area 128 | informal community

“La città non è pronta per le persone, così come queste non sono pronte per la città”
– Famiglia Perez; Caracas, Venezuela

Negli ultimi due anni siamo diventati esploratori del pianeta urbano, escursionisti di città, impegnati a registrare qualsiasi sfaccettatura della vita di strada, studiandone ogni aspetto, sia questo legato al momento o senza tempo. Quanto esposto nel presente saggio è frutto di diverse sessioni collettive di brainstorming, tenutesi nel corso delle nostre esplorazioni per le vie dell’Asia, alla ricerca delle condizioni idonee e delle idee migliori per la riqualificazione delle baraccopoli nel sud de mondo. Il nostro sguardo critico si rivolge verso l’equatore, verso quella linea di demarcazione politica tra nord e sud, e verso l’orizzonte, frontiera delle possibilità, che tende a spostarsi continuamente nel corso del nostro peregrinaggio intorno al mondo. È proprio questo specifico punto di vista sul panorama urbano che chiamiamo “Gran Horizonte.”

L’Asia informale
Il lavoro portato avanti dall’Urban-Think Tank, con la loro cattedra presso l’istituto ETH di Zurigo, comprende progetti incentrati sulla profonda trasformazione strutturale vissuta da molteplici città asiatiche. Negli ultimi dieci anni abbiamo assistito ad una crescente integrazione tra i diversi paesi asiatici, confluiti in un mercato globale caratterizzato da un libero flusso di merci, servizi, investimenti, persone e conoscenze, da scambi che avvengono indipendentemente dalla distanza o dalle differenze linguistiche che separano gli individui. Per poter, a questo punto, procedere nella nostra dissertazione sulla città asiatica contemporanea, è necessario stabilire quale siano le basi su cui poggiano le nostre osservazioni. Il titolo di questo capitolo del saggio, “Asia informale”, dimostra la nostra intenzione di volerci rifare e, nel contempo, voler rifiutare la definizione standard di città. Le città dell’Asia su cui ci concentriamo infatti, non sono nate seguendo logiche convenzionali; significa dunque che sono sorte in modo disordinato? Che mancano pertanto di forma?
Se si osservano Bangkok, Jakarta, Shanghai o Chengdu da lontano, prendendo in considerazione un’immagine aerea ad esempio, si noteranno forme disordinate, che ricordano le ramificazioni rizomatiche; vana sarà la ricerca di un qualche principio ordinatore, di un inizio e di una fine ben delineati, difficile sarà altresì individuare e isolare i singoli elementi che costituiscono l’insieme. È chiaro che lo sviluppo rizomatico di queste città è, in realtà, l’archetipo delle metropoli asiatiche, una degna rappresentazione grafica della nuova tendenza alla confluenza a livello fisico, spaziale, sociale, psicologico ed economico. Dall’altro lato, tale sviluppo richiede che vengano contemplate ed elaborate nuove categorie in ambito urbanistico, finora non riconosciute; il pensiero binario viene pertanto messo in discussione, la categorizzazione convenzionale che contrappone formale e informale, pericolo e sicurezza, originale e moderno, povertà e ricchezza, così radicata nel concetto contemporaneo stesso di urbanizzazione, è semplicemente inadeguata per poter essere applicata alle nuove forme urbane emergenti.
Il tipo di città che intendiamo progettare non esiste ancora; nessuno sa che aspetto avrà la città del ventunesimo secolo. Riteniamo tuttavia che lo sviluppo urbanistico dell’Asia diventerà un modello per l’evoluzione della città del ventunesimo secolo e che le città asiatiche ci forniscano un’opportunità eccellente di studiare le forme emergenti di urbanizzazione, oggetto del presente saggio. Chengdu, di cui ci occuperemo nella seconda parte del presente scritto, è un ottimo esempio della città asiatica del ventunesimo secolo.
Le caratteristiche principali di Chengdu sono infatti comuni a qualsiasi città cinese, tale centro urbano rappresenta perfettamente il contatto, talvolta lo scontro, tra il mondo “sviluppato” e quello “in via di sviluppo”. Chengdu ci spinge a mettere in discussione il modello di vita urbana e di sviluppo del ventesimo secolo, offrendoci, nel contempo, un approccio e soluzioni alternative alla complessità delle tematiche urbanistiche. Vi è la tendenza a pensare il mondo come un’unica città in rapida crescita, con 7 miliardi di abitanti. Secondo quanto riportato da UN-Habitat, Programma delle Nazioni Unite per gli insediamenti urbani, nella sua relazione intitolata “Lo stato delle città del mondo 2010/11”, l’urbanizzazione a livello mondiale ha raggiunto quota 50% nel 2010 e si stima che arriverà a quota 70% entro il 2050. Quello che abbiamo di fronte è dunque una complessa megalopoli, con confini che si sovrappongono tra loro; siamo pertanto consapevoli che lo scopo della nostra ricerca deve essere quello di rendere tale area, ad alta densità urbana, un luogo sostenibile, produttivo, giusto e inclusivo in cui vivere. In quanto architetti, è nostro compito migliorare la qualità della vita di tutte le persone che si trovano a vivere in insediamenti urbani al di sotto della norma, in tutto il mondo.
Nel momento in cui la città si espande e va verso una crescente complessità, cominciano ad evidenziarsi malfunzionamenti a livello amministrativo e di pianificazione.
Si finisce pertanto con l’ottenere una città che non è frutto di decisioni ponderate, una “città informale” appunto, non intenzionale, in divenire, il cui sviluppo è alimentato dalle necessità umane, dalle attività, dalle aspirazioni della gente, una città racchiusa nei suoi continui mutamenti e insicurezze; la città ibrida non segue alcun modello prefissato, non si rifà ad alcun modello di tipo comune.
Mentre la popolazione dell’emisfero nord tende a ridursi, si assiste ad una crescita esponenziale della popolazione nei paesi “sottosviluppati”, in particolare in quelle aree che l’agenzia delle Nazioni Unite UN-Habitat definisce “slum”, termine coniato per definire gli squallidi quartieri operai, nati nella Londra di inizio diciannovesimo secolo. Attualmente, diversi sono i termini utilizzati per identificare gli “insediamenti urbani poveri, costituiti da abitazioni costruite autonomamente”, nella definizione di Gwendolyn Wright, termini che variano a seconda della regione: in Turchia sono “Geçekondu, in Medio Oriente si definiscono “Compounds, “Favelas” o “Invasões” sono i termini usati in Brasile, a Caracas si definiscono “Barrios”, nei paesi francofoni si parla di “Bidonvilles”, “Werften” in Namibia, “Tondos” nelle Filippine, “Kampung” a Jakarta. La lista potrebbe continuare ed è abbastanza impressionante, i diversi termini utilizzati assimilano tali aree urbane a veri e propri paesi indipendenti per una ragione: un settimo della popolazione mondiale vive in uno slum, mercato dal potenziale immenso per ogni economista.
Gli abitanti delle baraccopoli, un miliardo in tutto il mondo, sono una popolazione pari a quella della Cina. Secondo UN-Habitat, nel 2010, viveva in uno slum il 23,5% degli abitanti dell’America latina e dei Caraibi, il 31% della popolazione urbana del sud-est asiatico. Le baraccopoli di metropoli come Jakarta, Mumbai, San Paolo, Città del Messico, Lagos e Shangai determineranno, in futuro, la domanda di energia e infrastrutture, a livello globale.
Pari importanza è ricoperta dalle cosiddette città secondarie. La maggior parte di queste registra una popolazione tra i 500.000 e i 3 milioni di abitanti, eppure non se ne conosce spesso l’esistenza al di fuori dei confini nazionali o regionali. Le città secondarie del sud del mondo vivranno uno sviluppo massiccio nei prossimi decenni, sviluppo paragonabile alla crescita registrata in Europa e Nord America uno o due secoli fa.
E mentre la popolazione e le città crescono, anche tutto il resto va aumentando: benessere e creatività ma anche traffico, criminalità, malattie e inquinamento.
I processi che portano alla costituzione di una città, siano questi di tipo formale o informale, si influenzano a vicenda e rappresentano in ogni caso una realtà urbana valida. Vi sono dunque alcuni quesiti fondamentali che dobbiamo porci, benché mettano in discussione i nostri preconcetti: come può l’infrastruttura high-tech presente nel nord e in Europa migliorare le condizioni di vita nei contesti informali del sud del mondo? Come può la competenza acquisita nell’ultimo decennio in ambito comunicativo migliorare le condizioni di vita nel nord? Come possiamo interpretare le diverse percezioni della realtà nei due emisferi, in modo da tradurre i dati raccolti in pratiche edilizie proficue e in conoscenze trasferibili?
Come possiamo noi, in qualità di architetti, passare da una progettazione guidata dalla forma a una basata sul processo?

