Intervista a Mauro Olivieri, designer e cofondatore dei Food Designer.

Mauro, quanto conta l’immaginazione nel tuo lavoro?
L'immaginazione ha regolato da sempre il mio fare, una sorta di incontrollata esigenza che generava segni e mi riportava sempre alla realtà. Parlo al passato perché non ricordo il momento che vivevo e non sapevo neanche perché mi succedeva questo, capii più tardi che si chiamava: progetto. Ancora oggi è come una abitudine nel farsi cullare dalla bellezza, nella voglia di farne parte senza sapere dove prenderla, dove trovarla, consapevole che standoci dentro sia possibile riconoscerla e farne parte. Questa è l'immagine che ho del mio percorso, un sentimento di forte partecipazione alla vita quotidiana attraverso un’idea, un segno, un disegno, una naturale abitudine che regola da sempre il mio tempo e metodicamente scruta e indaga tutto quello che può essere ripensato per diventare un progetto nuovo. Il progetto, ovvero la necessità di mettere sempre in relazione tutto, agire nel confronto, operare nella ricerca, a volte esasperata, concepire nuovi cambiamenti.
Non mi piace ri-progettare quello che c’è, mi sento attratto dal nuovo perché è fautore di libertà inattese. Creare scompiglio, questo mi piace, un disorientamento regolato però da principi, che mi permette di alzare l'asticella al senso che mi sono dato; immaginare e progettare quello che veramente serve ad aggiungere qualcosa di nuovo alla vita quotidiana di tutti.
Come ti definiresti? Un creativo, un designer, un progettista… o che altro?
Nasco come designer, una formazione che ha toccato il mondo del progetto in tanti ambiti, tutti nell'intento comune di portare una risoluzione a un problema o a una necessità, a un bisogno anche non concreto, potrei definirmi: un mestierante del disegno. Un mestiere il mio in cui sento la responsabilità come demarcatore di storie e di opere che devono assolutamente essere il più possibile un esercizio oggettivo di valori. Proprio come un falegname quando realizza un tavolo. Un percorso, questo, che sento forte e che ha orientato sempre tutte le mie scelte. Da giovane la mia formazione doveva essere rivolta allo studio della cucina con un Istituto alberghiero, ma il disegno prevalse lasciandomi solo al piacere di farla la cucina e di mangiare. Mai avrei creduto che dopo 30 anni potessi coniugare questi miei due ambiti in un unica professione tramite il Food Design, materia che oggi come cofondatore dei I Food Designer mi permette di lavorare al sistema progetto all'interno di atti legati al cibo. Emerge quindi la mia necessità oggettiva di dare nuove risposte e orientare nuove visioni del progetto verso un ambito così importante come il cibo, un atto che ci sostiene e deve sempre più essere regolato da principi nuovi e soluzioni in armonia con l'uomo e l'ambiente.
Un processo tutto da costruire a tutti i livelli e con tutti gli interlocutori che muovono da vicino e da lontano sistemi alimentari. Il mio primo lavoro dopo alcuni anni di analisi e ricerca è stato proprio un nuovo formato di pasta che come già detto in altre occasioni non nasce come un puro esercizio di stile ma nel risolvere alcune problematiche e necessità. Si tratta dei Campotti progettati per Il Pastificio dei Campi del Gruppo De Martino che nel 2010 ha ricevuto la menzione d’onore del Compasso D’Oro ADI.

