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intervista a Omar Calabrese

Laura Andreini - Un tempo il design e i designers sollecitati anche evidentemente dalle aziende si occupavano di oggetti che potremmo definire “inutili” o meglio dedicati allo svago e al tempo libero. Oggetti che sembrano lontani nel tempo e appartenere ad un’epoca ormai perduta. Cambia la società oppure anche la cultura del progetto ha modificato gli obiettivi della propria creatività?
Omar Calabrese - I cosiddetti “oggetti inutili” sono ciò che i francesi chiamano ’fou-rire’, una definizione che dà l’idea dello svago come passatempo privo di legami con la realtà ma tuttavia connesso a una esperienza fisica. Se infatti analizziamo per brevi tappe questo tema dobbiamo inevitabilmente partire dallo yo-yo, un oggetto antesignano, il primo che nasce da una non applicazione della fisica nel senso della forza di gravità. Lo yo-yo appartiene a una epoca primo novecentesca di espansione di consumi orientati “all’inutile” basti pensare ai futuristi che inventavano e progettavano oggetti completamente inservibili. Questo tipo di filosofia si ripete negli anni ‘60 quando il consumo si allarga a un pubblico giovanile con la nascita di giochi come l’hula hoop, lo scobidoo, il frisbee, il click clack. Oggetti privi di un contenuto immediato ma con la forte presenza dell’aspetto fisico come se il corpo fosse fortemente interessato dalla costruzione paziente, difficile, delicata, di oggetti pensati, quasi sempre, attraverso l’applicazione di principi derivati da un paradosso fisico. Altre invenzioni di questo genere si possono ricondurre al carnevale come rappresentazione di un mondo alla rovescia dove tutto è assurdo, inutile e i cui oggetti si sostanziano di controsensi interni: l’albero della cuccagna viene spalmato di olio per impedire che si arrivi a prendere i premi che vi sono appesi, provocando in questo modo il divertimento degli spettatori che ridono dell’insuccesso di chi si cimenta. Quindi il gioco, l’aspetto carnevalesco in generale, il paradosso interno, l’uso e l’impossibilità di un buon esito nell’utilizzo di certi oggetti e nelle azioni da questi sollecitate, uniti a periodi di rivoluzione industriale e di allargamento dei consumi, come avvenuto negli anni ‘60, sono stati un esempio del cambiamento del rapporto tra l’individuo e la fisicità, la libertà di azione del proprio corpo. A partire dai tardi anni ‘80 si assiste a un completo cambiamento perché l’attività di concentrazione del pensiero rispetto all’azione fisica svolta finisce con la morte del flipper. Lo sviluppo dell’elettronica, dei videogiochi, non definisce più un panorama di oggetti ma di comportamenti “inutili” privati tuttavia della destrezza fisica come caratteristica fondamentale dei giochi dei periodi precedenti. Con il passaggio dal meccanico al digitale, l’elemento fisico viene sostituito da quello percettivo e la vista si sostituisce alla fisicità. Dagli ultimi flipper, anche molto sofisticati e delicati, si passa ai nuovi videogiochi con la nascita di un programma chiamato Asteroids, oppure con il ping pong virtuale che rappresenta il momento di svolta dopo il quale i giochi diventano sempre più raffinati e trasformano il mondo dello svago in atto meramente percettivo accompagnato da una concentrazione riflessiva e sedentaria.
L.A. - Quindi l’oggetto “inutile” non esiste più?
O.C. - Non eiste più una sensorialità fisica legata al compimento di azioni e movimenti particolari. La sensorialità è diventata oggi una prerogativa fondamentalmente visiva, estremo approdo di un cammino iniziato con l’epoca moderna; come teorizzava Foucault ne “Le parole e le cose” a partire dal tardo ‘500, si assiste a una gerarchizzazione dei cinque sensi sotto quello della vista. In questa direzione l’attualità sembra aver già raggiunto la fine di questo percorso.
L.A. - Gli oggetti per il divertimento e lo svago erano per lo più il frutto di un design anonimo prodotto direttamente dall’industria. Forse il design colto e di ricerca ha sempre trascurato questo campo?
O.C. - Le produzioni popolari spesso ci presentano prodotti di design fantastici ma che non hanno un autore, ad esempio la bottiglia del latte in vetro di cui nessuno conosce il nome del progettista o del designer; il consumo pop è sostanzialmente una grande invenzione tecnica non formale, cioè la forma segue la funzione senza una idea di design estetico o di codice stilistico conseguente. Inoltre gli oggetti popolari molto spesso hanno un prezzo talmente ridotto per cui i designers non sono interessati in generale ad occuparsene. Qualche azienda ha iniziato ad interessarsi a questa tipologia di gadget domestici come ad esempio Alessi al cui museo si possono ammirare minuscoli oggetti di design ad un prezzo accessibile tuttavia altissimo rispetto ai materiali impiegati. Un design più legato al soprammobile, un genere di oggetti borderline, solitamente kitsch che cercano di imitare qualcosa di artistico però realizzato in scala ridotta e miniaturizzata, da utilizzarsi per riempire i vuoti di una casa. Quando Alessi inizia a mettere in produzione la caffettiera di Aldo Rossi siamo nell’ambito misto dell’oggetto metà soprammobile e metà utile, una sorta di contraddizione. La caffettiera di Rossi, lo spremiagrumi di Starck sono sostanziati dall’elemento del paradosso, una linea produttiva e creativa, quella di Alessi, dove i designers radicali volevano esprimere lo scherzo, l’ironia, l’esagerazione e da qui il coinvolgimento di autori come Alessandro Mendini, designers francesi, catalani e più tardi figure come Giovannoni e Venturini. In ogni caso, tornando al tema dello svago, l’avvento dell’elettronica ha traghettato il passatempo al mondo della virtualità privandolo dell’oggettistica che, al contrario, rimane soltanto per le attività sportive dove si possono trovare pattini o scarpe da tennis di design cariche di una evidente progettualità.
