area 129 | urban architecture

Parma 12 luglio 2013

La mia iniziazione, di studente, all’architettura si è compiuta al limitare dello steccato del cantiere INA di Strada Cavour, nella mia città. Da lì osservavo l’edificio di Franco Albini che si configurava via, via. Lo leggevo con uno schema di lettura rassicurante, diffuso allora, al Politecnico di Milano, ove, che io sappia, non è mai stato contestato: la nuova fabbrica doveva crescere rispettosa delle condizioni del luogo e delle funzioni programmate, disegnando un organismo, somma di condizioni e funzioni, nel caso più ortodosso, oppure esprimere un articolato processo dialettico, nel caso più eteronomo. Queste definizioni erano necessarie e sufficienti per stabilire l’ambito di una corretta regola razionalista. Nell’edificio di Parma, iniziato nel 1950, progettato subito dopo la sperimentazione “anomala” del rifugio Pirovano di Cervinia (iniziato nel 1948) e poco prima del Tesoro di S. Lorenzo a Genova, (iniziato nel 1952), la maglia ortogonale costituisce l’incipit dell’ortodossia attraverso cui la modulazione si rappresenta compiutamente nei suoi dati formali – come nel Pirovano appunto – con la reiterazione degli elementi geometrici che è, sì strutturale, ma soprattutto rappresentativa di sé, della propria interna processualità. È un dato procedurale ideologizzante, ascrivibile, nella lunga durata del Movimento Moderno, alle origini europee del Razionalismo, da cui derivano le modulazioni, il reticolo, la struttura astratta della composizione che attraversa prima il colonnato lapideo, troncoconico, del Rifugio Pirovano e poi i portali con i telai dei pilastri rastremati, in c.a. dell’INA di Parma.
In quel momento l’architettura di Franco Albini, nella sua concreta e levigata evidenziazione funzionale, nell’incastro sapiente dei materiali, nell’utilizzazione al limite delle possibilità costruttive degli elementi componenti e delle loro tecniche, si pone al centro del rinnovamento disciplinare nel nostro paese. Si tratta, dunque, di un’assunzione dovuta e condizionata dei riferimenti “teorici” delle fonti proprie del Moderno, mai messi esplicitamente in discussione, ma ormai estranei, negli “ideogrammi” dei primi maestri, alla “invenzione della regola del fare”; di quella nuova regola, espressa già, in un’architettura, quella degli anni Cinquanta, dove i riferimenti geometrici di modulazione permangono, ma si allontanano in trasparenza “come per acqua cupa cosa grave”, nella profondità del fluido cristallino. Naturalmente le connessioni stabilite dal reticolo modulare, ancora permangono al fine dimostrativo dell’appartenenza ad una scuola di tendenza: i CIAM e l’MSA, ma restano però là, confinate sulla carta (da disegno) e non più strumentali ad un futuro possibile.
Certo la geometria è madre del dato strutturale. Essa restituisce l’immagine più consolidata del progetto e si offre dimostrativamente, ancora – per tutti gli anni Cinquanta – come traccia omologata del rapporto forma-funzione, ma la traduzione supera gli ideogrammi originari, postulando la ricerca di un’operatività critica che ristabilisca unità e consapevolezza ai rapporti di valore della prassi. Albini, che acquisisce in questi anni una posizione di primato, resta comunque avvolto dalle fascinazioni geometriche, e poi materiche, come mostrano le opere maturate, prima degli anni Sessanta, che proseguono e sviluppano disegni d’interazioni complesse, dove la scansione modulare diviene lo sfondo del racconto di un’architettura con nuovi principi. La “regola” del progetto, che come ogni regola conventuale è trasmissibile, moralistica, caparbia, (e questi sono vizi, speranze e virtù dimostrate dal lavoro di Albini), può risultare riduttiva, variabile, improvvisa e - ahi noi - peccare d’incoerenza. Non così il “metodo razionalista” sempre evocato nel suo insegnamento per i caratteri descrittivi d’intelligibilità logica, ma sempre tenuto a distanza, nel suo lavoro post bellico, nel convincimento di poter raggiungere “prima”, nell’individuazione di una sua propria “regola del costruire”, quella propensione all’applicazione lirica di un “problema da risolvere” (il progetto, appunto), secondo le storicamente assestate, regole dell’arte. L’assunzione dei significati, (o, se si vuole, il messaggio dell’opera compiuta), si carica, lungo gli anni Cinquanta, – fra regola e metodo – di riferimenti divergenti, prima ineffabili e poi concreti. La responsabilità verso la tradizioni, quella tecnica, e soprattutto quella storica, prima messa fra parentesi e dopo resa protagonista, trasformano gli iniziali accenti tecnologici razionali moralizzanti, in inquiete allusioni alle delimitazioni concettuali dell’opera e alle prospettive, intraviste, del loro possibile superamento. È in questo momento che le ragioni del progetto sperimentano la strada, non dell’affermazione dei principi, e dell’utopia, ma della ricerca, caso per caso; dell’anomalia, (della variazione evolutiva, di un quadro concettuale di riferimento, vero o presunto, forse inizialmente inconsapevole), per avviarsi verso l’elaborazione paziente di una architettura – più tardi riconosciuta capace di aver attraversato il proprio presente – affermando i tratti distintivi del lavoro dell’architetto nel nostro paese.
