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Sviluppato assecondando grandi fasi storiche di importanza sovranazionale, il panorama dell’architettura ungherese si presenta come un continuo passaggio dalla regola all’eccezione. A prima vista, da quel che si coglie passeggiando nella bella Budapest, sembrerebbe che i parlamenti, i municipi e le antiche istituzioni educative testimoniassero la grandeur barocca e classicista del periodo regio-imperiale della Casa d’Austria, ma c’è l’eccezione del collage magiaro del Vajdahunyad Vara, nel parco dell’esposizione. Sembrerebbe che tutti gli edifici borghesi di inizio XX secolo rappresentassero uno svagato jugendstil, ma c’è l’eccezione di Ödön Lechner. Sembrerebbe che tutti gli edifici per il lavoro, l’istruzione e lo sport della seconda metà del XX secolo testimoniassero l’epopea modernista degli anni del Socialismo, ma c’è l’eccezione degli edifici di culto e la presenza della forte personalità di Imre Makovecz.
In quanto protagonista che costruisce prevalentemente nella periferia della nazione, Imre Makovecz rappresenta l’eccezione esplicita contro gli stili importati. Con molta cultura, egli sa cogliere le energie della natura, ma sa anche sviluppare l’antica anima profonda del folk magiaro. Con il suo mestiere artigiano, partendo della lamiera piegata e dell’incastro del legno, riesce imporre un nuovo lessico simbolico, di una potenza espressiva senza uguali. Ben vengano i reportage di scoperta, che, villaggio dopo villaggio, raccontano sempre meglio, che cosa è stato il centro Europa nel Novecento.

Martina Giustra
Imre Makovecz e l'architettura organica ungherese
LetteraVentidue  2014