Dis-imparare da Las Vegas
Il 1972 è l’anno di pubblicazione di un testo determinante: “Imparare da Las Vegas, Il simbolismo dimenticato della forma architettonica” di Denise Scott Brown, Robert Venturi e Steven Izenour.
Uno dei punti pregnanti proposti in tale testo si trova proprio nel primo capitolo, enunciato in modo chiaro e preciso: “Imparare dal paesaggio esistente è, per un architetto, un modo di essere rivoluzionario. Non nel modo più ovvio, ovvero demolendo Parigi e ricominciando daccapo, come suggeriva Le Corbusier negli anni Venti, ma in un modo diverso, più tollerante; ovvero domandandosi come guardiamo le cose”. In particolare, Brown, Venturi e Izenour prendono in esame la Las Vegas Strip, che considerano “l’esempio per eccellenza”, e lanciano una sfida agli architetti, i quali non sono abituati “all’osservazione ‘a-valutativa’ dell’ambiente” e che “hanno preferito cambiare l’ambiente esistente piuttosto che valorizzare quello che vi era già”.
Scritto in un momento in cui dominava una visione moderna, minimalista, fedele allo schema forma-segue-funzione, Imparare da Las Vegas spinge la comunità degli architetti a incorporare la città esistente nei loro progetti per il nuovo. Nel nostro peregrinaggio per le vie di Chengdu, a trent’anni dalla pubblicazione di Imparare da Las Vegas, ci siamo imbattuti in un viale lungo 20km, che conduce alla Mao Plaza e che può facilmente essere assimilato al detestabile archetipo di Las Vegas. Mentre ci muovevamo tra luci intermittenti e insegne luminose poste su ogni edificio, siamo stati portati a pensare alle parole di Brown, Venturi e Izenour, cercando in queste una guida produttiva nel labirinto della meditazione caotica. Imparare da Las Vegas esorta a sospendere il giudizio, ma questo non può tuttavia rimanere sospeso all’infinito. L’architettura simbolica è insita nella cultura cinese, ci siamo detti, ma in questo contesto la vediamo portata all’estremo. Abbiamo continuato a studiare in profondità la città asiatica e siamo giunti a tale conclusione: il ricorso al modello Las Vegas deve essere ridotto al minimo.
Lasciati alle spalle le Olimpiadi di Pechino e l’Expo di Shangai 2010, l’attenzione in Cina si sposta ora sul tentativo di salvare ciò che rimane della città vecchia. Mentre la “sofferenza” dell’economia mondiale fa sentire i propri effetti, in tutto il paese continuano a spuntare centri commerciali, grattacieli ad uso commerciale, giganteschi condomini destinati alla popolazione urbana più povera. La Cina permette ancora di vivere una moltitudine di esperienze diverse, deve tuttavia lavorare per preservare tale ricchezza. Si stima che nei prossimi dieci anni, trecento milioni di persone si sposteranno verso la città, la Cina dovrà pertanto ripensare alle proprie politiche abitative di Social Housing. Invece di appropriarsi di modelli tutt’altro che perfetti appartenenti alle pratiche urbanistiche occidentali, perché dunque non ispirarsi al ricco patrimonio cinese, in ambito architettonico e urbanistico? La Cina deve salvaguardare i propri villaggi urbani, proteggere il patrimonio degli hutong, lasciare la macchina a favore del tram, continuare ad usare la bicicletta e rianimare la cultura di strada. L’urbanizzazione e lo sviluppo vengono misurati con parametri viziati, a livello globale ci si concentra infatti troppo sulla crescita della ricchezza
e sull’altezza degli edifici, specialmente in Asia.
Lo sviluppo dovrebbe invece essere calcolato anche sulla base della felicità individuale, della stabilità a livello della comunità, della vivacità della vita di strada e tenendo conto della riuscita integrazione dei servizi sociali. L’Asia ci offre un grande potenziale a livello urbanistico, c’è spazio per progetti su larga scala, l’approccio a questi dovrebbe tuttavia essere guidato da nuove idee e strategie. Alcune delle ricerche e dei progetti illustrati nel presente saggio cercano di presentare i nuovi strumenti, a livello concettuale e pratico, necessari alla progettazione delle città emergenti del ventunesimo secolo.

