevamo quando fosse nato questo nuovo tema. Una domanda che non trovava una facile risposta. Da sempre infatti la città si era caratterizzata da spazi pubblici a cui il più delle volte era demandato il compito di rappresentare la città stessa, la sua civitas. La città barocca poteva essere considerato l’esempio più eclatante. Tutto ciò negli spazi pubblici contemporanei permaneva ma in modalità talmente distanti da quelle canoniche da supportare la tesi che il nuovo tema fosse portatore di un proprio statuto, ormai svincolato sia dalle regole della città consolidata come da quelle della città modernista. Uno statuto faticosamente messo a punto nel tempo, specialmente dalla seconda metà del secolo scorso, che al contrario di quanto avvenuto nel primo Moderno, non faceva riferimento a maestri conclamati o a manifesti rivelatori, ma era il prodotto di sintesi della sovrapposizione di esperienze eterogenee che nel loro complesso apparivano come una critica dal basso (oseremmo dire democratica) al modello di città dirigista.
Sin dall’inizio quindi, temendo le secche dell’arredo urbano e dell’arte negli spazi pubblici, abbiamo cercato di inquadrare il tema in un ambito più vasto, essendo convinti che gli spazi pubblici contemporanei fossero portatori di una peculiare idea di città, se non di territorio. Quest’idea, che potremmo definire tematica, trovava i suoi prodromi nel diciannovesimo secolo quando quel rapporto tra tessuto ed emergenza che aveva caratterizzato la struttura della città antica, si incrina talmente tanto da non poter più essere recuperato se non a costo di una operazione di falsificazione storica. Di quel periodo ci venivano in mente tre esempi germinali. Il primo è la Tour Eiffel: un emergenza talmente sovrastante, talmente territoriale, da rendere insignificante il rapporto con il tessuto; in definitiva la prova schiacciante sia dell’avvenuta rottura degli equilibri urbani canonici, sia la prova delle enormi potenzialità dell’architettura degli spazi pubblici. Il secondo esempio era il giardino romantico all’inglese, Central Park ad esempio, che con il suo configurarsi come un pezzo di natura preservata in mezzo alla città, come sostanza totalmente “altra” rispetto al contesto, anticipava di più di un secolo l’attuale autonomia degli spazi pubblici contemporanei. Per ultimo le esposizioni universali, in cui la scena architettonica diventava il fondale della folla e del suo comportamento relazionale, anche in questo caso anticipando l’attuale estetica del loisir che è a fondamento degli attuali spazi pubblici. Erano questi i prodromi di una storia (incredibilmente ancora non scritta) dello spazio pubblico contemporaneo e a questi era necessario riferirsi per comprendere le ragioni del nuovo tema. Ma in architettura, come in arte, i nuovi temi se non sono sostanziati da una nuova iconografia e da nuovi termini epistemologici, o sono irrilevanti o semplicemente non esistono. Non era questo il caso degli spazi pubblici che negli ultimi decenni (ed era questa la novità) erano riusciti a proporre delle forme del tutto particolari: una loro “architettura” che nelle seppur diverse espressioni, era capace di esprimersi attraverso delle significative ricorrenze. Abbiamo chiamato questa architettura “a zero cubatura” (o a “zero volume”) per la semplice ragione che tecnicamente si presentava attraverso una narrazione che non prevedeva uno spazio interno. Delle architetture del tutto estroverse quindi, in definitiva degli oggetti dialoganti o meglio, come notava Wes Jones in uno dei saggi ospitati dal libro, degli object stimuli, che aspiravano ad una relazione diretta e il più coinvolgente possibile con il pubblico. Queste architetture, che spaziavano dai sistemi di pavimentazione, ai porticati, alle pensiline, ai belvedere, ai ponti pedonali, alle barriere antirumore a ridosso delle infrastrutture e quant’altro avevano la capacità di intessere tra intervento ed intorno, tra oggetto e spazio aperto, una negoziazione la cui natura corrispondeva proprio alle ragioni più intime dei nuovi spazi pubblici. In definitiva eravamo convinti che comprendere gli spazi pubblici corrispondesse a comprendere l’architettura a zero cubatura (azc). L’ipotesi di una architettura a zero cubatura non nasceva autonomamente, ma come contraltare critico al ben noto postulato di Bruno Zevi per cui solo ciò che riusciva a configurare uno spazio interno sarebbe potuto essere considerato propriamente “architettura”. Ipotesi che per certi versi ci trovava concordi, ma che al contrario di Zevi interpretavamo in una accezione positiva. L’azc infatti trovava la sua forza espressiva proprio dal non essere del tutto architettura, ovvero nel suo porsi nel punto di confluenza di architettura, design ed arte figurativa, specialmente scultura urbana. Il non avere quegli asservimenti funzionali tipici dello spazio interno ed il suo carattere ibrido, rendevano così l’azc estremamente agile, adattabile a più condizioni. L’analogia inoltre che individuavamo tra i giardini romantici e spazi pubblici contemporanei apriva anche un’altra strada interpretativa. Entrambe infatti si impostavano sul postulato di una totale autonomia nei confronti del contesto, nel voler essere intenzionalmente “altro”; ciò faceva sì che entrambe si configurassero come degli interventi di micro-urbanistica, più precisamente dei modelli a scala ridotta di una ipotesi alternativa di città. Questa constatazione andava quindi sostanziando l’ipotesi che l’azc, nonostante non fosse architettura nell’accezione purista del termine e riguardasse forme di piccolo taglio, potesse rappresentare un importante strumento di intervento nella città contemporanea e nel territorio anche alle grandi scale.
