area 128 | informal community

location: Hong Kong

Se il problema appare immediatamente complesso e carico di sfaccettature, la soluzione è semplice in modo disarmante. Come rispondere alla necessità di trovare un rifugio minimo per le fasce sociali più deboli, in una megalopoli da 7 milioni di abitanti, quando la disponibilità di suolo libero è esaurita? La risposta si trova alzando gli occhi verso l’alto per scoprire, oltre i cornicioni degli alti palazzi residenziali costruiti massivamente tra gli anni ’50 e ’60, una seconda città di lamiera e cartone, cresciuta sui tetti di quella che comunemente viene riconosciuta come la città pianificata.
Sono le rooftop communities di Hong Kong, veri e propri agglomerati urbani, accatastati confusamente sulla sommità di condomini, dei quali sfruttano in modo parassitario la struttura, i sistemi distributivi, costituiti prevalentemente da ripide scale, e la fornitura energetica. Una micro città sovrapposta alla città esistente, nella quale strade, case, spazi collettivi vengono duplicati e miniaturizzati, rispetto a quello che accade alcune decine di metri più in basso.
I due mondi sono divisi da una variabile tanto elementare quanto sostanziale: la rispondenza alle norme edilizie, o più semplicemente alla legge. Le conseguenze sono molteplici e dall’effetto contrapposto: da una parte è evidente la povertà dei materiali, la carenza di livelli igienici minimi, la difficoltà e la scomodità di vivere appollaiati sui tetti, dall’altra, queste comunità costituiscono sistemi urbani ricchi di qualità spaziali e morfologiche, che stabiliscono un rapporto fortissimo con la natura e la morfologia della città di Hong Kong, abitati da gruppi sociali i cui legami sono molto più saldi e solidali di quelli che si generano nella città cosiddetta regolare.
In altre parole la mancanza di norme imposte dall’alto ha portato le rooftop communities ad una condizione di equilibrio instabile nella quale tutto si autoregola: a volte con esiti drammatici, altre, sempre più frequenti, attraverso fenomeni che potrebbero servire da esempio anche per le città pianificate.
È proprio da questi presupposti che nasce la collaborazione tra un fotografo e un architetto, sfociata nella realizzazione di un libro atlante che censisce i numerosi agglomerati spontanei di Hong Kong. Stefan Canham e Rufina Wu, tedesco lui e cino-canadese lei, si sono contattati per email e hanno progettato il loro viaggio tra i tetti della capitale asiatica via internet, prima di affrontare la fase operativa del loro progetto: vivere per due mesi e mezzo nelle diverse comunità che popolano lo skyline della città, per fotografare rilevare e ridisegnare centinaia di architetture spontanee. Il risultato è il volume Portrait from Above: una serie di immagini ad alta risoluzione e disegni architettonici dettagliatissimi che ci offrono diversi livelli di lettura di questo sistema urbano che sono allo stesso tempo antropologici, spaziali ed economici.
Se il principio insediativo è sempre lo stesso, il contesto delle diverse comunità cambia radicalmente a seconda delle zone nelle quali queste si sviluppano. Gli estremi sono rappresentati dall’insediamento di Kwun Tong e Tai Kok Tsui. Il primo sta morendo, in attesa della demolizione dei palazzi da parte del governo: qui i due autori incontrano persone che hanno appena perso il lavoro e non hanno neanche i soldi per tornare alle loro città di origine. I primi immigrati cinesi subiscono infatti il fenomeno della seconda immigrazione da altre aree dell’Asia ancora più povere, dalle quali provengono persone disposte
a lavorare a fronte di retribuzioni ancora più basse rispetto a loro. Questo atteggiamento genera conflitti interni alla comunità e situazioni di forte tensione. Dal momento che i residenti sanno che la comunità sarà smantellata, nessuno è interessato a consolidare o migliorare la propria casa: stanno semplicemente aspettando la fine. Nel secondo caso, quello di Tai Kok Tsui, l’atmosfera è totalmente diversa. C’è una commistione di residenti giovani e anziani, che sono lavorativamente attivi e si aiutano l’un l’altro nella manutenzione delle proprie case. Qui abita un giovane chef che sostiene di preferire di gran lunga il suo alloggio abusivo rispetto alla residenza “regolare” nella quale viveva prima. Abitare sui tetti significa anche avere più spazio a disposizione e una certa libertà nell’organizzare il proprio dominio privato rispetto alle esigenze individuali. Il lavoro di Canham e Wu non si limita alla semplice documentazione iconografica o alla testimonianza giornalistica di un fenomeno sociale, ma diventa uno strumento di progetto che ha chiare finalità operative.
Perché migliaia di persone preferiscono vivere aggrappate alla sommità dei palazzi del centro piuttosto che accettare di trasferirsi negli alloggi popolari che stanno sorgendo nelle new towns a decine di chilometri di distanza? Quali sono le variabili in gioco che fanno propendere per una scelta evidentemente così svantaggiosa?
I dati ufficiali descrivono Hong Kong come una delle città asiatiche con la più alta percentuale di case sociali rispetto a quelle di libero mercato; apparentemente quindi il fenomeno delle comunità spontanee è in controtendenza rispetto alla realtà. Il problema reale è la scarsità di alloggi messi sul mercato ad un prezzo accettabile nelle aree urbane centrali. Molti di coloro che abitano nelle baracche sui tetti sono lavoratori instancabili che però hanno l’esigenza di vivere vicino ai propri luoghi di lavoro. Trasferirsi in una casa, magari più confortevole, ma distante, significherebbe affrontare spese troppo alte. Sebbene una grande parte della città sia in fase di trasformazione e riqualificazione, la tendenza non è quella di consolidare la presenza dei vecchi residenti, ma piuttosto quella di liberare le aree centrali più appetibili, per le classi sociali benestanti. Forse il risanamento dovrebbe guardare meno alle caratteristiche costruttive e architettoniche quanto piuttosto al valore delle relazioni sociali, alla sostanza delle relazioni di vicinato e ai vantaggi che produce la combinazione di attività quali abitare e lavorare nello stesso luogo. La risposta che il libro di Canham e Wu ci propone, non descrive semplicemente quello che sta accadendo in questa parte dell’Asia, ma potrebbe essere estesa ad altri contesti, anche molto più vicini a noi. I valori che la città consolidata esprime non sono equiparabili ai vantaggi derivanti dal possedere un alloggio decoroso: in altre parole i servizi, la qualità delle relazioni, la facilità di accedere ad un lavoro, le potenzialità intrinseche nelle aree urbane centrali, sono sempre più determinanti nella scelta della propria destinazione domestica.
La strategia parassitaria messa in atto dalle rooftop communities, non è limitata allo sfruttamento delle caratteristiche statiche e impiantistiche dell’edificio ospitante, ma si estende anche a valori più immateriali, propri del contesto urbano nel quale si insediano. Si tratta di un fenomeno di occupazione delle aree strategiche della città che non si esaurisce nell’esperienza delle fasce sociali più emarginate e povere: sembra infatti che molti cittadini del XXI secolo sono seriamente intenzionati a riappropriarsi delle proprie città, dei giardini, delle strade, delle piazze e anche dei tetti degli edifici. Se proviamo per un attimo a trasferire la logica parassitaria dai condomini di Hong Kong alle nostre realtà urbane, iniziano a delinearsi alcune analogie sostanziali. Il community gardening è una pratica ormai diffusissima e si sta specializzando in forme che tendono a legare sempre più aspetti sociali alla qualità dell’ambiente urbano. Il sindaco di Chicago ha recentemente promosso una legge che incentivi grazie ad agevolazioni fiscali, l’occupazione e l’uso dei tetti del centro, per realizzare giardini verdi, migliorando così il paesaggio metropolitano nel suo complesso. Numerose associazioni di condomini si stanno organizzando per affittare il tetto del proprio palazzo ad un mezzadro che ne coltivi la superficie e ripaghi gli inquilini con prodotti vegetali.
Si sta consolidando l’idea che l’unica forma di gestione dello spazio pubblico sia quella che ci consente di viverlo come una piccola porzione di spazio privato all’aperto. Orti, parchi, terrazze verdi, come estensione della propria casa: l’homo urbanus sta adottando e colonizzando i luoghi collettivi, gestendoli in modo quasi privatistico. Se ciò che è pubblico non appartiene formalmente a nessuno ed è quindi oggetto di abbandono e degrado, allora è preferibile riappropriarsi della res pubblica attraverso una cura capillare che genera infiniti microspazi privati e allo stesso tempo collettivi.
Paradossalmente le azioni abusive che hanno generato forme di degrado urbano, come appaiono ad un primo sguardo anche le occupazioni spontanee dei tetti di Hong Kong, stanno producendo un nuovo modello di responsabilità civile che porta come conseguenza ad una sorprendente riqualificazione degli spazi pubblici. Dopo decenni di modelli ideali proposti da architetti e urbanisti, che hanno disegnato città estremamente vincolanti e poco aperte alla complessità degli usi da parte dei loro abitanti, stiamo forse imparando una lezione alternativa, che ci arriva dalle città informali, illegali, non progettate.

