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Giovanni Polazzi: Sei attualmente riconosciuto come uno dei designer più ricercati nell’ambito della nautica, i tuoi interventi nell’ambito dello Yacht Design sono molto apprezzati e celebrati. Come hai conquistato questo ruolo e queste capacità?
Francesco Paszkowski: La mia storia è lunghissima, ho lavorato in molti paesi del mondo ma la mia formazione e probabilmente, la mia fortuna, è legata all’opportunità di poter conoscere e collaborare con Pier Luigi Spadolini. Casualmente, durante una cena di lavoro, conobbi un cliente dello studio Spadolini: un greco produttore di gioielli che faceva affari fra la Cina e Singapore. Mi offrì di lavorare in un nuovo cantiere di Singapore specializzato nella costruzione di barche da 28/42 metri. All‘epoca in Italia l’economia era condizionata dalla nostra vecchia moneta, la lira, e dal costo della nostra manodopera, mentre l’importanza e la diffusione del dollaro a livello mondiale consentiva, in oriente, di poter realizzare una imbarcazione di pari livello per meno della metà della spesa. Un 42 metri, il cui costo di costruzione in Italia si aggirava sui 25 miliardi di lire, poteva essere realizzato a Singapore con circa 10 miliardi, pertanto molte aziende avevano spostato la loro produzione e costruivano imbarcazioni in cantieri localizzati in tali paesi. Il problema consisteva nell’arretratezza di tali contesti nel settore della nautica. Singapore in effetti è sempre stato un porto di smistamento, la loro unica esperienza era quella navale e commerciale mentre il settore dello yacht e del lusso non era ancora sviluppato; pertanto essendo alla ricerca di professionalità e competenze ho avuto l’opportunità di approfittare di questa condizione ed acquisire fin da giovane una forte conoscenza ed esperienza sul campo.
G.P.: Costruivate per committenti stranieri con competenze e professionalità esterne e manodopera locale?
F.P.: A Singapore è sempre stato così. La grossa sfida era quella di cercare manodopera specializzata in Italia e importare tutti i macchinari mentre la manovalanza era locale. Questa esperienza bellissima, iniziata a 27 anni è durata 6 anni. La parte commerciale e gestionale era a Atene, quindi io mi muovevo fra queste due città imparando moltissimo in un tempo relativamente breve.
G.P.: Il mercato della nautica dove ti ha portato? Dove stai lavorando adesso?
F.P.: Attualmente sto lavorando in Europa, soprattutto in Italia. Sto continuando una collaborazione, iniziata nel ‘96 con un cantiere olandese e, contemporaneamente, realizzo progetti su invito di altri cantieri o committenti diretti. Ultimamente sono i cantieri che invitano i designer in base alla loro fama e alla loro riconosciuta esperienza, in modo da proporre ai clienti esclusività e qualità del design oltreché riconosciuta qualità costruttiva.
G.P.: È il cantiere che propone un progettista, oppure è il committente che lo ricerca autonomamente?
F.P.: Se hai un cliente diretto vivi la realtà cantieristica in un modo completamente diverso, se viceversa hai un cantiere che ti commissiona un progetto il committente è chi costruisce e quindi è un rapporto completamente diverso. Sperimento il mio particolare rapporto con il mondo della nautica secondo questi due canali: quello del cliente privato con cui si seleziona talvolta anche il cantiere o quello del cantiere che sceglie con chi lavorare in funzione dell‘esperienza del designer e delle richieste del mercato.
G.P.: I diversi cantieri ti richiedono un concept da presentare successivamente al cliente oppure indicano loro i limiti e i parametri del progetto?
F.P.: Il cantiere fornisce una scatola, che chiamano Box, indicano i parametri e i limiti (costi, dimensioni, ecc…) dai quali non uscire pur potendo esprimersi liberamente sul piano della fantasia in termini di stile e quindi di design. Durante il lavoro tutto deve rientrare all’interno dei parametri, ad esempio 70metri per 70 milioni. Il progetto è 70x70. Il controllo maggiore viene effettuato dal cantiere, ma anche il progettista mentre lavora al layout deve sempre controllare il progetto e le proposte al fine di non superare per quanto riguarda gli arredi i 3.000/4.000 euro al metro quadrato. Cifra alla quale va aggiunto in seguito anche il montaggio e questa è una conoscenza ed una capacità che si raggiunge soltanto con il tempo e con l’esperienza; per questo altri designers sono più ricercati di altri, per la loro bravura e creatività sul piano estetico ma anche per la capacità di centrare con il progetto il budget.