Albini dà qui forma e sostanza ad una sequenza di lavoro in progress, con forza d’immagine e continuità al momento storico percorso, per confrontarsi legittimamente con il proprio passato prossimo, nello stesso momento in cui la sua matita, dalla mina sottile, traccia in aria, con un gesto sul futuro, un diagramma solo sperato. Un reticolo strutturale, questo, intrinseco ad una “regola” del progetto che traccia linee evolutive, per piccoli spostamenti, basate sulla comprensione tecnica, già sperimentata nell’Emilia occidentale, (dall’Albini dell’INA di Parma al Manfredini del Seminario di Reggio, per es.), per corrispondere direttamente ad una pratica civile dell’architettura all’interno dell’orizzonte, certamente schematico, ma “realistico”, di una scuola di architettura regionale che, dai primi anni Cinquanta ha animato, anche, le mie prospettive di giovane chierico. A Parma, nell’edificio di città, dalla gradazione compositiva dal basso verso l’alto, ottenuta per mezzo del “basamento” a portali, ugualmente umbratile, (come nell’INA di Treviso di Samonà), al cornicione lamellare, staccato, (quasi come nella casa al Parco di Gardella), all’inclinazione dei pilastri sulla copertura, (secondo una configurazione cara a Ridolfi, a partire dall’insediamento di Viale Etiopia a Roma), si scoprono i debiti e le reciprocità d’intesa fra gli architetti del dopoguerra; ma anche la comune adesione ad un orientamento nuovo, non espresso, ancora teoricamente, né riferibile ad una scuola esclusiva, di quel gruppo d’intellettuali che operavano e riflettevano su temi comuni didatticamente e dimostrativamente confrontabili; misurati su nodi strutturali, tecnici e sulla graduale riconsiderazione dell’espressività dei materiali, operando tutti, con una propensione formale (i destini incrociati), dallo stesso punto di partenza engagés.
