Nanda Vigo ci introduce nel suo mondo e ci racconta come la sua passione per l’arte sia diventata non solo la sua professione, ma un progetto di vita, tra sperimentazione e quotidianità. Alla sua storia professionale sarà dedicata, “Live Project”, una mostra cronologica a Palazzo Reale dal 22 luglio al 29 settembre 2019, per raccontare il suo percorso artistico.
Donna attenta, curiosa, interessata alla vita, ci accoglie nella sua casa: una sorta di studio-laboratorio colmo di tutte le sue opere, tra cui la lampada Golden Gate per cui ha ricevuto nel 1971, il New York Award for Industrial Design; l’opera Crontopo, 1965, composta da alluminio e vetri smerigliati. Inoltre c’è quella bellissima foto dove lei abbraccia Lucio Fontana sbucandogli da dietro le spalle.
Cosa l’ha emozionata quando, a sette anni, ha visto per la prima volta la Casa del Fascio di Terragni a Como? Inizia con questa domanda la nostra chiacchierata con Nanda Vigo. Ha descritto perfettamente, come se fosse accaduto una settimana prima, “quella luce abbacinante che esplodeva in tutto il suo intenso splendore attraverso il vetro cemento, quello stupore nato dalla scoperta del gioco fantastico di luce che attraverso un semplice raggio di sole modellava lo spazio”. Da quel momento quel gioco di luce non l’ha più abbandonata ed è sfociato poi successivamente come tema essenziale della sua arte seguendo così un percorso preciso, analizzando sempre il rapporto tra luce e spazio.
Come ha trasmesso questa emozione di splendore che l’aveva emozionata nella Casa di Terragni nelle sue opere?
Cercando di valorizzare la luce rispetto alle situazioni diverse, a cominciare dall’abitabilità: la mia strada è quella della luce, non del disegno stradisegnato ma del tratto puro, essenziale, perché alla luce interessano solo le condizioni.
Dai suoi lavori emerge uno stretto legame tra arte e design...
Negli anni 60 si parlava di design solo in caso di Olivetti. Ho sempre sostenuto l’integrazione tra le arti, ma anche in fase progettuale tra committenza e architetto, perché lavorare insieme dà più valore e unicità a qualsiasi lavoro, oltre a consentire un margine più ampio di personalizzazione.
Cosa racconta Live Project?
È una mostra cronologica sull’arte, sulla ricerca artistica e il suo ruolo nella società, con opere di vario tipo, come Genesis light (2006), che ho donato alla collezione permanente dell’Università Statale di Milano, in cristallo nero e neon rosso: un cerchio perfetto in cui il rapporto tra luce e spazio rappresenta la luce della genesi che avrebbe dovuto accompagnare l’uomo nel suo percorso di vita e il suo allontanamento da essa. Un percorso espositivo che vuole definire l’alterità di una dimensione spazio temporale definita dalla luce in movimento.
Quanto l’era digitale ha distratto le persone dal loro percorso?
Negli anni del telefono a gettoni la comunicazione era diversa e molto più complessa: le persone si parlavano vis-à- vis ed erano in grado di scambiarsi messaggi di vario tipo anche usando un semplice foglietto appeso su una bacheca.
Qual è il consiglio che può dare ai giovani che desiderino intraprendere la carriera di artisti?
Studiare, studiare e ancora studiare. Quello che è successo prima, innanzitutto, perché imparare dalla storia permette di superare i limiti e andare oltre seguendo la propria strada: oggi tutti si copiano l’un l’altro ma senza ricercare la vera paternità degli oggetti.
Una giovane start up nel mondo del lighting, Immenso, le ha dedicato un progetto come se fosse un piccolo tributo a cui lei ha voluto dare il suo nome. Si tratta della lampada da tavolo, Nanda/UP.
Ho deciso di dare il mio nome a questo progetto perché ho ritrovato in Fulvio Fratti, ideatore della lampada e in tutte le persone del team di Immenso, quell’idea genuina che faceva pulsare sogni e passioni nell’Italia degli anni ’70.
Ormai non mi sorprende più niente, per fortuna o per disgrazia, ma trovo molto bello che qualcuno, come Immenso, ancora oggi abbia voglia di realizzare prodotti con la logica del manufatto e curare ogni dettaglio come si faceva allora, quando ho cominciato.
Caratteristiche della lampada NANDA/UP
L'interruttore, che sembra prelevato da uno stereo a valvole degli anni '60 è collocato sulla piastra in modo provocatorio, quasi oltraggioso. È un attore solitario su di un palcoscenico inclinato e non puoi non notarlo. Il suo "Click" è come un ordine. La luce si accende, la luce si spegne. "Click"!
Non c'è snodo, c'è un incastro bloccato da un piolo. Una tecnica antica, simile a quella degli ebanisti orientali, obbliga la sorgente luminosa a restare alla distanza ideale rispetto alla superficie del tavolo. Devi ammetterlo, tutto ciò è tranquillizzante nella sua asciutta eleganza meccanica. Non sai bene il perché ma in fondo questa cosa ti piace.
(Con quel "barra Up" Nanda Vigo ha spostato la prospettiva ed ha aperto una porta, o meglio, un "Gate" verso una rotta ignota da percorrere)