la visione dello chef Paolo Lopriore
Paolo Lopriore è chef del ristorante Il Canto all’interno dell’Hotel Certosa di Maggiano a Siena. Un luogo ospitale, ricco di storia e di natura fa da cornice alle sale del ristorante e alla cucina, da cui si possono intravedere scorci sulle colline senesi che la circondano.
area: Lo spazio della cucina in cui lavora risponde ad esigenze particolari? Quali sono gli aspetti che considera più importanti?
Paolo Lopriore: Nella maggior parte dei casi capita di doversi adattare al locale in cui lavoriamo. Nel caso di questa cucina, che fa parte del complesso della Certosa di Maggiano, ho trovato un ambiente fortemente caratterizzato sia nella forma, distribuita su uno spazio stretto e lungo, che nelle finiture, dal momento che le pareti sono piastrellate con maioliche molto colorate, che riscaldano e rendono accogliente, ma anche caotico, l’ambiente. Per me è importante lavorare in uno spazio piccolo, perché – non avendo una brigata numerosa né tanti clienti – essere vicino agli altri e avere gli strumenti a portata di mano, mi aiuta a lavorare meglio. Credo che ci sia una relazione molto forte tra l’ambiente in cui ci muoviamo e le cose che facciamo, la mia cucina riceve grandi stimoli dall’identità del luogo, e c’è sicuramente un legame intrinseco tra il piatto che preparo e le suggestioni suggerite dal paesaggio circostante. Le finestre di questa cucina, che si trovano su entrambi i lati della stanza, sono fondamentali, perché mi danno la possibilità, mentre lavoro, di godere del paesaggio che mi circonda e della luce naturale.
area: Cosa pensa della separazione tra la cucina e la sala da pranzo?
P.L.: Il ristorante il Canto ha una separazione molto netta tra i due spazi, e personalmente ritengo che questa divisione sia fondamentale. Il luogo in cui lavoro deve essere uno spazio intimo, non mi interessa essere in vetrina, non cerco la spettacolarità, ma preferisco lavorare sentendomi a mio agio, senza occhi indiscreti, né preoccupazioni di natura formale. Preferisco il rapporto distante con l’ospite, senza troppe ingerenze. Cucinare per un cliente che conosco, per esempio, rende più difficile il mio lavoro, perché conosco i suoi gusti, le sue abitudini e queste inevitabilmente mi condizionano. Si creano delle aspettative reciproche alle quali diventa spesso difficile sottrarsi, si trovano dei compromessi e si perde lo stile. Per questo preferisco non sapere per chi sto cucinando.
area: I materiali degli strumenti utilizzati in cucina sono strettamente legati alla preparazione del cibo. Ha una predilezione per alcuni in particolare?
P.L.: Un materiale che trasmette calore dolcemente è utile alla preparazione di un piatto piuttosto che un altro… ogni utensile viene utilizzato per un fine e con un obiettivo preciso, a volte anche inconsciamente. I materiali che si trovano solitamente in una cucina sono l’acciaio, il rame, la terracotta che per esempio emana un calore particolare, ma soprattutto dà un profumo unico all’alimento che cuoce, e ha la capacità di far rievocare gli odori delle vecchie case, e con essi i ricordi. Altro materiale fondamentale in cucina è quello dei piatti, che personalmente preferisco di forma rotonda, in porcellana fine e leggera. Se il cibo è particolarmente elaborato, lo servo in piatti separati, magari di forme diverse, ma sempre di colore bianco. Il piatto non deve mai appesantire ciò che ospita, non ho la volontà di cercare un effetto estetico immediato nella composizione, quanto piuttosto riuscire a dare massima espressione al cibo che ho preparato. Ovviamente è tutto legato al contesto nel quale operiamo: qui, in campagna, sento la necessità di esaltare i sapori e i colori degli ingredienti, che sono quelli che l’ospite avrà visto e odorato lungo il percorso, nel viaggio che lo ha condotto fino a qui. Da questo punto di vista la Certosa è un luogo straordinario. L’esigenza del colore nella porcellana è una condizione più legata al contesto urbano: laddove si sente la necessità di attirare lo sguardo, di distinguersi da una molteplicità di altri. Viceversa in campagna la cosa più importante è l’ingrediente e la continuità che lo lega alla paesaggio circostante.
area: Ci sono dei piatti nella sua cucina che necessitano di stoviglie particolari? O dei modi di mangiare che siano diversi da quelli convenzionali?
P.L.: Attualmente una cosa che mi diverte molto è mangiare con le mani, e anche questa suggestione me l’ha portata la campagna. In fondo, il filtro che c’è tra la persona e l’ingrediente è la mano,
e mangiando con le mani si ha un contatto diverso con gli ingredienti dei quali rimangono tracce e profumi… Due delle mie ricette sono un’insalata, con fiori ed erbette e un piatto che chiamo “zolla di Certosa”, entrambi da mangiare con le mani. Questi piatti rievocano il contatto con la terra e richiamano il valore tattile nella percezione dell’alimento.
area: Che rapporto ha con gli elettrodomestici? Li utilizza spesso come strumento di lavoro o predilige piuttosto la manualità?
P.L.: L’elettrodomestico è necessario ma resta solo uno strumento che è fondamentale saper usare nel modo giusto, finalizzandone il risultato: occorre la giusta pressione, l’intensità, il tempo, come avviene per qualsiasi altro utensile anche non meccanico. Nella preparazione della mousse al cioccolato, ad esempio, la frusta, meccanica o meno, è l’utensile chiave che è necessario sapere modulare per ottenere il risultato desiderato. Ci sono strumenti dei quali non posso fare a meno: la macchina per chiudere i grissini per esempio, che permette di mantenerne la giusta fragranza, oppure l’essiccatore, che ha un timer e la temperatura regolabili. Nel nostro ristorante facciamo anche il pane con il forno elettrico, che consente di ottimizzare i tempi, e pur non usando quello a legna riusciamo a dargli i profumi tostati dei vecchi forni restituendogli la sua autenticità.
area: Qual è il rapporto di una cucina professionale e una domestica?
P.L.: La differenza sostanziale è che, in una cucina come questa, non si ha mai paura di sporcare. Qui ci si sente più liberi, l’estetica è importante, ma quando vincola troppo diventa un grosso limite all’espressione.
area: Che rapporto ha con il colore?
P.L.: Questa cucina era già così colorata quando sono arrivato, e mi sono abituato volentieri ai suoi colori, al caos e alla libertà che questo ambiente sprigiona. Quando entro in una cucina bianca, troppo bianca, mi sento un germe, un batterio. La cucina non può essere sterile, come un ospedale o un supermercato inodore e asettico. Quando sono arrivato tutto mi sembrava molto più libero rispetto al luogo in cui avevo lavorato prima e ho molto apprezzato questa libertà che inevitabilmente si riflette nel modo di preparare i miei piatti.