L.A. - Rispetto al periodo che muove dal dopoguerra a tutti gli anni Ottanta, sono diminuiti molto anche alcuni tradizionali hobby legati al collezionismo come la raccolta dei francobolli, il trenino elettrico e molte delle attività che avevano a che fare con il fai da te. Evidentemente l’elettronica ha imposto un’interruzione diretta tra il gioco e la sua costruzione.
O.C. - I collezionismi in realtà continuano ad esistere ancora oggi, sono soltanto più funzionalizzati. La raccolta di francobolli era qualcosa che imparavamo alle scuole elementari. Ricordo che la Mondadori pubblicava un raccoglitore per i francobolli che si poteva acquistare dal cartolaio; oggi il collezionismo è più specializzato ma l’associazione nazionale di filatelia conta ancora un altissimo numero di iscritti anche se l’attività è diventata di livello professionale, più legata al mercato, una tendenza tipica del mondo in cui viviamo: profitto, guadagno, investimento. Si tratta della trasformazione falsificata dello spirito del capitalismo in cui la riuscita, o meglio l’apparenza del successo che si misura in termini di denaro, diventa la caratteristica essenziale. Tutto viene a far parte di un mondo finalizzato a un esito positivo che è economico e immediato; per questo motivo sono aumentati anche i falsi. Il collezionismo moderno ormai si pratica attraverso internet dove è possibile scaricare figurine, poster cinematografici, suonerie, salvaschermo, è un pullulare di collezionismo di nuovo tipo legato all’elettronica e alla virtualità che concede uno spirito di maggiore accessibilità alle cose. Si deve pertanto riconoscere che esiste un coté di ricerca di libertà che non è del tutto da disprezzare.
L.A. - Daniel Mothé, autore del saggio “L‘utopia del tempo libero” sostiene che la contemporaneità ha eroso gli spazi e gli aspetti gratuiti per il tempo libero privatizzando o rendendo onerose attività e comportamenti un tempo gratuiti o a basso costo. In questo senario il televisore domestico, lo schermo in generale, sembra essere rimasto l’unico oggetto disponibile gratuitamente per il relax quotidiano, ma ciò ovviamente trasforma il soggetto da attivo o passivo. Così andare alla partita, a teatro, al cinema, è diventato sempre più raro e riservato a persone che possono spendere e quindi permettersi questo tipo di svago “non virtuale”. Alla gran massa della popolazione delle metropoli di oggi è il rimasto, alla fine, soltanto il divano come luogo di osservazione di scenari mutevoli a cui partecipa, senza investimento di denaro, però come semplice spettatore?
O.C. - Attualmente un’enorme quantità di tempo libero si è trasformata nel tempo dell’esibizione in cui non si compie alcuna azione se non finalizzata ad esibire semplicemente se stessi; conseguenza di questo atteggiamento è la necessità di dedicare una quantità di tempo e soldi alla preparazione del proprio corpo per mostrare e proporre la propria immagine secondo canoni prestabiliti: palestre, fitness, acquisti vari di gadget esibizionisti, l’abbigliamento. Si assiste ad una sorta di estensione del pre-tempo libero per approntare noi stessi alla socializzazione; precedentemente uscivamo per vedere gli amici e fare delle cose mentre oggi esiste il tempo libero collettivo di esibizione e quello individuale di preparazione all’esibizione. Ci applichiamo al fitness ma non con uno scopo di tipo salutista, il corpo è solo uno strumento, come si può vedere nello sport dove il doping è divenuto una pratica comune perché ciò che conta è il risultato e il corpo è un puro accessorio che si usa per riuscire. Il corpo è diventato una sorta di manichino necessario per indossare l’abito firmato, da esibire in modo oggettuale oppure da adornare direttamente con tatuaggi e piercing, pratiche che conducono inevitabilmente a una perdita di senso. Sono le conseguenze di una spinta oltre i limiti dello spirito del capitalismo e credo che stiamo assistendo ad una trasformazione che meriti qualche riflessione più acuta di quelle che stiamo compiendo attualmente.
L.A. - Tuttavia, paradossalmente, la crisi economica e l’aumento della disoccupazione dovrebbero liberare tempo e la richiesta di oggetti e luoghi di svago non costosi, dobbiamo allora augurarsi la catastrofe economica per sperare nella disponibilità di un tempo che non sia soltanto legato al lavoro?
