area 116 | Norway

Natura come tradizione
Dagli scenari uniformi di un panorama internazionale ormai “annoiato” dalle performance stupefacenti dall’esito previsto e prevedibile, emergono realtà locali favorite da intorni geografici, culturali e socio-politici che consegnano all’architettura il ruolo che gli è proprio: l’essere interprete delle condizioni specifiche dei luoghi; di una geografia che esprime al contempo una storia capace di narrare, attraverso il consapevole modificarsi del paesaggio, i pensieri e le attitudini più profonde legate all’attività del costruire. A queste esperienze occorre guardare con ammirazione e rinnovata attenzione poiché se è pur vero che l’architettura sia uno straordinario strumento di comunicazione, è altrettanto chiaro che quest’ultima abbia preso il sopravvento sui contenuti disciplinari  confondendo, come spesso accade, i mezzi con i fini. In questa ottica la migliore produzione architettonica norvegese, secondo una direzione  e una tradizione che attraversa tutto il ventesimo secolo, ha raggiunto in questi ultimi anni, anche nelle occasioni più semplici e contenute, una esemplare coerenza nell’esprimere quegli intenti e quelle volontà che sono a loro volta espressione di conoscenze e di un “sentire“ comune di cui l’architettura opportunamente si fa interprete. Se inoltre, una intrinseca capacità nell’armonizzare contemporaneità e tradizione, unita ad una straordinaria vocazione a celebrare con rigore e semplicità la potenza e la bellezza del paesaggio, costituiscono i capisaldi di questo agire discreto, sicuro e consapevole, certamente è nell’unità-unicità tra storia e natura che si consolida l’apporto più significativo di una molteplicità di esperienze delle quali il numero di una rivista non può che restituire uno spaccato parziale ancorché suggestivo. Si tratta, come bene hanno evidenziato i curatori del numero, di una ricerca affatto casuale che si configura come l’esperienza più concreta e avanzata di una politica culturale che evidentemente non ha tardato ad offrire i propri frutti. Ma se dobbiamo cogliere una qualche verità non dogmatica – cosa che costituisce una necessità scientifica – si tratterà della condizione fisica della materia, della sua verità e, con ciò, della sua bellezza. Credo che l’architettura sia al di là di qualsiasi ragione e che lo spazio sia la conseguenza di un processo complesso e magico di fluttuazione e incertezza guidato da logiche intuitive dettate da processi di trasformazione della materia. E costruire con elementi in pietra, con cemento, suppone un legame inscindibile tra Materia, Struttura e Spazio in cui gli elementi portanti tracciano lo spazio e divengono la sua espressione. Attraverso il medesimo sforzo, il solito atto e a partire dalla stessa idea. L’incontro tra Spazio, Struttura e Materia (ponendo gli elementi in questo nuovo ordine il risultato naturalmente si altera) è la visione più contemporanea dell’architettura. Per dare forma ad uno spazio abitabile questa sequenza richiede un equilibrio meccanico e termodinamico. E costruire con la terra equivale a tentare di comprendere il principio che la storia della scienza ci ha lasciato in eredità: rompere la catena della materia provocando una reazione, ordinarla in una nuova struttura, creare uno spazio. È fisica pura. Richiede molta energia e perciò molto sforzo. L’architettura è questo processo entropico.