G.P.: Qual è il tuo settore specifico?
F.P.: Opera morta (ndr. La parte dello scafo della nave situata al di sopra del piano di galleggiamento) e interni, ossia tutto quello che vedi: è un lavoro di carrozzeria. Se dovessi classificarmi, io sono un carrozziere, un disegnatore di interni e un decoratore, poi però vengo chiamato designer.
Come ho già detto, ho avuto la fortuna di lavorare allo Studio Spadolini e quindi di fare molta esperienza mentre stavo ancora studiando alla Facoltà di Architettura. Il mio mondo è diventato il design, anche se in realtà nasco come illustratore. All’epoca facevo dei renderings fotorealistici, che in quel periodo non erano molto diffusi. Passavo giornate e nottate a fare disegni in bianco e nero. Poi la vera esperienza l’ho fatta sul campo, anche andando a lavorare a Singapore, dove ero in contatto con falegnami e artigiani. Attualmente ci sono delle scuole di nautica che insegnano solo a gestire sommariamente il programma Rhinoceros affrontando poco il tema specifico delle barche e della nautica in generale. Gli studenti escono troppo sicuri del loro lato creativo ma poi non sono assolutamente in grado di gestire la parte economica di un progetto. I pochi architetti capaci che ho conosciuto sono coloro che hanno lavorato in studi molti grandi, come Rogers, Spadolini, Piano…dove si impara a vivere il mondo dell’architettura e il mondo della costruzione allo stesso tempo, come dire teoria e prassi.
G. P.: Tornando al progetto, il punto di partenza sono i parametri che stanno alla base di ciò che potremmo definire bando di concorso o meglio di consultazione, fornito dal cantiere?
F. P.: Il cantiere dà i parametri ma poi devi cercare di creare qualcosa di nuovo per superare la concorrenza. Non è soltanto un’operazione di stile. Quando ho iniziato a lavorare con Sanlorenzo, cantiere di Viareggio e Ameglia, tali cantieri non avevano ancora realizzato un prodotto costruito con un materiale come l’alluminio; materiale che rappresentava, in un certo senso, una incognita. Per tali motivi mi hanno chiesto qualcosa di nuovo sapendo tuttavia che avevo lavorato per Baglietto e che avevo già fatto esperienza con l’alluminio. Ho proposto loro un progetto, un’idea nuova che avevo elaborato anni prima: una barca con dei balconi che si aprono a sbalzo nel salone e nella cabina armatoriale. Si tratta in definitiva di una scatola chiusa che si apre suggestivamente per vedere il mare. Il progetto è piaciuto e abbiamo avuto uno straordinario successo. In generale il progettista deve creare e proporre nello stesso spazio nuove funzioni, nuove opportunità diverse da quelle dei tuoi concorrenti, ad esempio un beach club nella zona di poppa, una spa vicino al mare, ecc… in sostanza, un’idea originale che trasformi un progetto in un’espressione unica e originale. La sfida è dura, perché una barca è sempre una barca, quella zona è sempre quella, quindi devi giocartela o con i cinematismi o con lo sfruttamento dello spazio, la rotazione dello scafo: insomma è una questione di dettagli. Vince chi ha più senso del dettaglio e riesce a mettere in pista un’idea più innovativa, più accattivante, diciamo che l’obiettivo di fondo è suscitare meraviglia restando pragmatici e tecnicamente ineccepibili.
G. P.: Anche con l’uso di materiali innovativi?
F. P.: No, sui materiali nuovi in realtà c’è molta resistenza. Anche per i rischi che solitamente il loro impiego può comportare. Recentemente ho provato a presentare un progetto con un materiale che ho trovato vicino ad Ancona, simile ad una stoffa che, se bucata, si ricompone grazie ad una sorta di effetto memoria che porta il tessuto a ricomporsi. Pensavo di realizzarci una sovrastruttura di rivestimento per creare qualcosa di “spaziale”. Ho avuto l’occasione fortuita di incontrare un armatore arabo che cercava qualcosa di nuovo, mai visto sul mercato. Ho iniziato a pensare quindi di trasformare l’immagine di una sorta di “Vespucci”, in qualcosa d’altro; in pratica, sfruttando le caratteristiche di quel materiale, si potevano ruotare i fiocchi per farli diventare dei pezzi di tessuto volanti. Si trattava di un materiale incredibile che mi permetteva di trasformare di notte questa barca in una lampada gigantesca. All’armatore l’idea è piaciuta, ma per adesso il progetto è fermo perché con il cantiere non ci troviamo con i costi. Si tratta di un progetto molto interessante, è un mix vela/motore: nasce dall’idea di realizzare le vele con questo materiale innovativo sfruttando in futuro anche l’opportunità del fotovoltaico in modo che la sovrastruttura possa diventare fonte di energia, l’ossatura viceversa, invece di realizzarla in alluminio poteva essere fatta in lamellare, rispondendo in questo modo alle nuove esigenze “green” che stanno attraversando e condizionando oltre l’architettura anche il mondo della nautica.
