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In principio fu... il perno (ovvero l‘albero genealogico di tutti i meccanismi)

“Perché al Signore appartengono i cardini della terra e su di essi fa poggiare il mondo.” (1 Samuele, 2:8) Il punto di appoggio sul quale, secondo Archimede, sarebbe possibile sollevare il mondo, è noto sin dall’antichità e il suo significato va ben oltre la funzione di fulcro di una leva nota all’homo sapiens ben prima della scoperta della ruota. E anche su questo primato si potrebbe discutere. Ma sinora, pur essendo l’umanità una “specie tecnologica”, non si è ancora giunti a disegnare una tassonomia completa dei meccanismi, in analogia con quanto fatto per le specie viventi nel secolo XVIII da Carl Linné. Dalle sue ricerche ebbe inizio la rivoluzione darwiniana, ma sull’evoluzione delle macchine ancora poco si è fatto. Limitate sono le nostre conoscenze sulle “macchine semplici” a cui gli antichi riconducevano ogni oggetto tecnologico e ancora incertezze esistono sul loro numero: cinque, oppure sei? In ogni caso esse rimasero alla base di ogni “meccanica elementare” costruita secondo le stesse regole degli Elementi di Euclide. Componendo le macchine semplici (o elementari) tra di loro era possibile ideare e costruire ogni meccanismo e così fu sino al XVI secolo quando ancora Guidobaldo del Monte, il maestro di Galileo Galilei, scrisse Le Mechaniche, prima in latino (1577) e poi in italiano (1581).
La bilancia, la leva, la taglia, l’asse della ruota, il cuneo, la vite: sono le macchine a cui si riferisce Guidobaldo, ma in verità, da un certo punto di vista tutte sono riconducibili al medesimo principio per cui due forze differenti, applicate a punti differenti di un medesimo organo meccanico, si fanno equilibrio, permettendo così la moltiplicazione degli sforzi e la variazione della loro linea di applicazione.
Con Galileo Galilei la meccanica da “elementare” diventa “dinamica” e alle forze si lega indissolubilmente il moto, che esse provocano. Poi la storia procede con i grandi e la meccanica diventa “classica”. Ma i meccanismi non cambiano e nell’organizzare un sapere che dalla teoria dei Principia di Isaac Newton arriva sino alle macchine della rivoluzione industriale, dove la meccanica diventa “applicata”. In questo contesto non si può dimenticare l’opera degli ingegneri e matematici ispanici José María Lanz y Zaldívar e Augustin de Betancourt che per primi cercarono di far ordine in una scienza che si era lasciata travolgere dal progresso. Il loro Essai sur la composition des machines è fondamentale per la classificazione dei meccanismi. Il Tableau des machines élémentaires è alla base di una nuova meccanica che collega la tradizione con nuove prospettive.
Da questa prima tassonomia si arriverà alla grandiosa tavola della Composition des mouvements: è nata la cinematica.
Lunga sarebbe ora la storia che, attraverso l’intero secolo XIX, a partire da Giuseppe Antonio Borgnis, ci conduce a Robert Willis e Carlo Ignazio Giulio, e ci fa arrivare sino a Franz Reuleaux. I modelli che quest’ultimo fece realizzare dalla Casa Schröder Brüder di Darmstadt sono un’esaltazione di una meccanica che raggiunge livelli di perfezione assoluti.
E oggi, in un mondo dove le innovazioni sembrano esistere soltanto nei pixel di uno schermo, se vogliamo far muovere qualcosa dobbiamo affidarci alle vecchie e intramontabili “macchine semplici” e ai loro epigoni.

