area 107 | glenn murcutt

Glenn Murcutt in a portrait by Max Dupain

Sono ormai molti anni che Area dedica uno dei suoi numeri monografici alla figura di un architetto cercando di illustrare con particolare attenzione il suo lavoro e conseguentemente il suo modo di agire e di pensare. Può essere interessante per ogni lettore della rivista, così come per chi vi lavora, guardare retrospettivamente i protagonisti “incontrati” e ripercorrere l’analisi critica proposta sulla loro opera, per comprendere la linea culturale che la testata evidentemente e naturalmente ha costruito nel tempo. Diversamente da altri luoghi e centri di riflessione (questo dovrebbe rappresentare una rivista, in particolare di architettura) Area ha inteso, con questo costante lavoro di ricerca e di indagine, non già forzare tendenzialmente una lettura della realtà, quanto selezionare nel tempo, indipendentemente dalle mode e dal successo del momento, quelle proposte e quei temi in grado di esprimere il significato più autentico di una disciplina, l’architettura, che dovrebbe mettere al centro del proprio agire il senso più autentico e “genuino” dell’abitare e del vivere. Lapalissiano, si potrebbe dire, ma non è così come dimostrerà la ricerca oppositiva che stiamo compiendo in questo periodo in preparazione di un prossimo numero della rivista dedicato al tema arte-archiettura dove il progetto si confronta, viceversa, con la figuratività, l’eccezione, la ricerca espressiva, la comunicazione e, al suo eccesso, la provocazione.
Glenn Murcutt esprime allora, con la sua opera, la sua vita, la sua carriera, l’essenza della continuità. Se per chi scrive si tratta di una continuità di lavoro e di intenti con il percorso intrapreso, più in generale e certamente con maggior rilevanza, la continuità espressa da Murcutt avvalora il tema di un divenire che è costantemente calibrato sulla lettura e sull’osservazione, al contempo scientifica e sensitiva, del contesto nel suo specifico naturale che lo circonda. La sua opera e il suo lavoro ci appaiono così vicini, sul piano della proposta culturale, perché esprimono una modernità attenta ai temi e ai valori, per noi fondativi, delle preesistenze ambientali. Tendenziosamente potremmo rileggere le architetture proposte da questo schivo e incisivo architetto australiano, come uno dei tanti anelli di quella catena evolutiva che lega assieme la mostra di Pagano del 1936 per la Triennale di Milano (per insistere su un riferimento già citato nello scorso numero della rivista), che fu una esposizione dedicata all’architettura rurale italiana, espressione di una modernità intrinseca a ogni costruzione autoctona, con l’opera critica sostenuta da Ernesto Nathan Rogers nel corso degli anni ’50 sul valore della tradizione e dell’osservazione del contesto. Concretamente e operativamente si tratta di una naturale adesione di Murcutt verso un’altra modernità, oppositiva ad ogni internazionalismo e manifesto; una modernità che attraversa il XX secolo percorrendo quegli stessi sentieri del nord Europa solcati, forse è più opportuno dire incisi, nelle pietre e nelle opere di Lewerentz, di Asplund, di Aalto, fino alla riconoscenza in Jørn Utzon di un chiaro, indiscusso maestro. Si tratta di una particolare lettura della realtà – o piuttosto di un’attitudine che, come lui stesso ricorda, sviluppa sin da giovane – dell’osservazione delle opere di Frank Lloyd Wright, Gordon Drake, Charles e Ray Eames, sfogliate sulle riviste portate in casa dal padre falegname, e maturata dopo la laurea e in seguito al primo viaggio da lui compiuto in Scandinavia nel 1962. Si tratta inoltre di un lavoro da cui continuamente emerge una sapienza comunque filtrata da un apprendistato da artigiano oltre che da un viscerale rapporto di conoscenza con il paesaggio che lo circonda, la sua luce, i suoi colori e materiali, i suoi abitanti originari, quella cultura espressa dai modi, dai costumi e dalle tradizioni del popolo aborigeno, che divengono fonte di ispirazione e riferimento.
Dall’opera di Murcutt c’è molto da imparare, non già dai suoi aspetti caratteriali, la ricerca del silenzio, la volontà di lavorare da solo, il proposito di disegnare ostinatamente a mano ogni dettaglio, particolarmente in sezione prescindendo dalla pianta (quasi sempre un rettangolo stretto e allungato), quanto piuttosto dalla sua capacità e insistenza su alcuni temi di cui la contemporaneità ha assolutamente bisogno: il rispetto delle diversità, la semplicità e l’umiltà del lavoro, l’osservazione del paesaggio e dei temi ambientali, il valore delle tradizioni, la scoperta piuttosto dell’arbitarietà della creazione. Questi aspetti fanno di Murcutt un architetto antropologo, un disegnatore di speranze e al contempo di ricordi, un ricercatore instancabile e coerente, un riferimento per quanti considerano l’architettura come un’arte al servizio dell’uomo. È anche per questo forse che Murcutt da oltre dieci anni insegna nelle più importanti università del mondo, è chiamato come esperto in molte giurie internazionali, tiene conferenze e lezioni a giovani architetti e studenti trascorrendo lontano “dall’amata terra” gran parte del suo tempo e rallentando un’attività professionale tuttora fiorente; è per questa sua continua lezione di vita e di stile che dobbiamo essergli grati. Grazie, Glenn Murcutt!