Un altro carattere dell’azc trascendeva il suo valore figurativo. Nei migliori esempi del XX secolo l’azc ha saputo esprimere compiutamente quella aspirazione alla libertà ed al piacere collettivo, unita a filo doppio al diritto alla forma ed alla bellezza, che ancora permane come intervento sostenibile in nuce ed allo stesso tempo esempio ancora seducente di reali spazi democratici. Valga per tutti l’esempio di Rio de Janeiro; una città squassata da profondi conflitti sociali che determinano la drammatica evidenza di una morfologia e di una mappa d’uso della città fatta di recinti contrapposti ed invalicabili, sia fisicamente che mentalmente. In questo contesto gli unici spazi condivisi da tutte le fasce sociali della popolazione sono due progetti a zero cubatura di Burle Marx:
le sistemazioni dei limiti urbani sull’acqua di Copacabana e di Aterro do Flamengo. Questi progetti possono essere considerati  “sostenibili” non perché lavorano con il verde (per altro il progetto di Copacabana usa il verde come elemento secondario) ma per la loro visione dinamica della città e delle sue componenti sociali che unita alla capacità di Burle Marx di controllare dimensioni urbane molto estese (oggi potremmo chiamarle satellitari), riesce a dar vita ad uno spazio dove è possibile coniugare sulla grande scala libertà di comportamento individuali e collettive e ciò dando a tutti la possibilità di usufruire del luogo attraverso innumerevoli modi di utilizzo. Nel caso di Burle Marx quindi lo spazio pubblico e con esso l’azc, da progetto urbano diventa vertenza sociale capace di rappresentare quel loisir democratico che va considerato, da un punto di vista ontologico, l’elemento essenziale della zero cubatura. Questa a grandi linee ci appariva la natura della azc, la sua ragion d’essere che al contrario di quanto avveniva spesso per gli edifici, non aveva nulla di ermetico o iniziatico, ma era parte integrante dei gusti del pubblico. Questa consonanza era per noi un sintomo di estremo interesse; un sintomo testimoniato da molte realizzazioni, ma poco compreso da un punto di vista teorico nelle sue intime implicazioni. Innanzitutto era interessante notare il fatto che il successo della azc si era andato consolidando sin dalla fine degli anni ottanta superando la limitativa nozione di arredo urbano, nello stesso periodo in cui si profetizzava la scomparsa dello spazio pubblico e delle sua architettura, fagocitati dagli interni onnivori della grande distribuzione di massa. L’azc non solo aveva resistito a quella che appariva all’epoca una profezia più che plausibile, ma si era andata affermando a tal punto che intere città come Barcellona avevano affidato alla stessa l’immagine ed il funzionamento del proprio futuro.
