area 118 | condominium

…Si sporse fuori dal parapetto e scrutò la facciata del palazzo sopra di lui, contando i balconi con attenzione. Come sempre, però, le dimensioni dell’edificio di quaranta piani gli diedero il capogiro. Abbassando gli occhi sulle piastrelle del pavimento, si appoggiò allo stipite della porta. L’immenso volume di spazio aperto fra il suo condominio e il grattacielo vicino, a circa quattrocento metri di distanza, sconvolgeva il suo senso dell’equilibrio. A volte aveva la sensazione di vivere sulla navicella di una ruota gigante del luna park, sospesa in permanenza a trecento piedi dal suolo. Nonostante tutto, Laing era sempre felicissimo di quel grattacielo, il primo a essere stato terminato e abitato di cinque unità identiche, facenti parte di un unico progetto immobiliare. Nell’insieme occupavano un’area di un chilometro quadrato e mezzo in una zona di bacini portuali e depositi abbandonati, lungo l’argine settentrionale del fiume.
I cinque grattacieli sorgevano sul limite orientale dell’area, e guardavano su un laghetto ornamentale che, al momento, era solo un catino vuoto in cemento, circondato da parcheggi e macchinari edilizi. Sulla riva opposta sorgeva l’auditorium, appena completato, con la Facoltà di Medicina da un lato e i nuovi studi televisivi dall’altro. Le imponenti proporzioni delle strutture architettoniche in vetro e cemento, insieme alla sensazionale posizione, su un’ansa del fiume, separavano nettamente quell’area residenziale dalle zone circostanti in via di disfacimento, piene di cadenti ville con terrazza dell’Ottocento e fabbriche vuote, già pronte per la ristrutturazione e il recupero.
Nonostante la vicinanza alla City, circa tre chilometri a ovest lungo il fiume, i palazzi e gli uffici del centro di Londra appartenevano a un altro mondo, nel tempo e nello spazio. Le loro pareti divisorie a vetrate, le loro antenne per le telecomunicazioni erano offuscate dallo smog, che annebbiava anche i ricordi del passato di Laing. Sei mesi prima, quando aveva venduto il mutuo per la sua casa di Chelsea e si era trasferito al sicuro di quel grattacielo, era corso avanti nel tempo di cinquant’anni, via dalle strade affollate, dagli ingorghi nel traffico, dai viaggi in metropolitana nelle ore di punta per raggiungere l’ufficio, in condivisione, della vecchia clinica universitaria. Là, invece, le dimensioni della sua vita erano lo spazio, la luce e i piaceri connessi a una sfumata, sottile forma di anonimato. Per raggiungere l’Istituto di di Fisiologia ci volevano cinque minuti di macchina e, a parte quest’unica uscita, la vita di Laing trascorreva nel grattacielo indipendente e autonoma quanto il palazzo stesso. Di fatto, quella struttura abitativa era una piccola città verticale, con i suoi duemila abitanti inscatolati nel cielo. Gli inquilini erano collegialmente proprietari del palazzo, che gestivano direttamente attraverso un amministratore che abitava lì e il suo staff.
A causa delle sue dimensioni, il grattacielo conteneva una notevole gamma di servizi. L’intero decimo piano era occupato da un’ampia galleria, larga come il ponte di una portaerei, che ospitava un supermarket, una banca, un parrucchiere, una piscina con palestra, uno spaccio di liquori fornitissimo e una scuola materna per i pochi bambini piccoli dell’edificio. Sopra Laing, al trentacinquesimo piano, c’erano una seconda piscina, più piccola, una sauna e un ristorante. Contentissimo di quell’eccesso di comodità, Laing faceva sempre meno lo sforzo di uscire dall’edificio. Tolse dagli scatoloni la sua collezione di dischi e fece partire la colonna sonora della sua nuova vita, passando il tempo seduto sul balcone, a guardare i parcheggi e le piazze di cemento sotto di lui. Anche se il suo appartamento era solo al venticinquesimo piano, per la prima volta aveva la sensazione di dover abbassare gli occhi invece di alzarli, per guardare il cielo. Ogni giorno che passava le torri del centro di Londra apparivano un po’ più distanti, il paesaggio di un pianeta abbandonato che, piano piano, gli usciva di mente. A paragone con la quieta e sgombra geometria dell’auditorium e degli studi televisivi sotto di lui, l’orizzonte sfilacciato della città assomigliava all’encefalogramma disordinato di una crisi mentale irrisolta.

