area 125 | cino zucchi cza

location: Milan

year: 2012

Marco Casamonti: Non abbiamo pensato a un numero monografico sul tuo lavoro attratti da considerazioni di natura “autarchica” sulla cultura architettonica italiana, ma piuttosto ci interessa un tuo modo di rapportare l‘architettura alla consistenza dei fatti urbani, l‘idea che un edificio è sempre un frammento di tessuto urbano piuttosto che un pezzo di design. Tu hai disegnato in ltalia e in Europa masterplan e progetti complessi e non solo edifici, privilegiando in essi l’urbanità piuttosto che la sorpresa o la spettacolarità; ci interessa quindi guardare al tuo lavoro secondo punti di vista inediti, che non si limitino alla visione un po’ scontata del “professionismo colto” legato a una tradizione tutta milanese. Proprio per questo partiamo dal capire quali sono le letture critiche sul tuo lavoro nelle quali ti riconosci meno o che senti inappropriate.
Cino Zucchi: La critica ha sempre bisogno di categorie semplici, e spesso quella dell’identità culturale è una delle prime. Non ho mai sopportato una lettura “genealogica” dell’architettura, e nemmeno i termini “scuola milanese” o “scuola romana” che ci hanno ossessionato per tanti anni. Singoli atti superano queste distinzioni che sono spesso di comodo, ed operate ex post.
Poi ci sono persone come Luigi Moretti che percorrendo il tragitto inverso di quello di Bramante, scappa da Roma e viene a Milano: il Moretti di Corso Italia o di via Corridoni è “milanese” o “romano”? Non lo sappiamo, forse non è né l’uno né l’altro. Anche la mia educazione ha seguito percorsi non molto lineari. Dopo aver frequentato per un anno l’Università a Milano, sono andato al Massachusetts Institute of Technology, dove ho studiato più fisica e matematica che altro. In quel momento la scuola d’architettura del M.I.T. era connotata da un approccio culturale un po’ alla Team Ten, e ho vissuto quindi i ragionamenti di De Carlo e di Hertzberger filtrati dal clima americano.
Una volta tornato in Italia, sono andato incontro a un fecondo shock culturale e ho finito per comportarmi da autodidatta. Ho fatto qualche incursione nel campo della storiografia dell’architettura, scrivendo un libro sull’architettura milanese del cinque-seicento e un altro su due figure minori del razionalismo italiano, Asnago e Vender. Ho letto molto (faccio parte ancora di una classe d’età per la quale l’erudizione era un valore), e ho guardato al lavoro di molti architetti passati e contemporanei. Riguardo ai “padri”, non mi sento veramente legato a una genealogia; la condizione del trovatello è per certi versi scomoda, ma ha il vantaggio di evitare i problemi edipici in cui si sono trovati molti miei coetanei.
In questo senso, le figure di architetti più interessanti in Italia mi sembrano proprio quelle che sono state ai margini della burocrazia universitaria, che non hanno cercato proseliti, che non hanno tentato di fare del protezionismo intellettuale appellandosi a un inesistente “genius loci” italiano.
Pur avendo sempre concepito l’architettura come attività colta, conservo un atteggiamento diretto verso le cose, verso i problemi nella loro nudità. Non sopporto quando l’erudizione copre le miserie della prassi. Sono un vero empirista (le cose me le vado a misurare, non credo a nessuna misura scritta sui manuali) ma a differenza dei più giovani, che vedono l’architettura come puro evento, ritengo che ogni disciplina debba operare ogni giorno una riflessione critica sulla “lunga durata” dei suoi stessi strumenti. Vedo la cultura come una serie progressiva di trapianti o innesti di cose parzialmente conosciute in contesti diversi, che acquistano proprio per questo significati inattesi, talvolta capaci di azione “retroattiva” o “rinculante” (mi piace questa immagine balistica). Thomas Jefferson, alla ricerca nell’Università della Virginia del classico visto attraverso gli occhi di Palladio, per risparmiare un mattone su due, traccia magnifici muri ondulati stabili in virtù della loro geometria, degni di un’opera di Eladio Dieste, ma è come se ci costringesse a riguardare Palladio stesso attraverso occhi innocenti, togliendoli quel manto di erudizione che Trissino gli aveva elargito.
