area 109 | art and architecture

architect: Cristina Iglesias

Cristina Iglesias appartiene a una generazione di artisti che, lontano da semplificati pregiudizi ideologici, non ha vissuto direttamente la netta separazione disciplinare tra arte e architettura. Al contrario: la formazione iniziale segnata dalla influenza di Tony Cragg e Anish Kapoor, per esempio, e il successivo impegno artistico a stretto contatto con importanti esponenti dell’architettura contemporanea – primo fra tutti Rafael Moneo – la spingono a intrattenere una feconda “corrispondenza di sensi” con figure complementari allo scopo di giungere, in un comune sforzo analitico e metodologico, alla scoperta delle relazioni inconsce tra luogo e oggetto, tra esperienza del luogo e fruizione dell’oggetto. In questo senso, la sua attività artistica si inscrive nell’ottica di una partecipazione emotiva, tattile e visiva che proietta lo spettatore all’interno della installazione scultorea secondo il principio del “dasein” (per reintrodurre il termine heideggeriano dell’antica polemica tra Argan e Brandi) ovvero: dell’essere all’interno dell’opera pur all’esterno di essa.

deep fountain in Antwerp - Architect: Paul Robbretch
deep fountain in Antwerp - Architect: Paul Robbretch

In generale, i suoi interventi artistici si distinguono per alcuni tratti specifici: in primo luogo, per il ricorso a differenti tecniche di esecuzione e per l’uso di materiali eterogenei (fibra di vetro, resina, polvere di bronzo, alabastro, fili intrecciati, cavi di acciaio) spinti al limite di una tessitura a tralci che si alterna al viluppo tentacolare di tormentate radici bronzee; in secondo luogo, per l’ostentato rapporto artificio/natura sondato attraverso una ricercata fusione tra distinti ambiti spaziali e temporali; in terzo luogo, per l’articolazione di pezzi collocati secondo il montaggio sequenziale d’ispirazione cinematografica: tecnica che conferisce valore testuale agli elementi scultorei reiterandoli nell’alternanza di luce/ombra con echi di vaga ascendenza barocca; in ultimo luogo, infine, per lo sviluppo labirintico e per la configurazione “aperta” delle grandi installazioni, il cui dispiegamento aereo punta a espanderle sulle “pareti” dello spazio che occupano attraverso le secche ombreggiature delle contesture materiche.
Tra le opere che in modo paradigmatico esprimono rapporti di reciprocità con linguaggi artistici supplementari, di particolare interesse vi è la Diepe Fontein collocata davanti alla scalinata d’ingresso del Koninklijk Museum voor Schone Kunsten (Royal Museum of Fine Arts) di Anversa. Si tratta di un progetto nato dalla collaborazione con Robbrecht & Daem (architetti fiamminghi di Gent a cui preme rimarcare le sollecitazioni interagenti tra arte e architettura) per il ridisegno della Leopold Waelplaast, luogo antistante l’ingresso del Museo. L’opera è una fontana rettangolare di 37 x 17 m. il cui fondo è ricoperto da 2700 tessere con decorazione in bassorilievo. Il centro della fontana è attraversato da una fenditura ortogonale alla facciata principale del Museo da cui ha origine il rigoglìo dell’acqua. La scaturigine lentamente irrora il bacino fino a riempirne l’invaso per riprodurre, con effetto specchiante, la duplicazione del colonnato di facciata. Una volta raggiunto lo stato di quiete, l’acqua rifluisce nella fessura del terreno con un ritmo pendolare di riempimento/svuotamento che rinnova il senso metaforico del ritorno alla origine e del perenne ciclo vitale. Del resto, pur con altro spunto tematico, la stessa inerzia mercuriale del filamento materico riappare nel pannello bronzeo del nuovo edificio per l’ampliamento del Prado di Rafael Moneo. In questo esempio, il portale d’ingresso si configura come una gigantesca tessitura a viticcio, nelle cui graffiature emerge il sistema venoso di una fitta trama vegetale che avviluppa lo spessore del varco, il quale, una volta richiuso, riproduce il nucleo figurativo iniziale secondo i meccanismi del rapporto perpetuo.
Quello che risulta dalla rapida analisi delle opere è sufficiente a sottolineare il continuo affinamento dell’artista nel lavoro di collaborazione con l’architetto, così come testimoniato, ancora, nel “soffitto appeso” all’interno dell’atrio del Centro Congressi a Barcellona (Forum 2004) di Josep Lluìs Mateo. In questo caso, come anche nei corridoi sospesi in improbabili fughe labirintiche, le tele di canapa si intrecciano in una scrittura ideografica da cui emerge il frazionamento visivo del fruitore, visto come soggetto/oggetto di una dinamica iterativa cui partecipa il corredo di corde, di fili e di cavi di acciaio intessuti nella memoria di un recinto sconnesso. Da quanto sopra espresso, quindi, il lavoro di Cristina Iglesias suggerisce l’idea di una scultura che non si esaurisce nella semplice circumnavigazione dell’opera ma si costituisce in funzione del nostro essere in prospettiva con il luogo, con lo spazio e con il tempo che ci attraversa.

Cristina Iglesias (San Sebastian 1956). Fa parte di una generazione di artisti che alla fine degli anni ’80, inizio anni ’90 ha portato all’espansione dell’oggetto scultoreo nel nuovo reame dell’installazione. In contrasto con i suoi predecessori ‘modernisti’, la Iglesias, il cui lavoro è principalmente figurativo, evoca spesso il corpo femminile facendolo entrare in rapporto con oggetti di uso comune come mobili, stanze e edifici architettonici.
Le prime esposizioni di Cristina Iglesias risalgono agli anni ottanta e, da allora molte sono le sue mostre personali: Museum Ludwig, Colonia (2006); Whitechapel Art Gallery, Londra (2003); Museu Serralves, Oporto (2002); Museo Guggenheim, Bilbao (1998); Palacio de Velázquez / Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía, Madrid (1998); Guggenheim Museum, New York (1997); One Room, Stedelijk van Abbemuseum, Eindhoven (1993) and Kunsthalle, Berna (1991).