area 104 | introverted architecture

Joao Alves e Alessandro Tessari: Guillermo Vázquez Consuegra, premio ‘Andalucia de Arquitectura 2007’. Questo è un premio al suo percorso professionale. Ci piacerebbe iniziare questa conversazione chiedendole in che modo l’architettura ha influenzato la sua vita.
Vazquez Consuegra: Ho avuto la fortuna di stabilire da sempre una continuità tra la mia vita privata e sociale e l’architettura, dissolvendone i limiti fino a farli scomparire. Per questo posso dire che l’architettura rappresenta la mia vita. Sono convinto che si tratti della professione più bella, perché ti permette di vedere e di conoscere il mondo, di capire le città in modo distinto, non solo dal punto di vista degli edifici, ma da una prospettiva sociale più profonda. Ciò che è indispensabile per conoscere una città è riuscire a captarne l’anima, la sua essenza.
J.A. A.T.: Nel discorso di ringraziamento al premio lei ha detto: “Ho desiderato portare nella mia terra i valori che ho visto al di fuori di essa e ho voluto dare ai miei progetti i valori del Sud”. Ci può spiegare meglio a quali valori di intercambio si riferiva?
V. C.: L’architettura è fatta di scambi, di meticciaggi, di ibridazioni. L’architettura avanza in questo senso, si va appropriando delle influenze di altre architetture e di altre culture. Credo che la tradizione debba rinnovarsi costantemente per non cadere in uno sterile isolamento. Noi architetti dobbiamo saper leggere e riformulare i messaggi della tradizione nell’epoca contemporanea senza cadere nella tentazione della riproduzione letterale o del mimetismo; interpretarla significa produrre un atto creativo. L’architettura fonda le sue radici nella tradizione, nella propria cultura locale ma costantemente si nutre, si ‘fertilizza‘ con l’introduzione di altre esperienze.
J.A. A.T.: Quale aspetto dell‘architettura regionale della sua terra ritiene sia più profondamente radicato nella sua opera?
V.C.: Sono sempre stato affascinato dalla sequenza di spazi prodotti dall’architettura mediterranea; spazi ambigui, di intermediazione tra l’architettura e la città, dove sfuma il limite tra l’edificio e la strada. Questi aspetti ricorrono in modo quasi ossessivo nella mia opera, dove permane un’eco profonda di questa indeterminazione; percorsi pubblici che si convertono in vestibolo, in terrazza, in patio, approssimando e mescolando dimensioni diverse per generare emozioni.
J.A. A.T.: Qual è a suo avviso l’eredità culturale che questi spazi reinterpretano?
V. C.: Spesso la forza poderosa della città finisce col subordinare l’architettura. Quasi tutti i grandi edifici andalusi sorgono da una sorta di processo di aggregazione di frammenti urbani, una cucitura di interstizi e svuotamenti che lasciano un grande margine di ambiguità tra dimensione pubblica e privata. Le plazas de Toros nascono come rielaborazione di piazze urbane rettangolari via via trasformate in recinto chiuso circolare. I ‘Corrales de Vecinos’ seguono una genesi simile, meravigliose aggregazioni di case attorno a corti che fungono da spazio comune. Così i conventi o i palazzi nobiliari sono porzioni di diversi edifici che diventano un ‘unicum’ attorno a vari vuoti urbani che li organizzano. Non sono mai interventi ‘ex novo’, tracciati aggredendo la città ma sempre porzioni di essa che si convertono in edificio, giocando con la densità affascinante della trama urbana. Sono spazi che vanno assumendo una carica di ambiguità, di interrelazione sociale intensa.