Non mi piace dare del mio lavoro una lettura troppo autobiografica, ma potrei dire di essere io stesso uno strano innesto tra l’approccio diretto ed empirico assorbito nell’ambiente scientifico USA e la cultura e il rigore filologico della ricerca storica e tipologica che ha contraddistinto la cultura italiana negli anni della mia formazione, “riscoperta” per scelta e non per trasmissione meccanica.
Marco Casamonti: È vero che talvolta la critica prende una posizione e la ferma in maniera così forte e perentoria che poi fa fatica a tornare indietro. Pensando al tuo lavoro mi viene in mente di quando Argan su Casabella critica duramente Le Corbusier accusandolo di aver tradito il suo rigore funzionalista nel progetto di Ronchamp, reo di un eccesso di espressione e monumentalità. Nel tuo caso molti si sono limitati a leggere nella tua casa veneziana il senso della sua evidente ‘venezianità‘ – vista quindi come un evento straordinario e non naturale – da rimanere poi spiazzati nella lettura delle tue opere successive, collocate in altri luoghi e in altri contesti, dove hai proposto un atteggiamento del tutto diverso.
Cino Zucchi: Una leggenda metropolitana narra di come al Newport Folk Festival del 1965 Pete Seeger volesse tagliare i cavi del microfono con un’ascia quando Bob Dylan intonò le note di Like a Rolling Stone sulla sua chitarra elettrica scandalizzando i puristi del folk. Non credo né alla purezza né all’originalità, ma solo alla pertinenza e al carattere. Un motivo ereditato può risultare fresco se adeguato al tema. Ho copiato le cornici bianche delle finestre della casa di Venezia da un progetto di Gabetti e Isola; ma un mese fa Kjetil T. Thorsen dello Studio Snøhetta durante la giuria di un premio mi ha detto sorridendo: “see how many Zucchi’s windows… they all copied you”. Secondo me le idee possono nascere contemporaneamente in più luoghi,  e trasmigrare da un luogo a un altro in maniera inaspettata: sia idee formali che temi “teorici”.
Pier Paolo Tamburelli: A proposito di questo, io credo che sia possibile vedere architetti della tua generazione che tu hai conosciuto più tardi di Venezia ma che perseguono ricerche simili alla tua: Sergison Bates, Caruso St John, ecc. Trovi che esista tra voi un approccio o una costruzione simile della propria identità professionale? Quali sono le possibilità che vi date da subito e i cambi d’interesse nel vostro lavoro? Ti ritrovi in questa lettura oppure no?
Cino Zucchi: Ho rapporti personali e culturali sia con Caruso St John che con Sergison Bates. Li ammiro molto e non penso di essere qualitativamente alla loro altezza. Rispetto a loro io mi sento forse più “eclettico” e vagante; loro infatti perseguono un fine coerente e ben focalizzato. Fanno ambedue un discorso sulla limitazione del linguaggio e sulla sua pertinenza, e ambedue hanno la capacità di limitare intenzionalmente tutte le possibilità formali oggi permesse dall’informatica per generare un paesaggio della città che possa candidarsi a essere un paesaggio comune, condiviso. Potremmo quindi parlare del tema della “reticenza”, inserendo però alcuni elementi che attestano sia la conoscenza del codice che una certa libertà da esso. Nella loro architettura c’è un elemento fortemente “dandy”; Baudelaire paragonava il dandy all’asceta, per il suo ideale di purezza ricercato con ostinazione.