Tra questi, il programma albiniano, enuncia come origine della rastremazione progressiva dei pilastri in c.a., il modello miesiano delle strutture dei Promontory Apartments a Chicago. Da qui Albini si muove all’interno di una propria linea che dall’eretico (ma secondo le regole) Pirovano, conduce al riesame razionalista dell’INA, in una ricerca che contempla, in crescendo, le ragioni del luogo, la fisicità dei materiali, per una maggiore adesione alla specificità dei temi (sino allo storicismo del Tesoro di Genova). Il progetto assume ora, in positivo, la consistenza, il peso e l’uso di questi materiali, (tradizionali o innovativi), sostituendo l’astrazione del dettato razionalista con la grammatica di un nuovo realismo: la pilastrata rastremata in granito, segmentata e scalata, a sostegno dell’intelaiatura a rascard dei moduli abitativi del Pirovano, la struttura a portali, pilastri, travi in c.a. con tamponamenti a losanghe in paramano sabbiato nell’INA di Parma, i toloi in massello di pietra di Finale in S. Lorenzo. Così a Parma, il tema del palazzo per uffici si arricchisce necessariamente delle ragioni civiche della città, non sottraendosi al messaggio politico della ricostruzione. Nel cantiere si opera un intervento sul cardo della città bombardata, costruendo nell’isolato ove sorgevano le case De Adam, atterrate per consentire l’edificazione di quel Battistero che attende al di là dallo steccato una sua parziale e moderna perifrasi. Mano a mano che la struttura cresce, si rapporta nel luogo, al cotto antico, agli spessori e ai tagli della pietra di Verona che muta forma, con la luce, nel corso del giorno. Con essa crescono le ragioni del progetto a contatto del materiale impiegato, e mutano gli schemi, prima concettuali (e utopici), poi materici (e concreti), del lavoro che s’innalza a lato di pilastrature angolari, logge architravate, sequenze di partiti murari disposti al di sotto di un coronamento pinnacoluto, ormai trecentesco. Qui Albini induce a variazioni di senso nei singoli partiti compositivi mediante la dimostrazione della processualità storica del lavoro di Lombardia: componibile per elementi finiti, scomponibile per parti, articolata in sequenza di cantiere, accesa nei colori degli elementi murari e nei partiti decorativi. Il mio percorso di studente fuori dallo steccato del cantiere del palazzo di città di Via Cavour, oscillante tra “metodo” razionalista e “regola” della fabbrica un bel mattino, mentre l’edificio era ormai al tetto, vide la figura elegante di Franco Albini entrare nel cantiere, dalla parte di Borgo S. Biagio, accompagnato da Franca Helg. Lei, un’apparizione, con un tailleur blu a righe, sembrava volare e lo seguiva con rotoli di disegni sospinti da un portamento svizzero-milanese. Albini annunciava un atteggiamento sconfortato, cui Lei opponeva un’indifferenza pragmatica, forse un po’ altezzosa. Mi chiesi se l’articolato processo dialettico fra condizioni, funzioni, organismo all’interno della corretta regola razionalista non si fosse inceppato (molti anni ebbi conferma del mio dubbio dalla stessa Helg). A partire da quella data, eravamo nel 1954, mi resi conto che il mio apprendistato alla “regola del fare” poteva considerarsi, ormai, raggiunto: oltre lo steccato il “progetto” dell’architettura italiana, ormai delineato con la prassi e la materia, da Albini e Gardella, e, con l’idea, da Ernesto Rogers, prevaleva su l’intelligibilità logica del “metodo razionalista”. A Parma l’opera si era ben radicata; la regola geometrica, nel suo farsi materico, aveva trovato una collocazione culturalmente appropriata alle attese della ricostruzione urbana e nazionale. Nuove e diverse interlocuzioni pesavano sulla cultura e sul mestiere dell’architetto e la linea del razionalismo, prestava il fianco alle lusinghe dell’ambientamento, e annacquava la direzione teorica che l’aveva sostenuto.
La visita di quel mattino rispondeva a un consulto per esaminare le fronti cieche del nuovo edificio rapportate ai profili delle fabbriche esistenti, peraltro visibili ancor oggi, nel plastico, conservato in sito. L’esito doveva aiutare Albini a rendere compatibile il completamento delle zone fuori scala –