J.A. A.T.: …anche la casa a patio andalusa gioca un ruolo determinante in questo senso…
V. C.: Sì, la casa sivigliana, erede diretta della “domus romana” è un esempio emblematico di queste sequenze spaziali; il vestibolo di entrata è uno spazio di transizione in ombra che conduce al patio interno illuminato e ventilato, separato dalla strada alla quale spesso rimane relazionato visivamente. La gerarchia di queste case è data dagli spazi vuoti che organizzano le funzioni interne e scandiscono i ritmi, le relazioni e le dinamiche dei percorsi; inoltre risolvono efficacemente e con mezzi semplici il tema della sostenibilità energetica delle case. Il patio è un meccanismo ingegnoso di difesa dalle alte temperature estive della nostra regione. Durante il giorno, per evitare l’eccessivo riscaldamento delle stanze interne, si chiudono porte e finestre; queste vengono lasciate aperte di notte grazie ad apposite griglie. In questo modo il patio funziona come un camino che cattura il calore della casa trascinandolo  verso l’alto rinfrescando gli ambienti interni; la vegetazione, che sempre adorna questi spazi, crea una microumidità interna ideale. Il pavimento di marmo bianco permette di mantenere questa umidità e dare una sensazione visiva di maggior freschezza. Su questi temi, la millenaria architettura araba e romana può insegnarci ancora molto; i passaggi dal caldo al fresco, dall’ombreggiato alla luce, dal rumore al silenzio, dal secco all’umido sono caratteristiche che danno all’architettura un valore di “sensualità” spesso dimenticato dalla grande tradizione del movimento moderno europeo. Ritengo che questi valori dovrebbero continuare ad influenzare la riflessione architettonica, riportandoci alla grande lezione di dignità e coerenza che emerge dall’architettura locale.
J.A. A.T.: Quali sono stati i grandi riferimenti della sua formazione di architetto?
V. C.: L’università di Siviglia dove mi formai era una scuola di architettura molto giovane, che era arrivata solo alla terza generazione di studenti, mancavano dei grandi maestri per cui cominciai un percorso di autoformazione che in un certo senso continua fino ad oggi. Da allora, ho sempre guardato in molte direzioni e ovviamente potrei parlare dell’influenza dei grandi maestri come Le Corbusier o Mies o della profonda relazione con il razionalismo italiano. A questi però devo aggiungere un profondo e prolungato interesse per il nord dovuto forse all’attrazione che esercitano i poli opposti. Aalto, Asplund, Jacobsen, l’empirismo scandinavo e la sua lezione di attenzione per i materiali, una architettura più organicista, più astratta, di forte impatto, di una potenza dirompente. Ebbi inoltre il grande previlegio di conoscere molto presto Lewerentz, la cui opera era ancora sconosciuta e che mi provocò una emozione fortissima; Juan Gelman, poeta argentino, descriveva la poesia come “un albero senza foglie che dà ombra”; mi piacerebbe utilizzare questa metafora per descrivere la sua architettura in quanto si esprime attraverso un’essenzialità portata al limite che ti accoglie e ripara, con intensità e austerità quasi spartana, nel senso di spogliarsi di tutto ciò che non risulta essenziale risolvendo i problema della città e dell’uomo.
J.A. A.T.: Nei primi anni Settanta si è occupato di seminari internazionali di architettura tenuti in Spagna a cui tra gli altri partecipò anche Aldo Rossi; in che modo l’esperienza milanese della “tendenza” è stata percepita in Spagna?
V. C.: Aldo Rossi fu una presenza provvidenziale per me, in particolar modo perché lo conobbi poco dopo essermi laureato e in un momento di pianificazione della mia vita. La sua figura mi trasmise innanzitutto una incredibile passione per questa disciplina, tanto che posso dire con certezza che se non lo avessi conosciuto sarei di sicuro un architetto diverso da quello che sono oggi. La presenza di Rossi è stata fondamentale soprattutto in Andalusia; dopo la sua prima visita a Siviglia nel ’73 facemmo assieme un viaggio attraverso tutta la regione; era affascinato dai grandi artefatti architettonici come l’Alhambra a Granada e la Mezquita di Cordoba e realizzò una serie di conferenze nelle città andaluse, riunioni con architetti, studenti o professionisti di costruzioni, lasciando la sua traccia indelebile nella cultura architettonica della regione. Per me è stato importantissimo perché si è formata una volontà di aderire a un modello di pensiero che poneva lo sguardo verso il passato, verso la storia – come rimarca nell’Architettura della Città – portandoci ad osservare Siviglia e a studiare la città, cosa che durante il periodo dell’università non avevamo fatto. Nello specifico, ho incominciato un’indagine più approfondita che dopo dieci anni di lavoro e di ricerca si è tradotta in una guida di architettura su Siviglia. È stata la prima guida d’architettura completa dal II al XX secolo. Questo lavoro, pur essendo stato pubblicato solo in occasione dell’Esposizione Universale del 1992, ha messo in luce l’importanza che l’insegnamento di Aldo Rossi ha avuto per la Spagna, ma soprattutto per l’Andalusia.
