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L‘interno, l‘esterno, il vago

Quando lo scienziato sociale comincia a esplorare il discorso contemporaneo intorno al campo architettonico è subito incuriosito dal suo assetto generale. L‘architettura è, quasi immancabilmente, pensata, rappresentata e criticata come oggetto di cui si fa esperienza dall‘esterno, chiuso e completo in sé, convesso. L‘architettura come oggetto concavo, da penetrare, abitare, usare; l‘edificio come opportunità per l‘esperienza dal di dentro sono largamente assenti almeno dai luoghi maggiormente legittimati ad accogliere il modo in cui progettisti e loro critici rappresentano il proprio agire, come le grandi riviste.
Eppure l‘indagine sociologica, psicologica, antropologica sull‘architettura, e anche soltanto la nostra quotidiana pratica di fruitori distratti di spazio, ci impone un ribaltamento: un‘architettura giunge al suo compimento solo quando è pervasa da una vita; quando si incontra, o scontra, col suo destinatario; quando dimostra di saperne anticipare e soddisfare i bisogni; quando si presta ad accogliere l‘imprevedibile caos generato da chi la percorre e la abita. Per cui le scienze sociali applicate all‘architettura subito si trovano obbligate a stabilire una prima fondamentale distinzione tra due classi di obiettivi che l‘agire progettuale persegue: obiettivi che potremmo chiamare “esterni”, quando riguardano l‘oggetto architettonico come superficie convessa, come forma di cui si fa esperienza dal di fuori; e obiettivi “interni” quando invece riguardano la conoscenza e l‘uso che si fa dello spazio quando si entra.
“Entrare”, va detto, anche nel senso più generale di dinamizzare un rapporto con lo spazio, assaggiando col corpo tutto le sue qualità. Si entra, quindi, un‘architettura appena si cessa di essere solo un punto di vista, appena il corpo si muove, e non è più il mero supporto dei nostri occhi, ma il mezzo articolato e sensibile della nostra esperienza di spazio. Il coinvolgimento percettivo, nelle due modalità, interna e esterna, è radicalmente diverso. Nel primo caso, è il guardare a determinare l‘esperienza, è attraverso il senso della vista che l‘architettura si rende manifesta ed esiste-per-noi. Nel secondo, lo spazio progettato circonda il nostro corpo, siamo “dentro”, e tutti i sensi di cui disponiamo (che sono più dei 5 a cui siamo abituati a pensare!) sono coinvolti, e il rapporto con l‘architettura diventa stretto, totalizzante, diventa un corpo a corpo. È ovvio che le modalità di questa relazione suscitino l‘interesse delle scienze sociali. È infatti proprio in questo senso che uno spazio progettato fornisce la cornice per l‘agire umano: favorisce o inibisce non solo comportamenti, ma anche atteggiamenti e stili cognitivi. È qui che la responsabilità sociale dell‘architetto è massima.
Da questa dinamica corporea e cognitiva, da questa complessa interazione, emerge una esperienza dello spazio che è di un ordine di complessità superiore rispetto alla somma di singoli elementi che possiamo rintracciare analiticamente. La cassetta degli attrezzi teorici necessari per affontare questa complessità, è ancora piuttosto vuota; e resta ancora da inventare un linguaggio capace di restituire questa complessità. Non è un caso se è un campo del sapere non empirico come la filosofia a venirci momentaneamente in soccorso, con concetti come atmosfera e Stimmung, su cui torneremo.

L‘architettura come esperienza totalizzante, corporea, complessa e impalpabile che focalizza l‘attenzione sul tema del “dentro” e dell‘abitare si dà anche per gli spazi industriali.
Per l‘edificato industriale si può parlare di un abitare urbano, quando lo si pensa come una parte della città di cui facciamo esperienza dalla strada attraverso le connessioni che determina con il suo contesto; e di un abitare lavorativo quando si guarda dal di dentro, e gli spazi di produzione sono anche pensati come spazi di lavoro in cui l‘uomo trascorre una parte decisiva della vita. Proprio questo secondo aspetto, generalmente marginale nelle trattazioni dell‘architettura sugli spazi industriali, ultimamente si è in qualche modo imposto alla nostra attenzione. Giornali e televisioni continuano a raccontare ogni giorno le proteste per la crisi economica attraverso i volti e i corpi dei lavoratori usciti nelle strade delle città e davanti agli edifici industriali. Questi operai di grandi e piccole realtà si allontanano dai loro ambienti di lavoro quotidiano lasciando “le porte aperte” e ricordandoci di guardare anche dentro a quegli spazi lavorativi.