Le cause di questo successo, tra l’altro distribuito globalmente, erano a nostro avviso da ricercarsi nello stile della azc. I numerosi e variegati progetti collezionati nel libro infatti, sebbene si esprimessero con modalità e linguaggi ben diversi tanto da presentare una vera e propria stratigrafia delle tendenze in atto, riuscivano a manifestarsi con un certo grado di unitarietà. Quest’ultimo si esprimeva  con un modernismo cordiale, di ascendenza pop (popolare, che comunica immediatamente senza significati reconditi) in cui era presente una forte componente decorativa (si pensi al ruolo segnaletico delle pavimentazioni e delle pensiline); uno stile ormai lontano dal configurare una scena urbana metafisica, ma che anzi imponeva al pubblico di essere parte attiva della scena. Questo stile andava a ridefinire ciò che da sempre era stato il criterio fondante dello spazio pubblico, ovvero il decoro. Negli spazi pubblici contemporanei, nella azc, sembrava scomparsa o volutamente messa tra parentesi qualunque media res pedagogica, qualunque volontà civilizzatrice per lasciare il posto ad una nuova idea di decoro, questa volta fondata su due concetti alternativi: la capacità di interagire non solo visivamente ma anche fisicamente con gli utenti, suggerendo delle nuove modalità d’uso ed un ampliamento tematico della nozione stessa di spazio pubblico, che includesse anche gli spazi residuali della città diffusa o quelli in prossimità delle infrastrutture. Un nuovo mondo quindi, di forme chiare, popolari ed accessibili, ma di significati ed implicazioni sempre più complesse. Come qualunque nuovo tema di architettura l’azc ha avuto dei maestri che hanno avuto la consapevolezza teorica del proprio operato. Tra questi (pochi per la verità) di sicuro Isamu Noguchi e Robert Venturi e Denise Scott-Brown, quest’ultima tra l’altro autrice della prefazione al nostro libro.
A Isamu Noguchi si deve la considerazione dell’architettura dello spazio pubblico come crasi tra scultura, architettura e design. Noguchi, in anticipo sui tempi, comprende più cose. La prima è che l’emergenza, il monumento, che fino ad allora era stato il punto focale degli esterni urbani non può più essere figurativo, non può più rimandare a delle storie vissute e a dei valori ad essi connessi. Con le sue sculture urbane esprime allora una alternativa fondata su un linguaggio astratto, che non rimanda a niente: una modalità espressiva che anticipa di diversi anni l’astrattismo pop non iconologico della zero cubatura. Ma fa di più. Noguchi è l’inventore del playground, ancor oggi il sistema organizzativo spaziale di maggior rilievo della azc. L’ipotesi è semplice e come tale efficace: se il problema è configurare degli spazi pubblici al di fuori della logica dei tessuti urbani, bisogna allora considerare l’invaso spaziale su cui intervenire come una cosa a sé stante. La proposta è allora quella di stemperare i limiti ed i bordi dell’area e di intervenire con delle architetture-sculture in punti salienti predisponendo dei landmark di forte carica plastica.
Le relazioni spaziali che questi landmark intesseranno tra loro ed il loro riverbero nel parterre a terra determineranno il senso di un intervento su uno spazio pubblico non più rappresentativo, ma puro spazio disponibile per quelli che dopo di lui verranno definiti come i riti collettivi della civiltà di massa. Oltre Noguchi ”Learning from Las Vegas” (1972) di Robert Venturi e Denise Scott-Brown e Steven Izenour è per la azc un libro fondativo in quanto per la prima volta si scopre che in una città, sebbene del tutto particolare come Las Vegas, l’apparato iconografico (i billboards e le luci) è più importante dei tracciati e dei volumi, che è possibile una città in cui l’effimero si impone sulla permanenza. Non solo, l’apparato iconografico non è casuale, ma segue delle logiche intrinseche di comunicazione e di utilizzo della città estremamente raffinate. Una rivoluzione copernicana per l’architettura che nobilita la città dal basso, spontanea che come tale si esprime nello spazio esterno attraverso la sua immagine resa comunicazione. Gli odierni spazi pubblici devono molto a questa intuizione elevata ad analisi scientifica, come se l’azc fosse nata dai billboards di Las Vegas che acquistato spessore e peso, si fossero staccati dagli edifici per poggiarsi a terra, diventando così i nuovi spazi pubblici della zero cubatura.
