area 120 | Beirut

Il municipio di Beirut include dodici quartieri su un’area complessiva di circa 100 kmq in continuità con i municipi dell’area metropolitana sviluppata verso Sud e verso Est, lungo la direttrice della strada per Damasco. La sfaccettata composizione sociale della città si riflette nel carattere identitario delle varie zone, sensibilmente accentuato dopo la Guerra Civile, e nelle diverse gestioni della crescita urbana. La municipalità ha recentemente intensificato gli sforzi per innestare elementi normativi comuni in settori generalmente refrattari a recepire indicazioni di tipo generale. Tra le esperienze in cui le proposte urbanistiche hanno dovuto confrontarsi con istanze politiche e settarie, alcune risaltano per l’intensità con cui si sviluppano i processi. Mona Fawaz, dall’American University of Beirut, parla del
caso di Dahiye, il quartiere sciita bombardato nel 2006 dall’aviazione israeliana. L’osservatorio urbano di Majal è attivo da anni sull’area semicentrale di Zokak El-Blat, mentre l‘architetto e urbanista Diran Harmandayan descrive la situazione urbana del quartiere armeno di Bourj-Hammoud.

The reconstruction of Dahiye
interview to Mona Fawaz

Nicola Santini: Lei ha collaborato al progetto per la ricostruzione di Dahiye, potrebbe parlarci di questa esperienza?
Mona Fawaz: Durante l’attacco del Libano, nell’estate del 2006, l’esercito israeliano ha distrutto il quartiere di Haret Hreik, nella periferia a sud di Beirut, radendo al suolo residenze, attività commerciali, uffici, in tutto più di 200 edifici a più piani; migliaia di persone hanno dovuto abbandonare la propria abitazione a seguito di un conflitto che lo stesso Osservatorio per i Diritti Umani ha dichiarato “crimine di guerra” perpetrato dagli Israeliani. Al di là della mera portata della distruzione, la scelta di colpire Haret Hreik ha un valore simbolico, si è infatti cercato di radere al suolo l’incarnazione dell’organo politico che questo luogo rappresentava. Facendo un paragone con l’11 settembre, in occasione dell’attacco del 2001 al World Trade Center, gli israeliani dichiararono che la città era uno degli attori del conflitto; radere al suolo un quartiere o anche solo alcuni edifici significa minare la sopravvivenza di un nemico, in questo caso di HizbAllah, partito che aveva eletto il quartiere distrutto a proprio quartier generale. Il valore simbolico e concreto di questo attacco è stato chiaro fin da subito a Hezbollah; per voce del proprio segretario generale ha infatti immediatamente dichiarato che la ricostruzione dell’area a sud di Beirut sarebbe stata un atto di autoaffermazione.
Già durante il primo giorno di cessate il fuoco, Sayyed Hassan Nasrallah dichiarava: “Tutto sarà ricostruito, anche più bello di prima”.
N.S.: Come è stata coinvolta nella ricostruzione di Dahiye? E qual è stata la sua proposta?
M.F.: Il mio coinvolgimento iniziale era dovuto al fatto che mi sentivo direttamente colpita dalla guerra israelo-libanese. Haret Hreik è molto di più di un quartier generale di un partito politico. È un quartiere vivace, socialmente e a livello commerciale; è il cuore della periferia sud di Beirut (conosciuto anche come Dahiye), un territorio che veniva associato all’urbanizzazione della comunità mussulmana sciita in Libano prima ancora di divenire il quartier generale di Hezbollah.  Ad Haret Hreik, le cosiddette Forze di Difesa Israeliane hanno distrutto la vita di 20.000 famiglie, hanno raso al suolo quello che per molti, e non solo per i residenti, era lo spazio sociale e commerciale. Con i colleghi dell’Università Americana di Beirut abbiamo costituito, presso la facoltà di Architettura e Design, la Reconstruction Unit, ovvero l’Unità per la Ricostruzione, e con essa siamo intervenuti su diversi siti. Io ero parte di quel gruppo che si è occupato del comune di Haret Hreik, un comune che ha sostenuto il nostro impegno. Abbiamo cercato di organizzare una gara d’appalto internazionale per poter coinvolgere nella ricostruzione post bellica di questo quartiere densamente popolato, urbanisti e designer da tutto il mondo. L’Ordine degli Ingegneri e degli Architetti, l’amministrazione comunale e molte alte cariche all’interno di Hezbollah hanno sostenuto le nostre idee; purtroppo il progetto non si è concretizzato.
N.S.: Per quale motivo?
M.F.: Alla fine i vertici di Hezbollah ci hanno vietato di procedere. Da quello che ho capito, il partito non voleva intraprendere un lungo processo di ricostruzione, che avrebbe significato dover negoziare con la pubblica autorità. Sulla base di esperienze pregresse, si aspettavano enormi ritardi… Il partito temeva inoltre uno spostamento della popolazione, che sarebbe andato contro i suoi interessi, ovvero mantenere invariata la propria base sul territorio.