a margine dei confini del fabbricato – con le partiture modulari delle scansioni esterne, espresse nella loro levigatezza metallica, quasi degli elementi di montaggio da osservare controluce; lame di luce esse stesse, nitide e sottili lesene, più che pilastri. Aldilà dello steccato, Franco Albini percepiva l’effetto “giraffa” dei capimastri lombardi, descritte con malumore, dal ribollio brianzolo dall’ing. Gadda. La progettazione “seconda” della Helg sul margine di confine della fabbrica, apponeva una cornice con la “sovrapposizione parsimoniosa” degli elementi costruttivi già utilizzati nelle fronti principali, accentuandone le proprietà decorative nello stesso momento in cui, queste, venivano sottratte allo “spartito del già costruito”. Il margine “ornato” sottolineava il punto dell’intreccio fra i corpi di fabbrica, utilizzando una tessitura a losanghe di mattoni sabbiati, in una strategia minimalista che era gioco del tappezzare, (ornare appunto), fra elementi e strutture evidenziate ed evidenti pannellature portate. Il limite “decorato”, – nella sua tessitura materica: mattoni a losanghe come negli antichi fienili della pianura, intervallati da intonaci a raso, cornici in c.a. a vista, griglie di legno montate su telai in ferro – cresceva attorno al vano della scala ellittica, a sottolineare la coerenza perduta dall’astrazione albiniana, per recuperare un rapporto originale, fra gli elementi della composizione, in una dimensione “altra”, disinibita e appartata insieme, in ultima analisi femminile. La versatilità degli intrecci compositivi a fronte del mancato contatto con le preesistenze; il timore-tremore per un architetto razionalista dell’attacco a terra ove disporre l’opera e fissare il continuo, perenne tormentato rapporto con il contesto, era stato risolto dalla Helg con l’apposizione di un tratto gentile attorno al Battistero, un “mantello” decorato che stabiliva, con la sua forza e naturalezza, il persistere delle ragioni del luogo, sottraendo con un gesto elegante, (e concorde?), – l’apposizione di una cornice – l’architettura di Albini alle esitazioni di un razionalismo non più determinante. Si apriva in corso d’opera, nell’avanzamento del cantiere, una strada per il rapporto edificio-città, da proseguire nella futura opera romana – siamo all’inizio degli anni Sessanta – dei magazzini Rinascente. È, infatti, alla modularità dell’INA di Parma che può riferirsi ancora la forza d’immagine del reticolo strutturale della prima stesura del progetto, basato sull’iterazione di un astratto portale metallico a tre cerniere, (e ad interne, più inquiete aspirazioni tecno-tipologiche), che si muta a contatto della generica e indolente norma edilizia romana per approdare, di lì a poco, alle trabeazioni doriche della soluzione definitiva.
Una metamorfosi inaspettata – corposa e declamatoria – ma felicemente protagonista di un brano di città disposto al limitare delle mura aureliane, che rivela, anche, un Albini capace di fare un passo indietro rispetto ad un programma compositivo “razionalista” esteso all’organismo edilizio concepito nel suo complesso, per porsi oltre quella “sospensione di giudizio” che già aleggiava, negli anni Sessanta, sui valori fondativi dell’architettura del Moderno e sperimentare su un fronte scenico d’eccellenza, quelle relazioni concorrenti, fra tecnica, forma-colore e definizioni di rinnovati assetti spaziali, che, per gemmazione, riapproderanno poi, nell’Emilia nordoccidentale, nelle Terme Zoja di Salsomaggiore (1964) in un progetto fortemente scandito, che ne ricalcherà gli elementi di fondo.
L’approfondimento del lavoro di Albini, negli anni del primo dopoguerra si concluderà con la buona novella che “tuona” nel S. Lorenzo di Genova, (ma che poi si fa silente musa di prestigiosi allestimenti museali). La ricerca ulteriore, che di nuovo approderà a Parma nella Casa Corini (1967-70), dove la modularità stemperata dalla decorazione in cotto sortisce la nuova memoria di una cupola a padiglione, si scosterà dagli acclarati riferimenti di un lirismo ormai raggiunto, (il museo del Tesoro resterà per sempre una vetta eccelsa del Novecento), per interrogarsi, piuttosto, sugli avanzamenti deducibili dall’esperienza parmigiana, quella dell’INA, appunto, nel tentativo di ascrivere gli assetti spaziali, ancora riferibili al razionalismo primigenio, (e lì vi sono tutti), al concerto formativo in cui le ragioni del comporre si vogliono sottrarre alle regole, vere o solo presunte, forse indeterminate, dell’international style. Una traccia, questa del realismo del palazzo della Via Cavour di Parma, di Albini, della Helg, sulla quale si è costruita l’architettura della città italiana del Novecento e il nostro tentativo di chierici continuatori.

Il testo qui presentato costituisce la rielaborazione di un intervento al convegno sul  Razionalismo nella città di Parma organizzato dall’Università degli Studi, presso l’aula dei Filosofi, all’epoca dalla costituzione della Facoltà di architettura su un tema tracciato da Marco Dezzi Bardeschi.