A questi pionieri teorici dell’azc è necessario aggiungere Kevin Lynch che con il suo ”The view from the road” (1964) ha scoperto che spazi pubblici erano anche le infrastrutture e Reyner Banham che nella sua analisi di Los Angeles (”Los Angeles: the architecture of four ecologies”, 1971) riesce a comprendere la stessa attraverso le modalità d’uso dei suoi spazi pubblici. Per ultimo James Wines, anch’esso autore di un saggio nel nostro libro, che dagli anni sessanta ha avuto la costanza di lavorare su una ipotesi di architettura totalmente asservita allo spazio pubblico. Questo numero di Area non vuole essere l’aggiornamento di un lavoro già fatto, quanto lo strumento per ribadire l’attualità della zero cubatura. I progetti qui ospitati non rappresentano delle novità rispetto ad un lavoro che ha già qualche anno alle spalle ma testimoniano la vitalità della zero cubatura; una vitalità valida specialmente oggi, nell’era della grande crisi economica, che riducendo le risorse archivia di fatto l’architettura prestazionale delle archistar. La azc, la sua capacità nei casi migliori di riconfiguare interi comparti urbani o territoriali con pochi segni, la sua capacità di rinsaldare un rapporto con il pubblico attraverso pavimentazioni, pensiline, belvedere, rifugi, sculture urbane e quant’altro può essere considerata un plausibile modo di riconfiguare le nostre città
con poche risorse. Dietro quindi a delle forme che possono apparire troppo cordiali, troppo ludiche e troppo scenografiche si nasconde una strategia di intervento ed un pensiero teorico capace non solo di essere apprezzato dal pubblico, ma anche di suggerire una riconfigurazione sociale della città. Ipotesi che i migliori progetti di azc fanno propria quando riescono ad indicare i confini dei fenomeni e le modalità d’uso degli stessi. Nel suo complesso quindi l’azc pone in modo paradigmatico la questione cruciale dell’autonomia e del limite dell’oggetto architettonico rispetto al disegno di trasformazione della città, un ruolo che dagli anni novanta è andato guadagnando sempre più spazio. Ignasi de Solà-Morales identificava questo ruolo nell’ipotesi dell’oggetto architettonico a compendio della città, una strategia realistica di intervento urbano alternativa allo stallo operativo del piano e del disegno a priori per così dire dirigista della città. L’ipotesi, con l’architettura prestazionale delle archistar, ha indubbiamente avuto successo, ma concentrata troppo sugli edifici li ha resi troppo plastici, troppo decorati, in definitiva troppo enfatici. La stessa strategia risulta invece valida e sostenibile per lo spazio pubblico, per il progetto a zero cubatura. Oltre ciò l’attualità della zero cubatura è anche politica. In tempi di crisi e più specificatamente di crisi dello stato sociale, ciò che è a rischio per le evidenti contingenze è il pubblico ed i suoi servizi. Sanità, istruzione ed aggiungiamo noi spazio pubblico, devono allora diventare i punti di resistenza non solo per la perpetuazione del nostro modello di sviluppo, ma per l’auspicabile sviluppo dello stesso come espressione di un sistema di valori in cui è doveroso credere.

Aldo Aymonino was born in Rome on June 15th.1953. Graduated ”summa cum laude” in Architectural Composition in Rome on October 16th 1980 with supervisor Ludovico Quaroni. From 1992 to 2001 he was a member of the ”Teprin Associates” office. Since 1999 is a member of the Seste Engineering , based in Rome, which operate in the field of architecture and urbanism. Since 1997 he has been Visiting Professor at the School of Architecture at the University of Toronto (Canada). Since 1998 he has been Visiting Professor at the School of Architecture at Cornell (USA).  From 1986 to 2000 he taught at the Faculty of Architecture in Pescara. It's currently Full Professor of Architectural and Urban Composition in the Faculty of Architecture of Venice IUAV.

Valerio Paolo Mosco (Rome, 1964) is architect and architecture critic, has taught in Venice, Brescia, Ferrara and Chicago and IED in Rome. He is author of the following books: ”Contemporary Public Space. Un-Volumetric Architecture”, Skira, 2006; ”Valerio Paolo Mosco, 2003/2005, Scritti”, edited by Edilstampa, 2006; ”Architettura Contemporanea, Stati Uniti – West Coast”, 2008 and ”Architettura Contemporanea, Stati Uniti – East  Coast”, 2009 edited by Motta Edizioni Sole 24 Ore; “Steven Holl”, edited by Motta Edizioni Sole 24 Ore (English edition); ”Sessant’anni di ingegneria in Italia e all’estero” edited by Edilstampa, 2010.