Per tornare al mio atteggiamento, cerco di chiarirlo con alcune analogie (ovviamente senza alcun riferimento alla qualità, ma solo al modo di vedere i temi): un regista come Stanley Kubrick ha fatto film che non si rassomigliano per niente, da Lolita ad Arancia Meccanica a 2001 Odissea nello Spazio a Barry Lyndon (sembra per esempio che in Barry Lyndon egli abbia usato solo luci di candele o riprese en plein air); I Beatles con l’album bianco hanno esplorato quasi ogni genere musicale, dal folk alla musica elettronica al rock; Gustave Flaubert ha scritto Madame Bovary e L’educazione sentimentale, ma anche Bouvard et Pécuchet o Salambò (per scriverlo si era documentato per anni sui Cartaginesi!); e Franco Albini progetta il rifugio Pirovano, la Rinascente a Roma, gli uffici Snam a San Donato e il Tesoro di San Lorenzo in pochi anni. In tutti queste ricerche molto diverse tra loro io colgo un’intenzione di trovare il carattere specifico di ogni opera piuttosto che un’ esibizione del carattere dell’autore. Poco tempo fa Antonio Monestiroli mi ha detto: “Cino, non posso credere che l’autore della casa di Venezia sia lo stesso degli uffici di Assago, dimmi che non sei tu!”. Tra gli Headquarters della Salewa/Arancia Meccanica e la casa di Venezia/Barry Lyndon non esiste alcuna parentela formale, ma solo un tentativo di trovare gli spazi e le figure giuste per ogni “circostanza”, per ogni tema, per ogni contesto specifico: un edificio-réclame in un paesaggio alpino o una casa popolare nel tessuto della Giudecca.
La casa di Venezia è molto simile per tema e linguaggio alle ricerche che tu hai citato sul tema della “reticenza”; però è vero anche che nella mia produzione ci sono cose molto diverse da essa: progetti di paesaggio come il giardino di San Donà di Piave, oppure progetti che cercano di trovare forme espressive in relazione ai nuovi materiali e alle tecnologie a secco; ma tutti legati alla ricerca di una verità “specifica”, non animati dalla pura voglia di sperimentare linguaggi diversi. In questo senso la parola che ho usato prima, “eclettico”, non è quella giusta, forse “situazionista”, ripulita dai suoi toni ideologici anni sessanta, andrebbe meglio.
Pier Paolo Tamburelli: Secondo me in te e in tutti gli autori che ho citato c’è l’idea di fare un’architettura di sfondo, che viene percepita quasi sfocata, distrattamente, come i Richter più classici, che poi ci passi la spugna sopra e svaniscono. Questo desiderio probabilmente dipende anche dal clima di un’epoca e da un’incertezza di fondo. È come volersi prendere delle responsabilità in maniera meno univoca, meno drastica e meno monumentale, come invece poteva fare Monestiroli. È sempre un’architettura nettissima, con gli spigoli che si vedono, e che, per quanto proclami di essere sfondo, in realtà è sempre un’architettura di figura, che devi riconoscere.
Marco Casamonti: Io trovo che questa duttilità del progetto, questa intelligenza contemporanea, l’idea che i linguaggi siano un materiale da scoprire e da utilizzare, appartiene a una generazione di architetti intelligenti, curiosi, che continuano a considerare il proprio agire come ricerca.
Cino, come me e molti altri, ha nei confronti del linguaggio un atteggiamento libero che mette in difficoltà la critica: nel momento in cui essa si sforza di leggere l’opera di Cino all‘interno di una determinata cornice o categoria, lui propone il Museo dell’Automobile di Torino, e in molti rimangono spiazzati, non lo riconoscono più o forse non riconoscono egocentricamente le proprie precedenti affermazioni. Per me la casa di Venezia e il Museo dell’Automobile non sono due edifici antitetici, ma appartengono al percorso di un architetto cosciente della complessità contemporanea, che cambia l’obiettivo della sua macchina fotografica e guarda la realtà in modo diverso secondo l’occasione e le dimensioni, forse proprio in relazione al contesto, quel contesto ibrido che è il paesaggio contemporaneo da molti considerato cristallizzato.