Come il food entra nel sistema prodotto progettato e con quali caratteristiche? Ci sono prodotti a cui sei legato?
Progettare un prodotto legato al cibo è più complesso rispetto alla progettazione di altri oggetti: lo ingeriamo. Nella  fase di progettazione è primario considerare questo fattore  che riporta parametri di ergonomia, salvaguardia della salute, della sicurezza, della piacevolezza. I progetti a cui tengo particolarmente sono due, ed entrambi mi legano al mio territorio, al senso di identità che include la progettualità.
L’Oliena è uno strumento per la tavola che entra nel panorama delle “macchine-abili” così come definisco io quegli oggetti che hanno oltre alla loro funzione la forte propensione alla soddisfazione. Si tratta di un esaltatore di olio che riveste un ruolo importante: dare o forse ridare una identità all'olio all'atto del suo uso. Una sorta di equivalente del decantatore per il vino con la differenza che l'olio non ha bisogno di essere decantato ma di essere “capito” nei suoi valori. Capire colore, profumo, densità, profondità, fragranza, intensità attraverso la semplice azione di versare un olio da una bottiglia spesso verde scura non aiuta. Mancava un oggetto che potesse far emergere queste caratteristiche molto diverse tra gli oli, sia per la grande cultura italiana di questo alimento e per le grandi diversità tra oli, sia per l'opportunità che Oliena offre di entrare nell'intimo di questo grande prodotto.
La sua forma identitaria e iconica si adatta per scrutare l’olio, consumarlo versandolo prima in Oliena permette che si possa partecipare alla esperienza di un uso più autentico,  godendo di tutti i pregi di un olio. Il “lago” al centro aiuta a percepire il profumo, il colore e la sua densità, il periodo di produzione, il canale di discesa aiuta a capire la viscosità. Lo spumino agitato nel lago d'olio carica le gocce dell'olio con bolle d'aria che portate in bocca diventano micro esplosioni rilasciando tutti gli aromi e sapori profondi dell'olio.
L'altro progetto è legato alla realizzazione di un alimento nuovo che fungesse da narratore di un luogo. Un dolce in scatola costituito “da terra” simulata per forma e colore attraverso l'uso di materie prime caratterizzanti di un territorio. Mi riferisco alla Linea TerrediItalia con le tre varianti Terraditaggiasca, Terradilanga, Terradiportofino, una textura fortemente iconica che ricorda la terra sia alla vista che al tatto impregnando la bocca di sentimenti e matericità gustosa, ricca di memoria. Una forte identità, dove il sapore dell'olio di cui è fatto, con le olive glassate, pinoli e altri ingredienti offrono la sensazione di mangiare la terra senza provocare fastidio, ma un piacere ricercato: sentire ed entrare in un territorio mangiando addirittura la sua terra.
Come il progetto può aiutare le aziende che operano nel Food?
Mi sento vicino alle piccole aziende locali o nuove aziende nascenti che vogliono entrare sul mercato e trovano davanti a loro il muro della competizione spinta della eccellenza ormai evocata da tutti come un valore non sempre riscontrabile e la grande macchina del consumo che non sempre guarda verso il piccolo produttore. Il progetto resta necessariamente l'unico a cui legarsi per mettere a sistema un vero e organico approccio, cercando di maturare la consapevolezza di come la competitività si combatte con la diversità. Essere unici, prima di tutto, essere armonici nella proposta, performanti nella risposta, narratori nella personalità. Mettere in relazione questi criteri è il compito del designer perché solo un progetto con un respiro olistico può offrire una visione e creare un sistema azienda completo. Chiunque voglia emergere non può pensare di non dotarsi di questi strumenti che vanno intesi nella loro totalità, complessità e innovazione, di metodologie applicate e costruite sul campo. Oggi l'innovazione la si crea anche con la progettazione di nuovi prodotti alimentari, nuovi in tutto, in gusto, in forma, in sapore, in visual, nel racconto, nella esperienza che induce.