Così è diventata più evidente la cavità dello spazio industriale e la necessità di curare il progetto di questi luoghi facendo attenzione alle relazioni che esistono tra l‘organizzazione dello spazio di lavoro e la qualità dell‘abitare. Di questo tema si sono occupati molti studi dimostrando che esiste una relazione diretta tra le caratteristiche dello spazio di lavoro, la produttività e la soddisfazione complessiva del lavoro stesso.
Tuttavia, le ricerche in questione hanno prodotto liste di fattori, ovvero elenchi con cui lo studioso scompone il problema parametrizzandolo: è così che la combinazione di caratteristiche come la qualità della luce, lo spazio a disposizione per ciascuno, il colore, la possibilità di guardare fuori da una finestra sembrano determinare il benessere percepito sul luogo di lavoro. È un programma di ricerca che vale senz‘altro la pena di approfondire, ciò nondimeno si ha l‘impressione che tanto più l‘elenco è dettagliato tanto meno si riesca a rendere conto efficacemente della percezione complessiva dell‘abitare un luogo, del suo offrirsi come opportunità per la nostra esperienza. Su questo torneremo alla fine. Alcuni degli edifici industriali discussi in questo numero sembrano particolarmente interessati a cercare uno scambio con il contesto in cui si inseriscono. Si tratta di uno scambio immediato che è allo stesso tempo forma e relazione, usato per rimarginare quelle cesure nette tipiche dei blocchi industriali. Generalmente infatti le esigenze funzionali delle tipologie industriali comportano una relazione inerte tra edificio e contesto fatto di estraneità, di grandi superfici chiuse, di limiti netti e invalicabili che segnano la fine della città e l‘inizio dello spazio di produzione. Lo scambio con l‘esterno è ridotto al minimo, all‘osservazione da lontano, e l‘edificio si chiude in una convessità che nega l‘interazione con le dinamiche urbane. Le scelte dei progetti qui presentati, invece, invertono la curvatura relazionale e lasciano che la vita della città si sporga oltre il limite consueto. Le superfici così permeabili, concave, intersecano esterno e interno facendo diventare gli edifici più che semplici quinte di un paesaggio urbano, ovvero spazi accessibili di cui fare esperienza. Fatto importante perché aprendosi ad un dialogo con l‘esterno i progetti dimostrano che sta cambiando anche l‘immagine complessiva dello spazio industriale e quindi dei brani di città su cui insistono. Se infatti quello del segnare un limite netto tra dentro e fuori è un carattere distintivo per l‘edificio industriale, diventa chiaro come nel progetto di Estudio SIC ad Armunia la scelta di sollevare un blocco da terra lasciando che il basamento diventi lo spazio in cui l‘edificio si ammorsa al suo contesto, cambia il senso del limite e quindi cambia il modo in cui vediamo il contesto stesso.
O ancora nel progetto di Archea Associati è chiaro che la delimitazione di ferro zincato che recinta alcuni blocchi dello stabilimento Perfetti cerca una connessione con l‘espansione residenziale sullo sfondo e crea un dialogo lasciando un margine di permeabilità che è forma e relazione.
Così com‘è eloquente l‘impostazione del progetto di Batlle & Roig Architects per il Waste Treatment Facility in Spagna che rende la riduzione dell‘impatto sul paesaggio tema compositivo e rapporto con l‘ecosistema. Qui lo scambio si rivolge direttamente alle colline circostanti e definisce forma e funzione nell‘uso di tecnologie che coprono il soffitto e delimitano l‘involucro. In questi edifici c‘è un rapporto con il luogo che si gioca soprattutto sulla loro pelle. Espedienti linguistici come la densità, il colore, il materiale o ancora l‘attacco a terra vengono usati con una chiara intenzione di attenuare l‘isolamento
e aprirsi per creare una relazione. Dal modo in cui queste architetture si propongono alla nostra esperienza, possiamo pensarle come occasioni in cui il progetto riconosce lo spazio esterno come opportunità, attribuendo alla città intorno un ruolo attivo, attraverso il quale non è più solo l‘osservazione a determinare il rapporto con l‘architettura ma piuttosto è l‘abitare urbano o del paesaggio a stabilire i termini di relazione. La propensione al rapporto con l‘esterno di questi progetti articola la qualità e quantità degli approcci possibili agli spazi industriali aggiungendo all‘ovvio “guardare da fuori”, altre modalità meno consuete. Pensare all‘impalpabile è necessario per la qualità dell‘abitare. Ma la concretezza dell‘agire progettuale non si coniuga, senza una qualche mediazione, con l‘indistinto, con lo sfumato, l‘ineffabile di questo esserci nello spazio. Ma come affrontare questa opposizione, come “non uscire dal vago ma starci nel modo giusto”?