Pier Paolo Tamburelli: Quello che domando a Cino è se ritiene che comunque la gamma espressiva sia limitata. La nitidezza più assoluta, la forma che si staglia più perentoriamente non è mai una cosa che persegui. È sempre un pochino indietro.
Cino Zucchi: Il fatto che io stesso abbia suggerito oggi Pier Paolo Tamburelli come interlocutore è perché c’è un grande interesse da parte mia verso il suo lavoro e la sua riflessione teorica, che ha rappresentato un punto di attrazione importante per la generazione più giovane. Però rispetto a Pierpaolo mi sento più scettico rispetto alla possibilità di una nuova posizione “radicale”; ho una visione tutto sommato più tenera e consolatoria dell’architettura (ho riletto ieri Adolf Behne, che inaspettatamente cita una frase di Guyau “L’art c’est de la tendresse”). Se le pretese di minimalismo e l’ascetismo diventano qualcosa che nega l’abitabilità, la funzione di riparo, e la dolcezza della vita, allora non vanno più bene. La grande domanda è un’altra: quali sono le forme oggi della purezza e della radicalità in un mondo continuamente deformato dai media? La ritrasmissione mediatica rende tutto falso, anche il vero e il puro.
Per cui il problema della generazione più giovane è quello di trovare una purezza, un’affermazione che non suoni falsa nel momento stesso in cui la hai proferita e diffusa. Ma io ho piuttosto una visione “consolatoria” dell’architettura, come una canzone amata sentita sullo sfondo (lo sfondo di cui parlava Pierpaolo) della vita. Vorrei fare in architettura quello che i Belle and Sebastian, Natalie Merchant, Neko Case, A. C. Newman, the New Pornographers o the Shins fanno nella musica.
Pier Paolo Tamburelli: C’è una frase di Hannes Meyer che dice: “La cosa che non dobbiamo fare è costruire i paraventi del teatro borghese”. Sicuramente non dovremmo fare quella cosa, ma probabilmente siamo costretti a farla. Dirselo e farlo è un modo altrettanto onesto per operare oggi, coscienti almeno della natura della nostra condizione.
Marco Casamonti: È vero che costruiamo anche dei paraventi o delle quinte dietro le quali osserviamo una realtà che muta in continuazione, tuttavia l’adattabilità esprime un valore solitamente rilevante nella sua vaghezza, forse abbiamo conquistato quella capacità di lettura della complessità che gli architetti del primo moderno non avevano. L’opera di Cino mi interessa tanto quanto mi interessa l’opera di Herzog & de Meuron, dove vedo ogni volta vi è l’esigenza, per niente scontata, di leggere una realtà diversa, individuare la quinta giusta per quella “scena” del teatro quotidiano nel quale siamo immersi. Quello che Cino ha fatto nella chiesa di Sesto San Giovanni, a Torino, e nella casa di Venezia, dimostra una capacità di lettura dei “fatti urbani” – per usare un termine rossiano –, che spiazza la critica, e questo è la vera ricchezza del suo lavoro.
Pier Paolo Tamburelli: Su questo sono assolutamente d’accordo. Però forse ci sono anche degli altri presupposti. Per esempio Bramante a Roma è molto diverso dal Bramante di Milano perché è totalmente indifferente al repertorio; quello che conta è che ci sia una grammatica e quella grammatica vada fatta funzionare. Però è un modo di lavorare in cui all’architettura viene attribuita un’ambizione possibile, sconfinata a tal punto che Bramante a un certo punto cerca di convincere il Papa a demolire il vecchio San Pietro per farlo nuovo. L’eclettismo, e la capacità di esplorare mondi formali diversi di Cino, ha sempre un tono più pacato. Non c’è mai il monumentale assoluto, e probabilmente questa è una posizione culturale esplicita, che fa parte anche della costruzione della sua figura professionale.