J.A. A.T.: Come concepisce nella pratica progettuale il tema del ‘luogo’?
V. C.: Un progetto adeguato al luogo è un progetto adeguato alla cultura, alla geografia, alla storia. La relazione fra edificio e luogo non è facile da capire, perché non è diretta, non è una relazione letterale di causa-effetto. L’architettura deve essere appropriata al luogo, cioè deve essere capace di caricarlo di senso o, detto in altra maniera, un’architettura estranea a questo luogo perderebbe la sua ragione d’essere. Un luogo dunque non è uno spazio quotato, un perimetro fisico ma una sequenza concatenata di esperienze; ogni luogo porta ad altri luoghi, altra cultura, altri orizzonti. In questo senso ritengo che i luoghi rifuggano dalla propria territorialità fisica. Ritengo che l’architettura debba guardare verso altri luoghi mantenendo i piedi ben fissi a terra, sorgere dal suolo per cercare altri orizzonti. In caso contrario l’architettura perde la capacità di re-inventarsi e rimane intrappolata nel proprio passato.
J.A. A.T.: La sua architettura si muove sempre in una dimensione di profondo dialogo e intercambio con la società e l’uomo. Ci può spiegare come si realizza questa relazione?
V. C.: L’architettura da sempre organizza e disegna gli spazi perché l’uomo viva, lavori, festeggi o semplicemente li occupi. Allo stesso tempo mi sembra però fondamentale che possa prendere contatto e relazione con le persone, avvicinarsi e concedersi ad esse utilizzando elementi come il tatto, i materiali, la tessitura, la luce e i colori come parole di un dialogo intenso. Da sempre le avanguardie artistiche e tutti i movimenti culturali cercano di dare corpo ed espressione alle tensioni che la società non ha ancora la capacità di formalizzare, arrivando a dare forma ai desideri dell’uomo. Allo stesso modo l’architettura deve saper rispondere alle esigenze e alle frustrazioni della società ma deve anche saper compiere questo passo in più. È in tal senso che intendo questa seconda e più difficile ambizione della mia professione, quella di arrivare a costruire un territorio di resistenza dal quale irradiare ed espandere un senso profondo e intenso alle attività della nostra vita. Un territorio capace di convertire la realtà nell’oggetto dell’immaginazione e nella materia dei nostri sogni.

tra innovazione e tradizione l’esempio Andalusia
text by Alessandro Tessari 

Sono passati diciassette anni dall’Expo universale del 1992, un evento cruciale che portò Siviglia, la capitale della regione spagnola dell’Andalusia, al centro dell’attenzione e del dibattito internazionale. L’evento accese definitivamente l’interesse nei confronti dell’architettura andalusa, rompendo quei vincoli di emarginazione rispetto al panorama spagnolo che da sempre la caratterizzavano. La sua posizione periferica, il carattere fortemente conservatore nei territori creativi, la scarsa cultura urbana e la mancanza di una classe borghese progressista avevano storicamente lasciato fuori dai confini regionali le grandi trasformazioni che l’architettura moderna viveva nel resto della Spagna. L’apertura della prima “Escuela de Arquitectura” di Siviglia avvenuta nel 1967 fu un importante momento di transizione culturale verso il panorama europeo ma non marcò significativamente il passo dei grandi cambiamenti che avvennero gradualmente nei decenni successivi, attraverso le iniziative autonomiste in grado di incentivarare le energie degli architetti locali. A partire dalla metà degli anni ‘70 entrano in relazione con l’università di Siviglia grandi nomi dell’architettura nazionale ed internazionale che lasceranno tracce profonde nella formazione delle nuove generazioni; tra questi ebbe un ruolo fondamentale Aldo Rossi, la cui lezione stimolerà lo sguardo verso l’architettura della città tradizionale assunta come espressione formale della storia, incentivando una più profonda sensibilità verso il fatto urbano e le sue declinazioni storiche e sociali. L’Expo arrivò come grande occasione, in parte mancata, di affermazione della maturità della nuova architettura andalusa rispetto ai due grandi poli di Madrid e