Un modo giusto è quello di scegliere gli strumenti teorici per renderlo riconoscibile e le parole per parlarne. Per raccontare valori impalpabili bisogna avvalersi di un lessico per l‘architettura fatto di termini che suggeriscano piuttosto che definire. La parola “atmosfera”, ad esempio, connota una significativa inesattezza che ci può essere utile. Su questa ineffabilità si sofferma Tonino Griffero nel suo Atmosferologia costruendo un percorso che ha il merito di dare corpo ad un concetto difficile da mettere a fuoco ma ricco di implicazioni interessanti per l‘architettura. L‘autore usa la parola atmosfera per indicare più che un attributo estetico dello spazio, una qualità relazionale sostenendo che “[…] il modo in cui il mondo è per noi, ossia quale tipo di relazione abbiamo col mondo in ogni singolo momento e come ci sentiamo in esso, è cosa che esperiamo non oggettivamente ma atmosfericamente” per cui quella condizione personale che determina la qualità dell‘architettura è strettamente legata ad “un di-più e un non-so-che sentiti dal corpo-proprio in un certo spazio, ma mai del tutto riducibili al corredo oggettuale di tale spazio”.
Anche le parole che raccontano il paesaggio vengono scelte tra quelle che possiedono un forte carattere evocativo. La centralità che ha assunto di recente la “percezione delle popolazioni” nella riflessione intorno al concetto di paesaggio può essere vista come il riconoscimento di una “cavità dello spazio a scala paesaggistica” per la quale è diventato inevitabile usare parole in grado di restituirla adeguatamente. Tra queste Stimmung è una delle più significative, usata per indicare quell‘intonazione d‘animo, quella connessione intima con il paesaggio che nasce dalla sua contemplazione mentre vi si è immersi. Stimmung è il senso del luogo che si rapporta all‘uomo, è il valore che gli attribuiamo, è la fusione tra noi, il nostro modo di guardare e lo spazio che circonda. Atmosfera e Stimmung ci consentono di almeno tentare di esprimere il senso lieve e inafferrabile che emana dallo spazio quando diventa esperienza dell‘abitare. Anche la fotografia permette la rappresentazione evocativa dello spazio e in questo senso il contributo di Albano Guatti è uno strumento per distinguere tra osservazione ed esperienza di uno spazio industriale, tra spazio concavo e spazio convesso.
Nel lavoro del fotografo, in particolare nella serie Industrial still, è l‘associazione dell‘uomo con spazi vuoti e rarefatti progettati per produrre oggetti ciclopici ad essere oggetto di rappresentazione.
I suoi scatti usano la proporzione come criterio per individuare un rapporto corporeo con atmosfere fuori scala. Guardando le sue fotografie riconosciamo un legame indissolubile tra un sentire ed uno spazio. L‘immagine fotografica è un modo per avvicinarci ad una percezione, per ricreare un senso complessivo che emana dallo spazio. È chiaro allora che la descrizione del fotografo ci dà assai più di quello che rappresenta, e per questo può essere definita “atmosferica”, e con ciò lo sguardo dell‘artista si rende mezzo per accedere all‘impalpabile che si percepisce nell‘architettura. La fotografia ci aiuta anch‘essa a riconoscere nell‘impalpabile un valore architettonico, a ricordare che è l‘uomo che porta al suo compimento l‘architettura col suo abitarla.

Leonardo Chiesi insegna Sociologia nella Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze. È stato visiting scholar al Department of Architecture, University of California-Berkeley. Si occupa di metodologia della ricerca e di scienze sociali applicate alla progettazione architettonica, urbanistica e del paesaggio. Ha recentemente pubblicato Retorica nella scienza. Come la scienza costruisce i suoi argomenti (anche) al di là della logica, 2009, e Il doppio spazio dell’architettura. Ricerca sociologica e progettazione, 2011.

Fabio Ciaravella è artista e architetto ed è cofondatore del collettivo di artisti Studio ++ con cui ha esposto in Italia e all‘estero. La sua ricerca si concentra sulle contaminazioni tra arte contemporanea e progetto d‘architettura e di paesaggio, e sul rapporto tra  spazio pubblico, arte e nuove tecnologie. Attualmente è dottorando in Architecture and Urban Phenomenology presso la Facoltà di Architettura dell'Università di Matera.