Alfredo Brillembourg was born in New York in 1961. In 1993 he founded Urban-Think Tank (U-TT) in Caracas, Venezuela. Since 1994 he has been a member of the Venezuelan Architects and Engineers Association and has been a guest professor at the University José Maria Vargas, the University Simon Bolívar and the Central University of Venezuela. Starting in 2007, Brillembourg has been a guest professor at the Graduate School of Architecture and Planning, Columbia University, where he co-founded the Sustainable Living Urban Model Laboratory (S.L.U.M. Lab) with Hubert Klumpner. He has over 20 years of experience practicing architecture and urban design. Additionally, he has lectured on architecture at conferences around the world such as GSD in Boston, AEDES in Berlin, UCV in Caracas, UMSA in Miami, Berlage in Rotterdam, FAU in Sao Paulo, and UCLA in Los Angeles. Since May 2010, Brillembourg has held the chair for Architecture and Urban Design at the Swiss Institute of Technology (Eidgenössische Technische Hochschule, ETH) Zürich in Switzerland.

Hubert Klumpner was born in Salzburg, Austria in 1965. In 1998 Klumpner joined Alfredo Brillembourg as Director of Urban-Think Tank (U‑TT) in Caracas. Starting in 2007, Klumpner has been a guest professor at the Graduate School of Architecture and Planning, Columbia University, where he co-founded the Sustainable Living Urban Model Laboratory (S.L.U.M. Lab). Additionally, he has lectured on architecture at conferences around the world such as GSD in Boston, AEDES in Berlin, UCV in Caracas, UMSA in Miami, Berlage in Rotterdam, FAU in Sao Paulo, and UCLA in Los Angeles. Since May 2010, Klumpner has held the chair for Architecture and Urban Design at the Swiss Institute of Technology (Eidgenössische Technische Hochschule, ETH) in Zürich, Switzerland.