J.G.Ballard, Il Condominio, Feltrinelli, 2005, pp.8-10

Pedro Almodóvar,  Mujeres al borde de un ataque de nervios, 1988
Pedro Almodóvar, Mujeres al borde de un ataque de nervios, 1988

Sì, tutto potrebbe iniziare così, qui, in questo modo, una maniera un po’ pesante e lenta, nel luogo neutro che appartiene a tutti e a nessuno, dove la gente s’incontra quasi senza vedersi, in cui la vita dell’edificio si ripercuote, lontana e regolare. Di quello che succede dietro le pesanti porte degli appartamenti, spesso se non sempre si avvertono solo quegli echi esplosi, quei brani, quei brandelli, quegli schizzi, quegli abbozzi, quegl’incidenti o accidenti che si svolgono in quelle che si chiamano le parti comuni, i piccoli rumori felpati che la passatoia di lana rossa attutisce, gli embrioni di vita comunitaria che sempre si fermano sul pianerottolo. Gli abitanti di uno stesso edificio vivono a pochi centimetri di distanza, separati da un semplice tramezzo, e condividono gli stessi spazi ripetuti di piano in piano, fanno gli stessi gesti nello stesso tempo, aprire il rubinetto, tirare la catena dello sciacquone, accendere la luce, preparare la tavola, qualche decina de esistenze simultanee che si ripetono da un piano all’altro, da un edificio all’altro, da una via all’altra. Si barricano nei loro millesimi – è così che si chiamano infatti – e vorrebbero tanto che non ne uscisse niente, ma per quanto poco ne lascino uscire, il cane al guinzaglio, il bambino che va a prendere il pane, l’espulso o il congedato, è sempre dalle scale ch’esce tutto. Tutto quello che passa infatti passa per le scale, tutto quello che arriva arriva dalle scale, lettere, partecipazioni, i mobili che gli uomini dei traslochi portano o portano via, il dottore chiamato d’urgenza, il viaggiatore che torna da un lungo viaggio. È per questo che le scale restano un luogo anonimo, freddo, quasi ostile. Nelle antiche case, c’erano ancora gradini di pietra, ringhiere di ferro battuto, qualche scultura, delle torciere, una panchina a volte per dar modo alle persone anziane di riposarsi fra un piano e l’altro. Negli edifici moderni, ci sono ascensori con le pareti coperte di graffiti che si vorrebbero osceni e scale dette “di sicurezza”, di cemento grezzo, sporche e sonore. In questo edificio, dove c’è un vecchio ascensore quasi perennemente guasto, le scale sono un luogo vetusto, di dubbia pulizia, che si degrada di piano in piano secondo le convenzioni della rispettabilità borghese: passatoia due volte spessa fino al terzo, spessore unico dal terzo in poi, per finire in niente agli ultimi due sotto i tetti. Si, inizierà da qui: fra il terzo e il quarto piano di rue Simon Crubellier, numero 11.

Georges Perec, La vita istruzioni per l’uso, BUR, pag.11-12

La nostra stanza e mezzo faceva parte di un’immensa infilata di locali, lunga quanto un terzo di un isolato, sul lato settentrionale di uno stabile di sei piani che guardava contemporaneamente su tre strade e una piazza. L’edificio era uno di quei formidabili pasticci in stile cosiddetto moresco che nell’Europa settentrionale segnarono l’inizio del secolo.  Eretto nel 1903, l’anno di nascita di mio padre, era il fenomeno architettonico della San Pietroburgo di quel periodo, e Anna Achmatova mi raccontò una volta che i suoi genitori la portavano in carrozza a vedere quella meraviglia. Sul lato occidentale del palazzo, di fronte a una delle strade più famose della letteratura russa, Liteinij Prospekt, Aleksandr Blok aveva avuto un appartamento. Quanto alla nostra infilata, vi era vissuta la coppia che aveva dominato la scena letteraria russa prima della Rivoluzione e che poi, negli anni Venti e Trenta, dominò la temperie intellettuale dell’emigrazione russa a Parigi (…). Dopo la Rivoluzione in ossequio alla politica che prescriveva di “condensare” i borghesi, l’infilata fu fatta a pezzettini e ogni famiglia ebbe una stanza. Furono eretti dei muri, dapprima di legno compensato, tra un vano e l’altro. Poi, con gli anni, assi di legno, mattoni e stucco avrebbero sancito quelle divisioni elevandole alla dignità di norma architettonica. Se c’è nello spazio un aspetto infinito, esso non sta nell’estensione, bensì nella riduzione. Se non altro perché la riduzione di uno spazio, stranamente, ha una maggiore coerenza. E’ meglio organizzata e assume più nomi: una cella, un cesso, una tomba. Le vaste distese sono capaci soltanto di accennare un gran gesto. Nell’URSS ogni persona ha diritto a un minimo di 9 metri quadrati. Noi avremmo dovuto ritenerci fortunati, perché, grazie alla forma bizzarra della nostra porzione d’infilata, ci trovammo alla fine ad avere in tre un totale di 40 metri. Un tale eccesso era dovuto anche al fatto che avevamo ottenuto questo alloggio quando i miei genitori avevano rinunciato alle rispettive stanze, in due diverse parti della città, in cui abitavano prima di sposarsi. Questo concetto di scambio – ma sarebbe meglio chiamarlo baratto (considerandoli carattere definitivo giuntale scambio) – è qualcosa che non c’è verso di far capire a un estraneo, a uno straniero. Le leggi sulla proprietà sono arcane dappertutto, ma alcune sono più arcane di altre, specialmente quando il tuo padrone di casa è lo Stato. Il denaro non c’entra, per esempio, dal momento che in uno Stato totalitario non c’è una gran varietà di fasce di reddito – in altre parole, ogni persona è povera quanto l’altra. Il tuo alloggio non te lo compri: se tutto va bene, hai diritto a un numero di metri quadrati equivalente a quello che avevi prima.