Parlare di piccole aziende è un pò come parlare di territori; come pensi il futuro nella costruzione di una nuova offerta turistica?
Questo è un argomento ostico e complesso ma che sento fortemente addosso in virtù di una ricerca che sto portando avanti da ormai 25 anni. Intanto comincerei a parlare di luoghi e non ti territori, perlomeno quando si analizza il problema, credo che i percorsi di marketing territoriale abbiano troppo spesso tralasciato un aspetto fondamentale, l'uomo. I territori non esistono solo per merito della bellezza che madre natura ha elargito con grazia su cui costruire principi economici, vanno invece regolati da un approccio che prenda in considerazione anche gli attori che sono il sistema vivente, custode e artefice. Costruire un sistema economico dunque è possibile attraverso una progettualità rigorosa, dedotta dai criteri di analisi e di traduzione tipici dell'approccio del design dei sistemi territoriali, capaci di offrire nuove e diverse opportunità. Con il gruppo I Food Designer abbiamo sviluppato un sistema/progetto declinato proprio su questa analisi e approccio e grazie all’opportunità di lavorare in gruppo possiamo offrire un sistema lavoro, capillare e di sintesi per consegnare a luoghi, città e aree  una propria capacità di sussistere secondo una identità vera e autentica secondo i principi del Brand dei Sistemi Locali Food Design Identity. Un processo fondamentale di coesione tra tutti i stakeholder con l'attivazione di nuove metodologie di sviluppo per far emergere la vera, e a volte nascosta, autenticità e unicità.
Il Food Design è uno dei parametri di applicazione per creare anche come offerta una nuova integrità dei valori alimentari che strettamente coesistono in aree piccole, molto grandi e diverse. Abbiamo operato in diverse aree del territorio nazionale come la bassa Valle d’ Aosta, la Val Bormida, il Monferrato per citarne alcuni, comprensori. Il progetto realizzato in Valle Argentina, nel ponente Ligure alle spalle di Taggia, patria dell'oliva Taggiasca grazie a questo intervento ha ottenuto il riconoscimento ADI Design Index 2015 con il progetto di Food Design Identity e due anni dopo il Premio Grandesignetico.

I CAMPOTTI
La Storia
“Era il 2009 e ormai da 4 anni mi confrontavo con un progetto legato al mondo del cibo. Era un modo per capire quanto la progettualità -che da sempre avevo applicato ad altri prodotti- potesse offrire nuove opportunità anche all'ambito alimentare. La forza del progetto è in grado di creare un piacere profondo per un designer, come un sentimento di alimentazione pura per il proprio spirito e per la propria testa; la necessità di mangiare le idee che a loro volta si alimentano come un percorso circolare che dà vita. Con questa sorta di fame continua, tutto diventa ripensabile e rivedibile. Nella forma, nel colore, nella funzione, nel piacere di guardare un prodotto. La tensione verso la creazione di una nuova idea progettuale prese forma anche grazie a un aneddoto che non poco ha influito nell’ideazione dei Campotti. Una sera a cena in un rinomato ristorante campano vidi una stimata giornalista americana combattere una sfida con un piatto di paccheri: prendere misure e cercare equilibri per portarli alla bocca. Provò a tagliarli con i rebbi della forchetta, non senza un affronto a una cultura antica che fonda le sue origini troppo lontano per massacrarle! Il condimento era tutto lì spalmato sul piatto.
Da lì nacque l’idea dei Campotti: ripensare un prodotto-pasta, ma soprattutto dare una nuova forma al gusto affinché se ne potesse godere appieno durante la sua fruizione. È un atto questo di dignità che una pasta merita perché lì dentro c'è la nostra identità, il nostro saper fare, il nostro terroir, il nostro essere semplici: acqua e semola ma con una ingegnerizzazione dietro che sorprende!


I Campotti non sono un esercizio stilistico ma una nuova lettura del bisogno: un pacchero nella sua struttura è costituito da due anse per raccogliere il condimento, il Campotto ne ha 9 di anse, dunque raccoglie molto più condimento, riequilibrando le parti al momento di mangiarlo. La forma dà un senso di appagamento alla camera boccale, esprimendo rotondità e pienezza nella fase di masticazione e il giusto equilibrio con il condimento. Non nego la grande difficoltà del passaggio tra il disegno e la sua creazione, ma l'approccio ardito di Giuseppe di Martino -entusiasta come me- vide in un nuovo segno, derivato dal miglioramento di un bisogno, la possibilità di offrire una nuova visione. La bellezza diventava un sentimento da mangiare, come un progetto di cui alimentarsi per crescere nello spirito, nella mente e nella pancia; un sentimento alto -quello che è per la gente e verso la gente- il tutto sempre con un po’ di poesia.
Il progetto per una pasta è assoluto equilibrio delle sue dimensioni che determinano una forma o la forma più vicina possibile ad armonizzarsi al suo condimento, sia a quello più semplice e sia a quello più ricco, senza perdere la sua identità: perfetta al palato, alla bocca, ai denti, alla gola, allo stomaco. È per questo che progettare una pasta è un atto di reale ricerca e condivisione di tutti gli elementi che portano a un prodotto finito che non è solo un oggetto da guardare e da usare ma anche da mettere dentro di noi”.