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Il 6 marzo 2008 si è inaugurato a Oslo il nuovo Museo Nazionale di Architettura: opera del maestro norvegese Sverre Fehn, insignito del Pritzker Prize nel 1997, la struttura è ospitata nell’edificio neoclassico un tempo sede della Norges Bank. L’ottuagenario architetto, da poco scomparso, per dare posto alle nuove funzioni, non solo ha trasformato con sensibilità e misura l’impianto realizzato nel 1830 da Heinrich Grosh ma, per non operare eccessivi stravolgimenti nella vecchia struttura, ha disegnato lo spazio destinato ad accogliere le esposizioni temporanee come padiglione indipendente, un ampliamento della preesistenza. Un atto di sottomissione e rispetto verso il grande architetto neoclassico, autore tra l’altro della sede storica dell’Università di Oslo (1841-56). Ma l’inaugurazione ha costituito anche un evento più personale e privato, il raggiungimento di Sverre Fehn di un sogno lungo una vita: la prima realizzazione e la prima commessa diretta da parte della pubblica amministrazione nella propria città.  Con una carriera iniziata nel 1956, e costellata dall’aggiudicazione di numerosi e importanti concorsi di progetti museali (purtroppo solo in scarsa misura realizzati), in realtà il maestro norvegese non aveva avuto molte occasioni di realizzare opere a Oslo.
La nuova sistemazione della Norges Bank si inserisce a pieno titolo nella lunga sequenza di progetti che hanno fatto la fortuna critica di Sverre Fehn. Anzi ne costituisce anche la chiusura ideale poiché il maestro si è spento il 23 febbraio 2009, quasi ad un anno esatto da quel 6 marzo. Un testamento sotto forma di architettura costruita, così come era stato per altri grandi architetti del nord: come ad esempio per Sigurd Lewerentz (1885-1975), il maestro svedese di cui l’architetto norvegese può essere considerato l’unico allievo morale. L’ampliamento del museo, infatti, con il padiglione destinato alle esposizioni temporanee, offre l’occasione a Fehn per riprendere ancora una volta (come sempre) un tema fondantivo del progetto di architettura: il rapporto tra tipo e uso, sancendo definitivamente la supremazia del primo fattore sul secondo e ribadendo per l’ennesima volta il ruolo e il valore determinante della costruzione, sempre rigorosa, essenziale, materica.
La sala è costituita da un recinto trasparente “appeso” alla struttura di copertura: una volta impercettibile che poggia su quattro enormi pilastri cavi, spostati verso il centro rispetto al perimetro e, come la copertura, interamente in cemento armato a vista. Una “tenda” di vetro racchiude e isola lo spazio dall’esterno.
L’opposto dello spazio flessibile e indifferenziato che il museo aveva richiesto e che ci si sarebbe aspettati. Una struttura essenziale ma estremamente formalizzata che non lascia alcuno spiraglio alla “liquidità” spaziale, nella certezza che l’esattezza della costruzione e quella del tipo definiscono un ventaglio di significazioni e di usi di molte volte superiore a quello ottenibile con un progetto “debole” o con un progetto “funzionalista”. Un’opera che ribadisce la forza e l’aspirazione all’eternità dello spazio architettonico, al di là di qualsiasi uso, di qualsiasi tempo, di qualsiasi finitura: di qui la ricerca paziente, lunga una vita intera, non solo dell’essenziale ma della misura, dell’ordine, della proporzione, della esatta costruzione, in una parola, della semplicità. Un’opera ultima che costituisce e rappresenta essa stessa la sua funzione, quella di Museo dell’Architettura: sublimazione in forma costruita del programma. Era già accaduto, agli albori della carriera di Sverre Fehn, quando, nel 1958, si era aggiudicato il concorso per il Padiglione dei Paesi Nordici per la Biennale di Venezia ai Giardini di Castello. Anche allora, la forma costruita, lo spazio dell’architettura, chiamato ad assolvere una specifica funzione espositiva, era stato trasformato dal maestro in una costruzione essenziale e precisa che invece di rispondere direttamente al programma lo aveva sublimato nella struttura stessa della sua configurazione. Rendendola eterna e consegnandola così a tutte le generazioni.

PER OLAF FJELD

Il testo seguente è un estratto della presentazione del volume di Per Olaf Fjeld, ”The Pattern of Thoughts”, Monacelli Press, 2009.