O.C. - La liberazione del tempo libero è un concetto convergente che nasce dai più importanti teorici del capitalismo moderno e dalla parte più marxista. Il suo originale teorico fu Henry Ford che comprese come fosse necessario concedere agli operai che lavoravano nelle sue fabbriche del tempo libero affinché potessero “consumare” il mercato interno, così come Frederick Taylor al quale si deve l’invenzione della catena di montaggio che facilita e fa risparmiare un tempo che può trasformarsi, a sua volta, in possibilità di consumo al fine di chiudere il ciclo produttivo dell’economia. Da sinistra la liberazione del tempo libero corrisponde a quella dell’uomo che può così pensare a se stesso e alla collettività in funzione sociale, quindi le teorie del capitalismo e dell’anti-capitalismo finiscono per convergere su questo tema già dagli anni ‘20. Se osserviamo ciò che accade nel mondo attraverso una visione totalmente legata alle logiche del capitalismo ci accorgiamo di aver raggiunto la fine di un ciclo perché dare al lavoratore tempo libero senza un adeguato corrispettivo economico provoca il blocco del mercato interno con l’immediato arresto di tutto il sistema. L’aspetto apocalittico di questa situazione coinvolge tutti i punti di vista ideologici e meraviglia come coloro che dovrebbero essere i difensori del sistema capitalistico vigente, incentrato sulla democrazia, non intervengano, quasi ci fosse un impulso terribile all’autoconsumo della società, un’autodistruzione paradossale. Può darsi che per i designers possa essere anche l’occasione di una svolta per il ritorno a un design povero; è una vecchia storia già teorizzata negli anni ‘70 da Enzo Mari, una frontiera che potrebbe anche essere reale, effettiva. Esistono società in Italia, all’estero sono ancora più diffuse, dedicate alla raccolta di materiali da riutilizzare: vetro, ferro, acciaio. Anziché andare a ricomprare quei materiali come fanno le industrie grezze per la rimanifatturizzazione bisognerebbe riuscire a produrre qualcosa di alternativo attraverso un riuso diretto come del resto fanno gli artisti. Una delle tendenze più in voga attualmente è la recycling art che in realtà risale ad autori come Arman, César, una pratica diffusissima nel mondo dell’arte che potrebbe rappresentare una interessante prospettiva anche nel campo del design. L’eccesso di consumo ha provocato un colossale aumento del parco degli oggetti dal quale è scaturito un elemento economico visibile a tutti: il costo della loro eliminazione; la riduzione del parco degli oggetti è forse un tema che i designers dovrebbero affrontare. Un tema utopico che preesisteva ma su cui oggi potremmo lavorare. La sofisticatissima tecnologia moderna è completamente nascosta e molto spesso se un oggetto si rompe è impossibile ripararlo.

Frame of a film, Italy 1970-1980, photo by Team/Alinari.

Non c’è più spazio per Archimede Pitagorico ma solo per Paperino: tocchiamo le cose le rompiamo e le buttiamo. Anche la durata degli oggetti è radicalmente mutata. Il primo televisore comprato da mio padre nell’anno fatidico 1954 è durato fino al 1972 quando, arrivato il colore, venne sostituito. Nei periodi successivi i televisori hanno avuto una vita media di 5 anni ed è proprio per questo motivo che quasi tutti i paesi sono costretti a seguire le leggi sulla riconsegna dell’usato, norme che rappresentano solo un timidissimo inizio, perché il problema dello smaltimento dei rifiuti è diventato un peso per il costo sociale e contemporaneamente una pratica mafiosa importante perché, come si sa, il tema coivolge le discariche, gli incarichi, gli appalti…Credo inoltre sia estremamente evidente oggi un sentimento di inutilità di se stessi, una grande frustrazione di massa, perché si sta affermando il meccanismo della riuscita priva di merito, un esito che inverte i principi alla base del capitalismo. In questo spirito del successo senza merito la frustrazione aumenta perché tutto risulta legato solo alla fortuna evitando il problema di dover costruire il proprio avvenire sulle capacità come direbbe Max Weber. Questa idea della frustrazione di massa scatena molteplici pericoli sociali tanto che anche la politica sembra trasformarsi, per i componenti di ogni schieramento, in una vendetta. Sarkozy ha accusato di tutti i mali del mondo il ’68, ormai passato da 40 anni, tanto quanto la sua generazione è lontana dai trascorsi della II guerra mondiale. Tuttavia ritroviamo le stesse parole in Berlusconi, in Karamanlis, in Bush per quanto riguarda la destra, ma ugualmente avviene a sinistra se ascoltiamo i discorsi di Zapatero, Brown…L’idea di vendetta come riscatto da un sentimento di inutilità di noi stessi ha delle conseguenze sociali generali e conseguenze sociali specifiche nell’ambito della politica perché in ogni paese si va alle elezioni con una aggressività da guerra civile. La frustrazione di massa è causata proprio dalla presa di coscienza che siamo noi l’oggetto inutile e questa credo sia l’insensatezza del mondo contemporaneo.