Hezbollah ha quindi optato per una ricostruzione post-bellica che si limitasse a restituire agli stessi proprietari di prima del conflitto le stesse identiche abitazioni, delle medesime dimensioni e collocate esattamente nella posizione occupata prima della demolizione del 2006. Tale strategia è stata presentata come una risposta alle specifiche richieste degli abitanti, ebbene, io non credo sia così. All’epoca avevamo infatti intervistato gli abitanti e questi ci avevano espresso la speranza di poter avere spazi aperti e una miglior circolazione pedonale. Penso quindi che alle persone interessasse lo spazio pubblico, elemento che è andato completamente perso nell’attuale ricostruzione.
Abbiamo quindi deciso che il nostro obiettivo sarebbe stato quello di chiedere a gran voce l’inserimento di spazi pubblici nell’ambito della ricostruzione e di batterci affinché gli interventi urbanistici partissero dal concetto di “pubblico” e non di “privato”.
Abbiamo organizzato un workshop presso l’Università Americana di Beirut a cui hanno partecipato urbanisti, architetti e altri professionisti, uniti per elaborare un’idea di ricostruzione che partisse dallo spazio pubblico, abbiamo quindi presentato il nostro progetto alle parti in causa e in occasione di numerosi eventi pubblici. Uno dei momenti a maggior impatto che mi ricordi è stato quando, di fronte all’Ordine degli Ingegneri e degli Architetti, in occasione di un incontro pubblico, l’agenzia per la pianificazione urbanistica istituita da Hezbollah, Wa‘d, ha presentato il loro progetto e noi la nostra contro-proposta. Vedendo che avevamo pensato di creare una rete di spazi pubblici – e nonostante il fatto che il nostro intervento non prevedesse alcun spostamento della popolazione – uno degli abitanti del quartiere ha comunque contestato con veemenza il nostro progetto, dicendo: “guardate quanti spazi aperti, è inaccettabile, prevedete di spostare metà della popolazione”. In realtà, avevamo solo utilizzato gli spazi inutilizzati e chiuso una strada larga 8 metri. In qualche modo, era stata come cancellata negli abitanti persino la capacità di immaginare uno spazio pubblico.
N.S.: Anche se si tratta di due casi completamente diversi, crede ci siano analogie tra la costruzione di Solidere e quella di Dahiye?
M.F.: È facile fare un paragone tra Solidere e Haret Hreik. Entrambi i progetti sono frutto di iniziative private, rappresentano casi in cui lo Stato ha delegato al settore privato ogni decisione in merito al futuro della città. La pianificazione è stata realizzata partendo dall’alto, è stata seguita una logica centralista che mira ad accumulare capitale finanziario, nel caso di Solidere e capitale politico per Haret Hreik. In entrambi i casi, le parti in causa hanno visto ridotte le loro possibilità di partecipazione alla definizione e alla trasformazione degli spazi nella propria città. Ciò che trovo ironico è che, in entrambi i casi, le rivendicazioni che vengono mosse sono contro la città: Solidere è un progetto bello e pulito che rifiuta il resto della città considerato sporco e retrogrado; il nuovo Haret Hreik è un quartiere che resiste, è attivo politicamente, è un quartiere che volta le spalle alla città corrotta.
N.S.: Chi ha poi elaborato il masterplan per Haret Hreik?
M.F.: Il politburo di Hezbollah ha istituito una commissione, composta da figure locali rinomate nel campo dell’architettura, a cui è stato chiesto di elaborare un “masterplan” per quella zona. La commissione si è riunita, a scadenze regolari, per mesi lavorando entro i limiti imposti dalle linee guida della politica: niente spostamento della popolazione, nessuna modifica dei volumi o nella collocazione degli edifici ecc. La principale miglioria apportata è stata l’introduzione, all’interno degli edifici, di parcheggi sotterranei che permetteranno di ridurre gli ingorghi in superficie.
N.S.: Come vede il futuro di Dahiye?
M.F.: Il futuro di Dahiye è lo stesso della città di Beirut: traffico infernale e cemento. Nessuno pensa al “pubblico” in questa città.

 

Mona Fawaz
has worked since graduation on the restoration of an office building in downtown Beirut, on the design of the region adjacent to the projected North Lebanon Highway, on low income housing in the informal settlement of Hay-el-Sellom south of Beirut, and on Islamic architecture and urban organization.
In 1996 she joined the Department of Urban Studies and Planning at the Massachusetts Institute of Technology. While studying at MIT, Fawaz was actively involved in research projects, studying infrastructure in developing countries, upgrading Palestinian camps in Gaza, the West Bank, and Jordan, and investigating state policies for regularizing informal land and housing settlements.