G. P.: C’è attenzione ai temi della sostenibilità anche nel mondo della nautica?
F. P.: Non puoi non farci caso, però fondamentalmente in una barca a motore non puoi arrivare a raggiungere risultati significativi. Alcuni cantieri hanno provato a fare delle barche elettriche (Ferretti) ma siamo ancora lontani dal successo. L’unico modo dovrebbe essere quello di realizzare una sorta di petroliera con tanti mq di fotovoltaico per far sì che tu possa convogliare una gran quantità di energia per muovere le eliche, ma più aumenti la superficie più aumenti la massa ed il peso senza quindi raggiungere mai l’obiettivo. In questo campo i cantieri sono andati in un’altra direzione, pur mantenendo il motore a gasolio si sono orientati sulla progettazione di scafi più performanti attraverso tudi ingegneristici più approfonditi, ricercando un maggior scorrimento con minor consumo e minor potenza, in molti cercano di portare il motore, che prima pompava in modo indiscriminato una quantità indefinita di litri di gasolio, a pomparne la metà pur avendo la stessa velocità e essendo addirittura più veloci. Le carene si stanno modificando e con queste si modifica anche la sovrastruttura, il design generale. Io sto sviluppando con un ingegnere di Livorno, Rabito, uno scafo più affusolato, più performante, una sorta di canoa, che riesce a consumare ed inquinare molto meno poiché in definitiva necessita di un motore meno potente pur migliorando le prestazioni. Questa ricerca è “green oriented”.
G. P.: Che rapporto c’è tra il settore della nautica e altri mondi legati all’industrial design ad esempio quello dell’automobile? Si muovono di pari passo?
F.P.: Direi di no. Con Lancia abbiamo fatto una sorta di gioco per vedere come se la sarebbero cavata i designer della nautica all’interno del mondo automobilistico. Io mi son divertito molto tuttavia per quanto riguarda il car design possono esserci delle migrazioni che si limitano all’emulazione delle linee o dei profili ma non molto altro. Nei miei disegni certe trasmigrazioni si notano molto, ma a causa dei cambiamenti che ci sono stati, soprattutto di recente, secondo me il car design non potrà essere associato alla nautica più di tanto. Io ci provo perché è sempre stato il mio sogno ma so che è difficile.
G.P.: Quanto la storia e la tradizione della nautica incidono sui nuovi progetti?
F.P.: Io sto lavorando ad un progetto, che è per me una sorta di punto di partenza per un nuovo modo di interpretare il tema della barca, per ritornare alla nautica la quale possiede delle valenze lontane dal mondo dell’architettura, anche se poi molti clienti vedono la barca come una sorta di villa galleggiante.
Ogni volta che devi inventare qualcosa di nuovo, devi allontanarti dal passato, dal conosciuto, anche se, a mio giudizio, si è persa in questi ultimi anni, e non è un bene, la tradizione italiana della nautica poiché sono cambiate le tendenze e le scelte del mercato. Forse la crisi sta anche penalizzando la ricerca; prima del 2008 le banche si erano accorte che la nautica rappresentava un forte settore di business e finanziavano molti progetti e iniziative. Trovavi miliardari che arrivavano in cantiere e commissionavano una barca, poi arrivava uno straniero che la voleva anche al 30% in più giocando al rialzo e il flusso di denaro favoriva ricerca e sperimentazione, oggi, non è più così.
Nel 2008 c’è stato un crollo forte del settore e siamo tornati ad una nautica di 20 anni fa, più banale, meno sperimentale e talentuosa.
G.P.: Tu lavori per cantieri italiani?