Iosif Brodskij, In una stanza e mezzo, in Fuga da Bisanzio, Adelphi, 1987, pp. 191-194.

Bernardo Bertolucci, Ultimo tango a Parigi, 1972
Bernardo Bertolucci, Ultimo tango a Parigi, 1972

Il Palazzo dell’Oro, o dei pescicani che fusse, era là: cinque piani, più il mezzanino. Intignazzato e grigio. A giudicare da quel tetro alloggio, e dalla coorte delle finestre, gli squali dovevano essere una miriade: pescecanucoli di stomaco ardente, quest’è certo, ma di facile contentatura estetica. Vivendo sott’acqua d’appetito e di sensazioni fagiche in genere, il grigiore o certa opalescenza superna del giorno era luce, per loro: quel po’ di luce di cui avevano necessità. Quanto all’oro, be’, sì, poteva darsi benissimo riavesse l’oro e l’argento. Una di quelle grandi case dei primi del secolo che t’infondono, solo a vederle, un senso d’uggia e di canarinizzata contrizione: be’, il contrapposto netto del color di Roma, del cielo e del fulgido sole di Roma. Ingravallo, si può dire, la conosceva col cuore: e difatti un lieve batticuore lo prese, ad avvicinare coi due agenti la ben nota architettura, investito di tanta e tanto risolutiva autorità.
Davanti al casermone color pidocchio, una folla: circonfusa d’una rete protettiva di biciclette: Donne, sporte e sedani: qualche esercente d’un negozio di là, col grembiule bianco: un “uomo di fatica” e questo col grembiule rigato, e col naso in veste e in colore d’un meraviglioso peperone: portinaie, domestiche, ragazzine delle portinaie che strillavano “a Peppì!”, maschietti col cerchio, un attendente saturo d’arance, prese in una sua gran rete, con in cima i ciuffetti di due finocchi, e di pacchi: due o tre funzionari grossi, che in quell’ora matura agli alti gradi avevano appena disciolto le vele: diretti, ciascuno, al suo ministero: e un dodici o quindici tra perdigiorno e vagabondi vari, diretti in nessun luogo. (…) Ingravallo seguito dalla portinaia e dai due, e dai commenti di tutti, “’a polizzia, ‘a polizzia”, salì al terzo piano, scala A, dove abitava la derubata. Gran seguitò la gran ciarla: le voci spiegate o addirittura canore delle femmine, emulate da qualche trombone maschio, a quando a quando ne venivano addirittura sopraffatte: come le cervici chine delle vacche dalle gran corna del toro: la ragione della folla raccoglieva i trefoli delle testimonianze iniziali, dei “giuro che l’ho visto”: principiava a intortigliarli in un epos. Si trattava di un furto, più precisamente di una rapina a domicilio, manu armata.

Carlo Emilio Gadda, “Quer pasticciaccio brutto di via Merulana”, Garzanti, 1987, pp. 17-19.