Il teatro delle cose che si aprono e si chiudono

Nella meccanica, il moto relativo tra due corpi nello spazio può essere sempre analizzato in termini di traslazione lungo i tre assi e di tre rotazioni. Il “Teatro” degli oggetti che si aprono e che si chiudono può introdursi con alcuni oggetti che già tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento anticipano i paradigmi del design. Una stufa con due ante a cerniera, una chaiselongue che diventa un letto, un cavalletto pieghevole e una scatola di cartone sono solo alcuni esempi.
Ma una rassegna delle cose che si aprono e si chiudono oggi più che mai ha bisogno di una tassonomia non solo per le tipologie di uso e di forma, ma anche in funzione del movimento di apertura e chiusura: alle “coppie prismatiche”, come si definiscono in gergo tecnico gli elementi che traslano di moto relativo come le guide di un cassetto, si affiancano nelle rotazioni le “cerniere” ma anche i giunti sferici che vincolando la posizione relativa tra due elementi ne lasciano libere le rotazioni relative, di rollio, di beccheggio e di imbardata.
Si potrebbe allora incominciare dai giocattoli e qui lo sportello che si apre diventa l’elemento centrale della scatola a sorpresa mentre gli snodi sferici permettono le più impensate metamorfosi nei transformers, che vedono per esempio un’automobile mutare in un astro-robot. E così nei mezzi aerei i giunti a cerniera semplice permettono la variazione della geometria alare nell’aereo da caccia MRCA Tornado mentre le ali possono ripiegarsi verso la fusoliera in tutti gli aeromobili che per esigenze di spazio devono alloggiare all’interno di una portaerei. Nelle autovetture il tettuccio apribile è messo in movimento da complessi cinematismi articolati che ne permettono anche il ripiegamento all’interno di opportuni comparti e nelle imbarcazioni da diporto, non solo per esigenze estetiche sempre più frequentemente segnano la loro presenza bitte retrattili sulle mure e scalette a scomparsa. Non sarebbe però terminata una breve rassegna nell’ambito della mobilità se si dimenticassero le biciclette pieghevoli come la Backpack-bike by Chang Ting Jen e persino i dissuasori a scomparsa che sempre più delimitano le zone pedonali nei nostri centri storici. Sono le sedie a stimolare l’innovazione del design proprio perché oggetti semplici al limite della banalità e la semplice funzione di seduta, schienale e gambe trovano nella rotazione lungo un unico asse orizzontale, come per esempio nella Plia di Giancarlo Piretti o nella Piana di David Chipperfield, la loro essenzialità. Mentre la coiffeuse Dilly Dally di Poltrona Frau, pur sviluppando il tema dell’aperto/chiuso sia nella seduta/tavolino che si incastrano a formare un corpo cilindrico e nello specchio a ribaltina, dimostra una struttura più barocca. Le sedie pieghevoli Com-oda di Mr. Simon e la Cocoon Chair di Seung Yong Song propongono soluzioni dove le cerniere permettono la compattazione. Senza meccanica, perché operano (apparentemente) solo nel continuo del tessuto le poltrone Sosia di Emanuele Magini e Hush di Freyja Sewell.
Diverse le soluzioni “compatte” che sfruttano la rotazione intorno a una cerniera (Kapteinbolt, Globus) o quelle che si sviluppano intorno a elementi scorrevoli (Sound, Minikitchen, Celato). Lo stesso accade per Incanto di Marco Ferreri e Scaletta bar di Luigi Caccia Dominioni che sfruttano la cerniera, rispettivamente ad asse verticale e orizzontale, mentre Rek di Reiner de Jong si gioca tutto sull’incastro di numerosi piani scorrevoli. Diversa è l’applicazione del paradigma dell’ouverture se applicato ai sistemi di illuminazione. Ancora una volta però è la cerniera a dettare legge (Pandora Book di Philippe Starck, Poket light di Hyun Jin Yoon e Eun Hak Lee, CuboLuce di Franco Bettonica e Mario Melocchi) e solo in Hanabi di Nendo la deformazione di elementi flesibili si sviluppa lungo una simmetria cilindrica.
Una attenzione particolare si dovrebbe allora dedicare aa Ave Touch, la serie di interruttori a parete che scompaiono e ricompaioni al solo “tocco” di un dito, e lo stesso principio si applica alla cappa aspitante da cucina Adagio di Elica Design Center: piccoli motori elettrici collegati a un sistema a cremagliera sono all’origine degli azionamenti di traslazione. E ancora i rubinetti Flat e 3T garantiscono la loro scomparsa integrando incastri e cerniere all’interno di ricche strutture nichelate. Si potrebbe a questo punto citare i Multi tools della Leatherman che perfezionano l’idea archetipica del coltellino dell’esercito svizzero, la famosissima Radio Cubo TS522 di Marco Zanuso e Richard Sapper nonché l’orolgio Reverso di Jaeger LeCoultre.  In tutti questi oggetti è la cerniera a svolgere la principale e semplice operazione dell’aprire e chiudere.
Se invece, per concludere, si passa alla categoria degli oggetti di abbigliamento dove è il flessibile tessuto a costituire la “macchina” dell’oggetto, allora si può arrivare all’ombrello Lotus 23 di Andy Wana dove il tutto scompare nel manico o la giacchetta impermeabile Kway ideata da Léon-Claude Duhamel, che si richiude in sé diventando una taschetta a marspio. Sempre le macchine elementari, più o meno celate all’interno di strutture portanti e/o decorative, continuano a svolgere il seducente ruolo dell’ouverture.