F.P.: Sì, ma anche per cantieri stranieri. Oggi potrei lavorare molto in Turchia, ma per scelta personale non lo faccio. In verità i cantieri italiani sono i migliori del mondo da un punto di vista di capacità produttiva. Tuttavia per quanto riguarda la qualità, intesa a 360°, è necessario andare in Germania o in Olanda, è come comprare una Mercedes o una BMW. Si notano le differenze nell’organizzazione, nel prodotto e nella tecnologia, è una questione culturale e mentale: ad un tedesco non puoi improvvisare niente, se gli dici che tra 6 giorni la barca è pronta, il 6° giorno si presenta e se non è pronta vi sono conseguenze a cui probabilmente gli italiani non sono abituati. Qualitativamente parlando il Made in Italy è ancora forte: noi facciamo delle linee esteticamente più belle e accattivanti, più velocemente degli altri e con una cultura del taglio di ottimo livello. Però a noi interessa principalmente l’estetica, la superficie, ci concentriamo meno su quello che avviene tra la struttura e la superficie.
In quel pacchetto c’è un mondo che può variare da 30 a 40 milioni a barca, a parità di dimensioni. I tedeschi sono bravi soprattutto nell’invisibile. La prima volta che sono andato in Olanda e in Germania, nelle sale macchine calde e roventi, i tubi ai quali ti appoggiavi erano freschi perché raffreddati dall’acqua che vi passava all’interno. C’è molta attenzione anche per il comfort degli ambienti dell’equipaggio, a differenza di ciò che accade nei cantieri italiani, è una questione culturale.
G.P.: Rispetto ai Turchi o ai Cinesi, i nostri prezzi sono ancora oggi molto più alti?
F.P.: Sì, e questo è molto pericoloso, per quanto riguarda la Turchia. I cinesi invece fanno più investimenti finanziari (hanno investito per es. nel gruppo Ferretti) che scelte consapevoli di sviluppo del settore nautico: la Cina ha un mare oggettivamente brutto, le coste non sono curate e i porti turistici sono del tutto assenti anche perché culturalmente non amano il sole ed il mare. I ricchi miliardari possiedono una Ferrari ma molti la tengono in garage: l’età media dei ricchi ha 27 anni e forse hanno interessi diversi dalla passione per il mare. Nel mondo occidentale lo yacht è un segno di potere, in Cina no! Alcuni cantieri europei stanno andando in Cina cercando di fare una parte della loro produzione là, ma si tratta di eventi sporadici. Uno straniero va da Baglietto, da Sanlorenzo, ecc. proprio perché sono espressione di bellezza e Made in Italy, il Made in China nel lusso ancora non funziona. Secondo me questa trasmigrazione in Cina rappresenta una bolla che sgonfierà, perché anche i cinesi acquistano in Europa gli oggetti di lusso. Inoltre i nuovi ricchi non vogliono copie potendo permettersi l’originale, l’autenticità di una tradizione che fortunatamente rimane saldamente in mano agli europei.
G.P.: Adesso a che progetti stai lavorando?
F.P.: Sono tornato a collaborare con Baglietto dopo due anni di fermo per un problema di gestione del cantiere. Adesso c’è un nuovo proprietario, il Gruppo Gavio. Sto seguendo per loro 5 barche, 2 della nuova gestione e 3 di quella vecchia. Con Sanlorenzo una barca multifunzionale dislocante, per tutti i mari (Mari del Nord, Caraibi, Messico), tutta green e molto interessante. Con CRN sto progettando un 60 metri, con l‘olandese Heesen un 50 metri. Con Tankoa due 65 metri e ho appena terminato gli interni di un Canados 120.
G.P.: Questi grandi progetti, iniziano a costruirli anche senza committenti o no?
F.P.: Prima del 2008 c’era maggiore progettualità e propensione al rischio perché il mercato comunque “tirava”. Adesso no, c’è un processo di acquisizione più complesso, di pagamenti, garanzie, fideiussioni, ecc. Per un progetto di un grande yacht normalmente si impiegano 3 anni e, se è un progetto particolarmente difficile, anche 5 anni, ma ormai più nessuno vuole giocare di anticipo.
G.P.: Quante persone lavorano al tuo studio?
F.P.: Attualmente 6 persone, anche se ho altri 4 esterni: 2 renderisti a Cascina e 2 che fanno gli esecutivi dei mobili a Genova. 6 è il numero minimo per lavorare dando qualità. Devi comunque legarti a studi satelliti che puoi sganciare in momenti di crisi, anche se io non ho mai sganciato. Inoltre c’è lo Studio Ciapetti, che è un’agenzia di grafica pubblicitaria di Firenze che mi segue tutta la parte dell’immagine, delle foto e dei libri. Per ogni barca che ci interessa particolarmente facciamo una pubblicazione, affinché anche l’armatore abbia un libro da regalare agli amici.