Mi fermo davanti all’appartamento di Lauren al Silk Building proprio sopra il Tower Records dove l’ho vista poche ore fa, e mentre spingo la Vespa nell’ingresso il portiere adolescente con la camicia figa alza esitante il ricevitore salutando con un cenno della testa Russel Simmons che mi passa davanti e esce sulla Quarta strada.
(…) Le porte dell’ascensore si aprono e io appoggio la Vespa nel corridoio davanti all’appartamento di Lauren. Dentro: tutto bianco, un paravento di Charles o Ray Eames, un tavolo a forma di tavola da surf, sempre degli Eames, le rose che ho visto nell’ufficio di Damien sopra un gigantesco piedistallo di Eero Saarinen circondato da sei sedie a tulipano. MTV senza audio su uno schermo gigante nel soggiorno. (…) Lauren mi passa davanti, imbocca un corridoio coperto di tappeti  in stile berbero e cuscini marocchini ricamati ammucchiati contro le pareti e poi sono nella sua camera dove mi lascio cadere sul letto, appoggiato ai gomiti, i piedi che sfiorano appena il pavimento, e osservo Lauren entrare a grandi passi in bagno e cominciare a strofinarsi i capelli con un asciugamano. Alle sue spalle, appeso sopra il water, c’è il manifesto di un film indipendente con Steve Buscemi.

Bret Easton Ellis, Glamorama, Einaudi 1999, pp. 185-187.

Woody Allen, Manhattan, 1979
Woody Allen, Manhattan, 1979

Percorse un po’ la Shin-Oume-Highway in direzione del centro, quindi a semaforo voltò a destra verso la Kuniatachi. Oltre il boschetto di peri, a sinistra, si scorgeva il vecchio condominio. Lei abitava in uno di quegli angusti appartamenti in affitto.
(…) Posteggiò la Golf nello spazio riservato. Tutt’intorno c’erano solo utilitarie e neanche un’auto straniera. Era orgogliosa della sua macchina, e uscì sbattendo rumorosamente la portiera. L’aveva fatto apposta, sperando che qualcuno si svegliasse. Anche se sapeva che, se uno degli inquilini si fosse arrabbiato, avrebbe finito col chiedere umilmente scusa. Alla fin fine bisognava tenere la testa a posto e comportarsi educatamente, anche se talvolta costava fatica. Entrò nell’ascensore imbrattato di graffiti, salì al quarto piano e, strascicando i piedi, si avviò lungo il corridoio – ingombro di tricicli e scatole di polistirolo – fino alla porta del suo appartamento. Girò la chiave nella serratura, entrò nella stanza immersa nell’oscurità e udì subito il russare animalesco proveniente dalla camera in fondo. Tutto come al solito. Appoggiò il giornale che aveva sfilato dalla cassetta delle lettere sul tavolo da pranzo di compensato comprato a una televendita.
(…) Nella stanza il caldo era soffocante. Kuniko mise in funzione il condizionatore e aprì il frigorifero. A stomaco vuoto non sarebbe mai riuscita ad addormentarsi. Ma non c’era nulla. (…) Kuniko furiosa, aprì una lattina di birra. Mentre beveva prese un pacchetto di patatine e accese il televisore. Saltò da un  programma all’altro finché non trovò una delle rubriche scandalistiche del mattino. I pettegolezzi sui vip le tiravano sempre su il morale. Adesso doveva solo aspettare che l’alcol facesse effetto.

Natsuo Kirino, Le quattro casalinghe di Tokyo, Neri Pozza, 2003, pp. 26-27.

Whatever works, 2009
Whatever works, 2009

Poi prendemmo per Manzanillo, deviammo in Aguas Calientes e svoltammo di nuovo verso sud in Medellin fino ad arrivare alla calle Tapeji. Ci fermammo davanti a un edificio di cinque piani e Pancho mi invitò a pranzo a casa sua. Salimmo in ascensore fino all’ultimo piano. Lì, invece di entrare, come mi aspettavo, in uno degli appartamenti, ci arrampicammo su per la scaletta del terrazzo. Un cielo grigio, ma abbagliante come se ci fosse stato un attacco nucleare, ci ricevette in mezzo a una profusione vibrante di vasi e di fiori moltiplicati lungo i passaggi e sui lavatoi. La famiglia di Pancho abitava nelle stanze sul tetto.
(…) Una delle stanze fungeva durante il giorno da tinello e sala tivù, e la notte da camera da letto di Pancho, Moctezuma e Norberto. L’altra era una specie di guardaroba o ripostiglio gigantesco, dove per di più c’erano il frigorifero, gli utensili da cucina (…) e il materasso su cui riposava donna Panchita.
(…) La stanza di Pelle Divina era, al contrario delle due stanze occupate dai Rodriguez, un esempio di nudità e di austerità. Non si vedevano panni stesi, non si vedevano suppellettili domestiche, non si vedevano libri (…) solo un materassino e una sedia – non c’era un tavolo – e una valigia di cuoio, di buona qualità, dove teneva i vestiti.

Roberto Bolaño, I detective selvaggi, Sellerio, 2003, pp. 92-94.

Lone Scherfig, An Education, 2009
Lone Scherfig, An Education, 2009
Sam Mendes, Revolutionary Road, 2008
Sam Mendes, Revolutionary Road, 2008