Barcellona; da questa cassa di risonanza privilegiata si delinearono in modo compiuto i grandi riferimenti del panorama architettonico sivigliano e non solo, Guillermo Vazquez Consuegra e Cruz e Ortiz, architetti che per primi abbatteranno le frontiere locali esportando in tutta Europa i fermenti e la sensibilità della produzione architettonica di questa regione. Lavori come il padiglione della navigazione per l’Expo del ’92 o la stazione di Santa Justa rivelano una maturità d’espressione tale da rendere l’architettura “made in Andalusia” un modello internazionalmente riconosciuto. Sotto la forte influenza di questi maestri, pur senza la nascita di una vera e propria “scuola”, l’architettura delle nuove generazioni comincia a codificare una comune matrice di intenti basata su alcuni valori fondamentali; i grandi temi del movimento moderno vengono scomposti, reinterpretati e ricomposti attraverso i materiali, le immagini e le forme della tradizione regionale. L’atteggiamento assunto va ben oltre una banale forma di regionalismo aperto alle contaminazioni del linguaggio moderno; il rigore del progetto, la tensione verso la sua “materialità”, il realismo degli aspetti della costruzione e il paziente lavorio negli interstizi della continuità storica cominciano a caratterizzarsi come elementi identificativi di questa architettura. José Antonio Carbajal, José Morales, Juan Domingo Santos, Antonio Jiménez Torrecillas rappresentano solo alcuni degli architetti che negli anni del post-Expo continuano la linea di ricerca dell’innovazione dentro la tradizione, trovando particolare espressione nella dimensione minuta del quartiere storico o nei nuovi interventi di edilizia popolare promossi dal governo regionale. All’apporto interno degli architetti locali si aggiungono, con sempre maggior frequenza, gli interventi dei grandi progettisti prima nazionali poi internazionali, coinvolti nei grandi concorsi pubblici, che offrono una chiave interpretativa vivace delle profonde radici culturali di questa regione. Moneo progetta un aeroporto per Siviglia rifiutando l’immagine di contenitore tecnologico per ispirarsi alle grandi sequenze di spazi a cupola dell’architettura araba e romana. Campo Baeza esprime nella costruzione di piccole case private o in edifici pubblici come la sede della Caja Granada, le possibili declinazioni del tema del patio, trattando la luce come materia concreta di progetto. Herzog & de Meuron pensano per la Ciudad del Flamenco di Jerez de la Frontera un edificio ipogeo che libera alla quota zero un giardino come “ortus conclusus”; nel trattamento della pelle, la rielaborazione delle grafie e della scrittura araba porta ad un’insolita interpretazione della gelosia di facciata che informa tutto il volume della torre d’angolo e dissolve non senza ambiguità la relazione interno-esterno dei grandi muri di chiusura. Nieto e Sobejano propongono a Medina Al Zahra un centro visitatori simile ad un grande scavo archeologico dove diverse tipologie di patii alberati, fanno dello spazio vuoto l’elemento organizzatore dell’intervento; per Cordoba, a fianco della discussa proposta del centro congressi di Koolhaas nel Parque de Miraflores, i progettisti madrileni inventano inoltre un centro per le arti multimediali dove la concatenazione di grandi spazi di pianta esagonale rievoca la logica aggregativa geometrica dell’arte decorativa araba. Lo spalancamento definitivo degli ultimi anni ad una internazionalizzazione talvolta esasperata non deve distogliere l’attenzione dalla dimensione più autentica e genuina dell’architettura andalusa, che continua a trovare le sue migliori espressioni in edifici di scala dimensionata al contesto, fortemente vincolati alla società e al suo “stile di vita”, con un trattamento del dettaglio meticoloso, “ostinatamente” artigianale. L’ininterrotto e fertile dialogo con la terra, con la storia, con il clima, in una parola con la mediterraneità di questa regione del sud dell’Europa continua ad essere il valore fondante dell’architettura andalusa e l’unico cammino possibile per un suo graduale e coerente sviluppo futuro.