Fra inesattezze e nuovi obiettivi, anche alla luce di una contemporaneità che ne tocca alcuni aspetti, il Food Design si avvia a divenire uno dei perni della progettualità per la persona. Anche dal punto di vista della socialità.
Marco Pietrosante, ormai il food design sembra rappresentare un campo disciplinare consolidato, ce lo confermi?
Non è esattamente così! Quando qualche anno fa abbiamo iniziato a ragionare intorno all’argomento, con gli amici de i Food Designer, il termine era inusuale e proprio per tale motivo sentimmo l’esigenza di definirne i contorni tematici. Da quelle discussioni, allargata alla platea dei designer dell’ADI, è scaturito il Manifesto del Food Design (2006). Come spesso avviene quando le definizioni hanno successo, in molti si sono appropriati del termine per definire ambiti e attività assai lontane dal mondo del design. Proprio per tale motivo in più occasioni abbiamo organizzato incontri e conferenze internazionali sul food design per focalizzarne gli obiettivi, per poi scoprire che le sfumature e i campi di applicazione sono molti vari e in continuo mutamento, rappresentando una sorta di “frontiera del progetto”. Resta però certo il suo radicamento nell’alveo dell’industria alimentare ovvero nel dato della sua replicabilità in enne esemplari.
Perché il cibo può essere considerato una frontiera del progetto?
Il design si caratterizza per il suo essere strumento della contemporaneità, disciplina chiamata a restituire attraverso il progetto il sentire di un’epoca. Questo suo essere luogo di ricerca e innovazione lo pone al centro dei processi di cambiamento, proprio per la peculiarità di agire in diversi ambiti. Infatti il design, e la sua storia italiana ce lo racconta molto bene, se da una parte sta dentro le dinamiche della produzione industriale, dell’altra è attenta alle dinamiche sociali e politiche, attraverso l’attenzione al progetto per la persona, quello che viene definito “human centered design”. Dal punto di vista industriale il food design ci porta la “buona novella” relativa alla diffusione del suo tessuto produttivo su tutto il territorio nazionale, dal punto di vista sociale ci ricorda, e questi giorni ce lo dimostrano, che il cibo è al centro delle dinamiche degli esseri viventi, anche quelle inerenti l’essere umano nel suo insieme. Questa posizione privilegiata lo pone in una posizione di avanguardia sociale, di vedetta dei cambiamenti che caratterizzano il nostro tempo, basti pensare alle migrazioni che sono sempre dettate da esigenze legate alla sopravvivenza.

Xenia: Pietrosante - Chidiac, Roviti

Quindi il food design si occupa anche di socialità?
Il cibo “è” il luogo della socialità. La condivisone del cibo ha rappresentato e rappresenta, l’elemento di unione e coesione delle comunità, e i suoi luoghi e strumenti, a iniziare dalla grotta con il fuoco acceso, costituiscono gli spazi riservati all’esperienza collettiva, al racconto. Il food design non può che essere intimamente legato ai valori culturali, storici, geografici, tutti elementi legati al comportamento sociale che il cibo è in grado di esprimere. Del resto lo stiamo vedendo con i nostri occhi, il Covid-19 che colpisce essenzialmente la condivisione degli spazi, delle cose, delle esperienze, ha nelle attività legate al cibo, alcuni dei settori che maggiormente risentono della crisi. Come sta accadendo per l’ambito delle aziende legate all’industria della ristorazione, che con il gruppo de i Food Designer stiamo affrontando per individuare possibili scenari futuri, in accordo con imprenditori, ricercatori, studiosi e scienziati tutti protesi verso un obiettivo comune. Questo dimostra, se mai ce ne fosse bisogno, che il design si esprime sulla contemporaneità, sulla lettura dei fenomeni sociali ed il food design non può che essere coerente con questa impostazione metodologica, altre forme di progetto procedono con lo sguardo verso il passato.

Tuiè: Pietrosante, Delli Zotti - Colussi Mas, Bottan

Possiamo allora dire che esiste un Social Food Design?
Assolutamente si, e non è cosa nuova. Se non nella definizione, quantomeno nei fatti; ci sono tanti e validi colleghi che ci accompagnano in questa ricerca. Nella nostra attività professionale quotidiana è una modalità che permette una vitalità e un dinamismo altrimenti impensabile; abbiamo a che fare con le relazioni e se non prestassimo attenzione ai suggerimenti provenienti dal sociale saremmo destinati a chiudere in breve tempo. Anche nelle istituzioni formative universitarie, sedi deputate alla ricerca e dove è quindi più semplice spingere l’asticella più in alto, ci occupiamo di temi legati al food design per il sociale e posso assicurare che l’interesse per questi argomenti è sempre vivo nei giovani progettisti. Del resto le emergenze climatiche, economiche, migratorie con le diseguaglianze che generano sono una continua fonte di studio e opportunità per mettere alla prova il talento e la sensibilità progettuale degli studenti. Si tratta di visioni di sistema che mettono insieme competenze diverse per un obiettivo condiviso come, ad esempio, per il progetto “Prometeo” affrontato in occasione dell’analisi del tema legato al cibo in situazioni d’emergenza, “Tuiè” elaborato come kit di autoproduzione per zone con problematiche di carattere strutturale o di “Xenia”, un bellissimo progetto realizzato in collaborazione con l’azienda sociale Agricoltura Capodarco di Roma che ha visto impegnato un gruppo di lavoro composto dagli ospiti-lavoratori della struttura e gli studenti, nella realizzazione di una etichetta-storytelling per il vino che contenesse i valori dell’accoglienza, della diversità, del racconto.

Promoteo: Pietrosante, Delli Zotti - De Lazzari, Giovanetti, Padovan