Sverre Fehn
The pattern of Thoughts

[…] Questo libro vuole portare alla vita la sua voce come architetto, educatore, narratore cercando di trasformare l’essenza della sua personale narrazione in uno spazio fisico.
[…]
Partendo dalla mia prima associazione allo studio Fehn, continuando con l’inizio del mio insegnamento con lui alla scuola di architettura di Oslo fino al suo ritiro nel 1994, ho annotato tutte le lezioni a cui assistetti e quando possibile le conversazioni.
[…] Scoprii che avevo scatole di appunti non solo di Fehn ma anche dei suoi amici e colleghi che potevano dare profondità e immediatezza al materiale. Ma l‘elemento più interessante che rinvenni era che le mie annotazioni corrispondevano ai suoi schizzi che erano sempre stati uno strumento indispensabile del suo procedimento creativo.
[…] Il significato della freschezza intuitiva del suo approccio al pensiero architettonico è raro: con questo atteggiamento, presente in tutta la sua opera, Fehn attrae oggi più interesse che mai.
Le sue riflessioni sullo spazio e la cultura seguono uno linguaggio alieno al dibattito architettonico contemporaneo, anche se indirettamente il suo pensiero sembra anticipare cambiamenti che dovremo affrontare nel futuro. Sono anche conscio che questa documentazione ha un valore storico e riuscirà ad attrarre un nuovo tipo di lettore che vedrà Fehn come uno degli ultimi grandi modernisti scandinavi. Egli riprende l’eredità di Gunnar Asplund, Sigurd Lewerentz, Jørn Utzon, Mogens Lassen con un approccio fortemente personale e un profondo rispetto dell’architettura come impegno sociale. La carriera di Fehn segue l’esempio di molti altri grandi architetti a lui contemporanei: è sempre stata sostanziata dalla volontà di lottare, forse anche causata dal fatto di provenire da una piccola nazione. Il suo studio non ha mai avuto più di cinque collaboratori contemporaneamente ma come insegnante ha influenzato una intera generazione di architetti norvegesi. La sua produzione non è estremamente vasta ma c’è una consistenza nella sua qualità che è impressionante.
[…] Sverre Fehn non ha avuto l’energia né la salute per seguire gli sviluppi di questo volume come aveva fatto venticinque anni prima col volume “The Thought of Construction“ ma ne avevamo discusso i contenuti dove possibile l’anno scorso. Se ero incerto riguardo a uno schizzo, al suo significato o a un evento lui mi correggeva. Mi aveva dato accesso totale al suo archivio. Dal materiale dei miei appunti ho selezionato dei pezzi che si connettono a specifichi schizzi idee e progetti.

chiarezza e pragmatismo nell'opera di Sverre Fehn
quattro domande a Per Olaf Fjeld

edited by Laura Andreini

L.A.: L’architettura è un’arte complessa. Con quale procedimento e metodo Sverre Fehn riusciva a ridurre i molti aspetti e le componenti di un’opera nella sintesi di un progetto?
P.O.F.: Per tutta la sua carriera, Sverre Fehn ha lavorato in un piccolo studio, circondandosi di 3-5 collaboratori scelti con cura, generalmente suoi ex-studenti: ha spesso dichiarato che un gruppo di quelle dimensioni rappresentava il team lavorativo ideale. Prima ancora di discutere lo sviluppo di un nuovo progetto con i collaboratori, Fehn spesso aveva già in mente l’immagine architettonica di uno spazio o di un locale, chiara e perfetta e, sotto molti aspetti, già fissata. Le discussioni di gruppo sul progetto erano molto specifiche e orientate concettualmente. In studio, Fehn seguiva attentamente tutti gli aspetti del processo di design fino al completamento delle tavole esecutive, e i lavori in cantiere avevano inizio solo dopo l’ultimazione di tutti i disegni: una volta iniziati i lavori, se possibile, si recava in cantiere quotidianamente. Altro elemento importante, per quanto riguarda la volontà di concentrare aspetti e componenti di un lavoro, era la capacità di Fehn di salvaguardare l’idea centrale di un progetto, senza cedere ad alcun compromesso: le leggi edilizie locali, le discussioni con i clienti e i fattori materiali e tecnici connessi al programma venivano dunque costantemente rivisti, regolati e compendiati in relazione a questo concetto di fondo.
L.A.: Tra le diverse componenti o elementi compositivi quali erano ritenuti fondativi da Sverre Fehn durante il lavoro: la luce, la materia, lo spazio?
P.O.F.: Per Fehn, è stata la ricerca di una specifica qualità spaziale in ciascun progetto a rappresentare un fattore assoluto ed essenziale del processo creativo. La struttura si è fatta presupposto del raggiungimento di questo ideale spaziale e poi ha fatto seguito la relazione fra struttura e materia. La luce, graduata in intensità e quantità, era distribuita nell’ambito di questa invenzione material-stutturale.
L.A.: Le opere di Sverre Fehn definiscono il comportamento e le azioni di un architetto che ha sempre rifiutato la monumentalità; perché e in che modo questa pur lecita ambizione comune a molti architetti e opere era estranea al lavoro di Sverre Fehn?
P.O.F.: Non penso che Sverre Fehn rifiutasse la monumentalità in genere, ma piuttosto la monumentalità fine a se stessa, estranea al complesso processo di scoperta dell’identità di un progetto. Per lui, la monumentalità non era questione di scala, e la riferiva piuttosto a un desiderio spaziale primario: vi si soffermava talvolta nelle sue conferenze e conversazioni, in particolare quelle imperniate sull’architettura e sulla morte. Il fatto che la monumentalità non risulti evidente nella sua opera rispecchia più che altro il modo in cui egli percepiva la complessità spaziale nel mondo intorno a lui.
L.A.: Quali aspetti del lavoro di Sverre Fehn sono più intimamente legati alla biografia e alla sua reale appartenenza e cultura?
P.O.F.: Questa è una domanda complessa, che presenta numerose sfaccettature e può avere parecchie risposte parziali; mi soffermerò tuttavia su alcuni aspetti essenziali. Fehn aveva una straordinaria capacità di leggere e sfruttare architettonicamente il potenziale di un luogo e, successivamente, valorizzare tale potenziale mediante una struttura in grado di esprimere un desiderio spaziale. Per conseguire questo risultato egli si basava sulla sua conoscenza dell’ambiente circostante e consapevolezza del genus loci, ma era in grado di distillare tale esperienza e comprenderla nell’ambito di un contesto più ampio. Allo stesso modo, ha rilasciato l’oggetto mondano nello spazio pubblico più ampio dotandolo di una nuova, più forte identità, il tutto analizzando e incarnando la sua storia individuale e trattandolo come se fosse una creatura vivente.