Cino Zucchi: Ma anche il manierista è in certo senso eclettico. Io odio l’800 e amo il manierismo. Il mio idolo è Baldassarre Peruzzi, nella sua grande comprensione del codice e nella sua capacità di assumerlo in maniera libera, non dogmatica. Noi siamo nella seconda fase del Moderno: il dibattito ideologico tra finestra in altezza e finestra a nastro, tra Perret (che usava a sostegno argomenti di circolazione dell’aria) e Le Corbusier (che usava argomenti illuminotecnici) è superata. Oggi la finestra a nastro è un elemento del lessico come un altro, ha perso i suoi caratteri di araldo di una nuova architettura, è entrata nel bagaglio comune. In questo senso noi siamo in un’epoca di Manierismo del Moderno. Il codice moderno ha già vinto, o è già diventato lessico comune: non c’è più il muro contro muro che c’era in quel momento, e possiamo usarlo con maggiore libertà. In fisica mi piace anche la parola “resilienza”, che aggiunge un po’ di corpo al termine “duttilità”, un po’ di memoria dello stato precedente.
Prima Pier Paolo citava Gehrard Richter per i suoi ritratti “sfuocati”, ma potremmo mettere anche lui nella categoria degli eclettici o situazionisti o manieristi, diciamo quelli che non hanno bisogno di dimostrare a se stessi una coerenza del linguaggio. Noi spesso leggiamo l’architettura in forma troppo artistica e troppo autobiografica. Io quando mi pongo di fronte a un nuovo progetto non sento me stesso come “continuo”, sento solo un problema da risolvere. Oggi i regolamenti edilizi sono diventati un incubo: l’80% del mio tempo non è speso a ragionare in forma astratta ma è consumato per farci stare una rampa parcheggio e le sue griglie di areazioni e il blocco degli ascensori. Anche la critica legge l’architettura in maniera troppo artistica, spesso senza capire i meccanismi della sua produzione. Solo guardando all’indietro la sequenza dei progetti si può trovare qualche coerenza, ma questa non è formale, ma piuttosto la realizzazione di una sorta di forza di gravità invisibile del nostro carattere che di fronte ai bivi e alle scelte ci fa piegare da una parte piuttosto che dall’altra.
Marco Casamonti: Non dovrebbe anche la critica cambiare il modo di leggere l’architettura e le sue categorie? Forse il metodo classico, che è incentrato appunto sulla classificazione e sulla catalogazione degli aspetti formali, mostra le corde rispetto alla condizione contemporanea.
Pier Paolo Tamburelli: Questa secondo me è una cosa vecchia e italiana, per così dire “crociana”.
Se uno legge quello che si scrive sull’architettura adesso, questo non è l’approccio più interessante. Non mi sembra che ci sia più questo sforzo di incasellare, che dipende sempre da narrazioni onnicomprensive. Lo vedo come un fenomeno passato.
Cino Zucchi: Vorrei tornare un attimo sul tema dell’architettura come “sfondo” sollevato prima da Pierpaolo. Walter Benjamin diceva che il cinema e l’architettura sono due arti di massa, percepite nella “distrazione”. Questo è per me un dato fondamentale della fruizione dell’architettura. A differenza dell’arte, l’architettura non può selezionare il proprio pubblico; siamo quindi costretti non tanto al problema dell’audience quanto alla critica del nostro lavoro da parte di persone dai valori e dai gusti molto diversi dai nostri: l’architettura è di tutti, anche l’architettura privata lo è, perché “costruisce” la città. Ma nel momento del giudizio, a quale codice e a quali valori collettivi possiamo appellarci?
A un codice di tipo “classicista”, basato sulla convenzione, sul canone, sulla condivisione o a valori di tipo “romantico”, fondati sul tema della sincerità espressiva, sulla sensazione individuale, sull’originalità? Questi due contradditori schemi interpretativi sono in realtà oggi compresenti nella critica e nei giudizi dei cittadini. Forse dobbiamo intendere la coscienza di un codice non in senso normativo e classicista ma come ricerca di un livello minimo di accettabilità e di condivisione. Adolf Loos diceva che l’uomo è elegante quando sparisce tra gli altri (all’interno della civiltà occidentale).
