area 115 | concrete

I miracoli della pietra fusa

In occasione della mostra su Pier Luigi Nervi allestita al MAXXI, Zaha Hadid ha scritto che l’ingegnere italiano “ha sempre avuto una profonda influenza” sulla sua opera. La dichiarazione, che ha suscitato un certo stupore, suggerisce una riflessione sulla versatilità del cemento armato; materiale che, dopo aver alimentato architetture diversissime nel corso del Novecento, persiste al centro della sperimentazione attuale, non escluse le grandi opere riconducibili nell’alveo dell'archistar system. In molti, comunque, si sono domandati quale affinità possa intercorrere tra le minute trame delle cupole nerviane e le flessuose pareti del museo romano. Salta all’occhio, infatti, la radicale diversità nel rapporto tra forma e struttura. Le superfici corrugate di Nervi, o i suoi pilastri sagomati, riproducono fedelmente il flusso delle tensioni. Sono modelli di totale identificazione tra forma e struttura. Viceversa, le sinuose superfici che, librate nel vuoto, disegnano il percorso museale, ostentano la propria natura puramente figurativa, l’assoluta indipendenza dalle leggi della statica. Se c’è un elemento comune alle due architetture, dunque, bisogna cercarlo al di fuori delle caratteristiche strutturali.  Un’analogia di fondo si può intravedere nel fatto che, in un caso e nell’altro, si sfrutta appieno una delle caratteristiche più peculiari del cemento armato: la plasmabilità, la sua natura di pietra fusa, per ripetere la suggestiva definizione di Nervi. D’altra parte la capacità di dar vita a forme sagomate, continue e monolitiche è la prerogativa che più nettamente distingue il cemento armato da tutti gli altri materiali; ed è proprio quella da cui deriva la sua straordinaria versatilità. Sulla plasmabilità si basa la volta sottile, uno dei due fulcri su cui fa leva il rilancio delle grandi strutture in cemento armato nell’immediato secondo dopoguerra (l’altro è la precompressione). Il punto debole della scarsa resistenza a trazione del conglomerato, che per decenni aveva limitato l’applicazione del materiale in strutture staticamente impegnative, è aggirato sfruttando la resistenza per forma di solette compresse. E per gli ingegneri progettisti di due generazioni, da Torroja a Candela, da Nervi a Musmeci, si apre un orizzonte di nuove forme plastiche, stimolante alternativa alla geometria ortogonale del telaio e delle strutture reticolari. Dalla stessa plasmabilità traggono origine le forme organiche di Niemeyer, di Saarinen, di Utzon, non poco influenzate, in questi anni, dalle opere dei progettisti ingegneri. Contemporaneamente, in una prospettiva allargata che coinvolge anche i linguaggi dell’architettura corrente, la stessa attitudine alla formatura è il cardine su cui si impernia il new brutalism, dove l’espressione architettonica è affidata ad una “faccia a vista” che reca impresse le tracce del rudimentale processo costruttivo. In queste diverse fasi, con differenti modalità, il cemento armato ha assunto il carattere di materiale povero per eccellenza, che alimenta una delle due anime del moderno: quella empirica e artigianale, che, mantenendo un filo di continuità con la tradizione dell’opera muraria, ha sempre fatto da contrappeso alla più innovativa anima industriale, incentrata sulla tecnologia del telaio e della parete leggera. Guardando a questa fase dello sviluppo, che ha il suo momento culminante alla metà degli anni sessanta, si ripropone dunque il quesito iniziale: che cosa collega l’architettura realistica del cemento armato, materiale povero, alle fantasmagoriche forme di Zaha Hadid? Il fatto è che dopo la fase del realismo artigianale, il cemento armato ha cominciato a cambiare faccia. Attraverso un’ennesima, graduale mutazione genetica finisce per assumere l‘opposta qualità di materiale pregiato e sofisticato.
Nelle lisce pareti di Louis Kahn, gettate tra fogli di compensato e disegnate dai giunti e dai distanziatori; nelle raffinate superfici di Carlo Scarpa, che recano l’impronta di stampi ricercati, dalle tavole di abete scelte una ad una, al marmo, al vetro; nei muri di Tadao Ando, scanditi da “tatami” di legno laccato, non c’è più traccia del brutalismo dei decenni precedenti: piuttosto l’intonazione espressiva rispecchia nuovi virtuosismi tecnologici. È una linea sperimentale trasversale, in cui trova conferma la profezia di Nervi secondo la quale il cemento armato non è un materiale ben definito, ma un’articolata strategia tecnologica: un iceberg tutto da scoprire, di cui si conosce solo la punta emergente. Con queste potenzialità, il cemento armato entra, infine, nel repertorio contemporaneo e torna ad ispirare ulteriori, inedite espressioni architettoniche. Il Bianco TX Millennium, capace di neutralizzare, attraverso particelle fotocatalitiche, gli inquinanti atmosferici conferisce alla chiesa Dives in Misericordia di Meier il suo persistente candore. Un autocompattante superfluido consente le superfici e gli spigoli particolarmente affilati del Phaeno Science Centre, della stessa Hadid. Un singolare disarmo eseguito bruciando lentamente la cassaforma rende la superficie interna della Cappella di Bruder Klaus di Peter Zumthor simile a quella di una carbonaia. Se un filo collega la Hadid a Nervi, dunque, può essere quello delle continue mutazioni per cui il materiale, come il camaleonte, cambia continuamente sembianze pur mantenendo una sua precisa identità. E forse, proprio a questa intrinseca valenza evolutiva voleva riferirsi l’architetto iracheno quando, a conclusione della sua nota, proponeva la propria architettura come proseguimento della “lezione di Nervi che ha forzato i limiti della tecnologia del cemento”. Ma basta questa comune, generica propensione verso le superfici plastiche a bilanciare la concezione diametralmente opposta nel rapporto tra forma e struttura? Sul modo di interpretare le forme strutturali in cemento armato il confronto tra i progettisti specialisti, di scuola ingegneristica, e gli architetti ha sempre presentato una asimmetria: mentre gli architetti, esplorando il mondo delle forme plastiche con grande libertà, si sentivano vicini agli ingegneri, questi ultimi censuravano con assoluta intransigenza le forme incoerenti con il comportamento statico. Non possiamo sapere che cosa Nervi avrebbe pensato del museo di Zaha Hadid. Sappiamo però che, a proposito della “coppa” di Niemeyer per la Camera dei rappresentanti a Brasilia, sul numero di gennaio 1959 di ‘Casabella‘, osservava: “Che sensazione darà allo spettatore questa incombente enorme massa misteriosamente slanciata a sbalzo da un più ristretto anello di base [...]? Questa sensazione sarà un godimento di bellezza o non piuttosto una specie di spaurita meraviglia? E quanto costerà questa artificiosa inversione?”.

Sergio Poretti è professore ordinario di Tecnologia dell‘architettura presso la Facoltà di Ingegneria dell‘Università Tor Vergata di Roma. Dal 1971-1974 ha insegnato presso la Facoltà di Ingegneria dell‘Università di Roma La Sapienza e, dal 1974, è stato professore di Tecnologia dell‘architettura presso la Facoltà di Ingegneria dell‘Università de L‘Aquila. È direttore del Dipartimento di Ingegneria Civile, della università Tor Vergata di Roma e coordinatore del dottorato di ricerca in ‘Ingegneria Edile: Architettura e Costruzione‘.