Stefan Canham was born in England in 1968. He studied Film at the Hamburg Academy of Fine Arts, Germany and has been working free-lance on documentary photo and television projects since 1995. He is interested in the amazing and beautiful things people create even under adverse circumstances, and in their representation. In 2003 he was artist-in-residence at the Schleswig-Holsteinisches Künstlerhaus in Eckernförde, Germany. His photographic record of the mobile squatter culture in Germany was short-listed for the 3rd International Bauhaus Award 2004 and published under the title Bauwagen / Mobile Squatters by Peperoni Books (Berlin) in 2006.

Rufina Wu was born in Hong Kong in 1980. She studied at the University of Waterloo in Canada where she completed degrees in Environmental Studies and Architecture. She was a CCSEP Visiting Scholar at Tsinghua University in Beijing, China from 2005 to 2006. Beijing Underground, her graduate thesis, focuses on migrant housing found in Beijing’s underground air raid shelters. This body of research won an AIA Medal and was exhibited in Canada, United States, and Germany. From December 2007 to February 2008, she was artist-in-residence at Hong Kong’s Art and Culture Outreach, collaborating with Stefan Canham on Portraits from Above. The project won the 5th International Bauhaus Award 2008 in Dessau, the WYNG Masters Award 2012 in Hong Kong, and was published by Peperoni Books, Berlin, and MCCM Creations, Hong Kong.