Nel progettare io parto da un elemento pragmatico e non semantico dell’architettura, risolvo un problema distributivo. Sono stufo di sentire tutti gli architetti che per fare una casetta ti devono spiegare prima quale sia la loro “mission”, la loro “vision”, il loro mondo di domani. In questo senso una certa “discrezione borghese” è anche rivoluzionaria, in certi momenti lo star zitto è anche una forma di radicalità.
Pier Paolo Tamburelli: Qui si vede una certa differenza di età, perché io questa cosa la do già per scontata, ossia faccio un lavoro per uno sfondo, non lavoro per tesi, per manifesti, ecc.
Cino Zucchi: Sì è scontata, ma c’è oggi c’è anche molta blob architecture di serie B, molto ecologismo di maniera. Pier Paolo e alcuni suoi amici hanno in questo senso svolto un ruolo importante, riaprendo il discorso con quello che io chiamo il “precedente architettonico” (per non chiamarla “storia dell’architettura”, è un’altra cosa) e i valori collettivi.
Marco Casamonti: Tornando al tuo lavoro, ad un certo punto Pier Paolo ha parlato di sfondi “sfumati”. Rispetto alla casa veneziana che ha una composizione più perentoria, molti ultimi tuoi lavori si basano su una molteplicità di toni cromatici, le finestre si sfalsano secondo una casualità ricercata, come se ognuno si fosse costruito la propria casa come voleva, per fasi, per sovrapposizione, per strati: allora è vero che lo scenario su cui ti muovi è pieno di tinte pastello e cromatismi variati?
Cino Zucchi: Questa ricerca di “naturalezza” - Horace Walpole avrebbe detto di “Sharawaggi”, ho chiamato con questo termine misterioso una mia rubrica su una rivista femminile - era per esempio perseguita con costanza da Asnago e Vender, che sono diventai ormai un cult europeo proprio tra gli architetti nominati prima.
Pier Paolo Tamburelli: Cult di cui tu sei altamente responsabile….
Cino Zucchi: Effettivamente ho misurato e sono andato a vedere i disegni originali della facciata di Piazza Velasca di Asnago & Vender; senza alcuna ragione funzionale, gli interassi tra le finestre sono deliberatamente tutti diversi tra loro, anche di pochi centimetri; generando un effetto di “patina”, di spontaneità, come quelle leggere imperfezioni e asimmetrie che mostra un volto umano riflesso allo specchio. Se Caccia Dominioni scombinava le finestre sui prospetti seguendo un processo quasi artistico, Asnago e Vender cercano di fare dell’edilizia comune, da “Uomo senza Qualità” (non è forse un caso che nel romanzo di Musil si faccia riferimento alla casa sulla Michaelerplatz di Loos) e poi la storpiano leggermente, per invecchiarla artificialmente e farla “assorbire” dalla città. Pier Paolo Tamburelli: Proprio perché per me è questo è un presupposto, ossia che l’architettura vive in una percezione distratta, la mia domanda era invece: questa percezione è sempre distratta oppure esiste anche il caso estremamente minoritario dell’edificio che vive di una percezione attenta, per lo meno per una quantità sostanziale dei suoi visitatori? Esiste un caso in cui questa architettura che produce sfondo diventa invece veramente figura e quindi fai una “facciata” e la fai simmetrica?
Cino Zucchi: La percezione dell’architettura, come quella delle altre arti, non può essere ridotta alla pura sensibilità: Paul Valéry diceva che sta a metà tra il puramente sensibile e il puramente intellegibile. C’è un elemento cognitivo e uno sensista, o sensuale. Questa polarità tra sensi e intelletto attraversa tutta la storia dell’arte e della sua produzione? Se per Durand e l’Ecole de Beaux-Arts l’architettura si traccia a partire da degli assi geometrici che diventano una pianta e poi una sezione e un prospetto, c’è una tradizione anglosassone dove il progetto cerca di prevedere da subito le sensazioni che genererà nell’osservatore in movimento. Io trovo che Kevin Lynch di “the View from the Road” sia l’erede di questa tradizione “percettiva” del townscape.
Il problema è forse quanto l’architetto sia o debba essere in grado di prevedere la fruizione percettiva. Ad un estremo si rischia di dissolversi in mille viste, con una lettura tutta pittoresca e bozzettistica della città; dall’altro c’è la pura tipologia. La famosa pianta di Palmanova, figura forte vista da Google, genera in realtà una città molto mediocre. Nei miei progetti di disegno urbano io uso spesso tecniche proprie al townscape. Un certo grado di narratività, talvolta addirittura un po’ di “carineria” – come di un filo di eyeliner sulla palpebra – non è sempre deprecabile. L’uso del colore è sempre stato vissuto come sovrastrutturale in architettura; io sono invece attentissimo al colore, ho cassetti pieni di campioni di colore dipinti da me a tempera, sono molto orgoglioso del blu cobalto spento delle persiane del Portello, ottenuto dopo infinite prove.
All’altro estremo sta una visione “assonometrica” dell’oggetto architettonico, come quelle delle copertine di San Rocco, la rivista che cura Pierpaolo insieme ad altri. L’assonometria è la visione di Dio perché Dio è in tutti luoghi, per cui l’assonometria è il punto di vista di tutti e di nessuno. La visione assonometrica privilegia l’immagine astratta e concettuale dell’architettura, come lo fa il bianco e nero. Ma io, forse a causa delle esperienze avute, ho minore fiducia nella capacità ideale dell’astrazione, dello “statement”: tra ideologia ed empiria preferisco quest’ultima. Accetto il carattere “sporco” e pragmatico dell’architettura, e non credo che una supposta “coerenza” possa essere usata per giustificare il fallimento di molte architetture al confronto con il mondo reale.
Spesso sono proprio le difficoltà del contesto che danno forma al progetto: la mia casa di Venezia è forse il mio progetto più riuscito proprio perché le condizioni erano estremamente difficili, e c’era bisogno di grande capacità di osservazione del contesto al di fuori dei pregiudizi su una Venezia “da cartolina”.
Pier Paolo Tamburelli: C’è il rischio che questa attenzione alle condizioni del contorno finisca per essere una specie di loro mimesi, mentre io credo che i veri progetti contestuali sono quelli che alla fine si risolvono in un oggetto che dapprima sembra quasi un elemento autonomo, e che poi permette sia una lettura nitida dell’oggetto sia una sfuocata, lasciando al passante decidere se vuole fare attenzione o no. I primi progetti di Aldo Rossi hanno questa straordinaria capacità di essere nitidissimi ma anche di poter essere dimenticati, è veramente un’architettura di quei Richter tutti sfuocati, per esempio quello della Fontana di Segrate; oppure il Triangolo di Polesello per il Parlamento, che secondo me è bellissimo perché reagisce a quel luogo in un modo preciso, peccato che poi Polesello sia andato avanti a fare triangoli per tutta la vita in posti dove non c’entravano niente, e non reagivano a niente. In quel caso, con il minimo sforzo, l’oggetto era in grado di restituire tutta la complessità.
Cino Zucchi: Sono d’accordo: l’analisi del contesto non ha mai generato un progetto. I dati del progetto non sono contenuti né nel contesto, né nel programma. Bisogno formulare un’ipotesi, vorrei quasi dire un “pregiudizio”, che poi viene immediatamente collaudato con i dati o con il contesto. È quello che Charles Sanders Peirce chiamava “abduzione”, l’invenzione di un modello verificato a posteriori ma non prevedibile in base al puro esame dei dati.
In questo senso questo è ciò che unisce l’esperienza scientifica americana e la tradizione del professionismo colto milanese. La generazione di Magistretti, di Caccia Dominioni, di Rogers o dello stesso Portaluppi mostrava un empirismo maggiore di quella di Aldo Rossi e Giorgio Grassi, che pure erano loro allievi. A differenza del razionalismo, l’empirismo è in grado di imparare dai propri errori attraverso un meccanismo di retroazione.
Pier Paolo Tamburelli: Secondo me, nel Rossi migliore, in quello più epico, c’è la volontà di fallire e fare delle cose inutili, come in Fitzcarraldo dove ci sono questi poveri indios della foresta che portano una barca sulla collina e poi la buttano giù.
Marco Casamonti: Se tu parli di dolcezza, mi devi però spiegare il progetto Salewa di Bolzano. Io vedo nelle tue opere le quinte sfumate e molti di quei temi di cui abbiamo parlato, ma la perentorietà ‘scorbutica‘ del progetto di Bolzano sembra diversa da quella di altre tue architetture.
Cino Zucchi: Non sono d’accordo perché secondo me la Salewa è un progetto estremamente accogliente sul lato che guarda verso la città e negli interni: è stato capace di creare un nuovo luogo, peraltro molto frequentato, dove gli utenti del bistrot guardano le competizioni di roccia nella grande palestra che si apre alla vista dei campi e delle montagne. Sul lato verso l’autostrada è un un’architettura simbolo di un’azienda dedicata agli sport alpini, ma il colore particolare del suo rivestimento la rende un camaleonte nel paesaggio. In certi momenti del giorno e da certi angoli sparisce completamente sullo sfondo delle montagne.
Il colore grigio-azzurro del suo rivestimento non è il colore di esse, ma delle stesse viste attraverso l’aria umida, come quelle dello sfondo della Vergine delle Rocce di Leonardo.
La risoluzione contemporanea del tema della “brand architecture” e del paesaggio era quasi impossibile. Ma alla Salewa penso che noi di CZA e i Park Associati, coautori del progetto, ci siamo riusciti.
Marco Casamonti: Penso che ci siano autori con una percentuale di fallimenti molto alta e per un colpo di fortuna a volte gli esce qualcosa di buono. E ci sono altri autori, che sono quelli come te e quelli che ci interessano, che in realtà non fanno mai un’opera scadente: nella continuità del lavoro tu riconosci coerenza di pensiero e ideazione. Ogni tua opera (specialmente quelle costruite) mostra una consapevolezza e una costanza di rendimento che ritengo più importante dei picchi che, nella spettacolarizzazione del progetto, lo isolano immediatamente dalla realtà. Tu sei poco interessato alla calligrafia e più interessato al contenuto, al testo e al contesto, eppure tutte le tue opere sono in un certo modo riconoscibili, autobiografiche.
Cino Zucchi: Secondo me all’inizio il progetto deve essere “formless”; non bisogna accendere la facoltà del “gusto” troppo presto, esso è l’elemento selettivo, ma la prima idea deve essere generata al di fuori del gusto, il gusto non crea ma seleziona soltanto. Credo che le idee si trovino per caso e si conservino per scelta; il processo si muove velocemente tra invenzioni e raffinamenti, in maniera né deduttiva né induttiva. Quando parlo di “gusto” intendo il significato settecentesco di questa parola che include sensibilità ma anche cultura figurativa. Ma le risonanze che io sento nella forma non sono le stesse di quelle di un ventenne. Per me queste risonanze fanno parte del significato.
Alla fine, mi sento un architetto “pop” perché considero la canzonetta superiore ad altre forme musicali, e adoro film come Bastardi Senza Gloria di Quentin Tarantino che sono al contempo sofisticati e popolari. Ho scoperto che Ejzenštejn, il grande regista russo, era invidioso di Walt Disney, e ha scritto un saggio su di lui perché lo riteneva la vera anima popolare.
Io cerco la salvezza nel mondo e non fuori dal mondo, e mi affascina la compresenza che nell’architettura può esistere tra cultura alta e quotidianità. Come diceva Josef Frank nel 1931 in polemica con il formalismo astratto della Bauhaus: “Perciò la nuova architettura nascerà da tutto il cattivo gusto del nostro tempo, dal suo caos, dalla sua varietà e sentimentalità, da tutto quanto è vivo e sentito: finalmente arte ‘del’ popolo, non arte ‘per il’ popolo.”