area 125 | cino zucchi cza

location: Milan - New York

year: 2012

View of Cino Zucchi Architetti office  in Milan - photo by Pietro Savorelli

Dopo la conversazione a tre – Casamonti, Tamburelli, Zucchi – Area propone e assiste ad un dialogo via Skype, tra Cino Zucchi e Steven Holl nel tentativo di valutare l‘opera ed il lavoro di Cino Zucchi attraverso osservazioni derivate da uno scarto generazionale, quindi nel tempo,
e geografico, dall‘altra parte dell'Atlantico, pertanto muovendosi nello spazio. Le condizioni oggettive di questo secondo dialogo hanno suggerito e imposto la formula della conversazione a due (si tratta in fondo di una videocall) di cui proponiamo alcuni stralci salienti. Scorrendola apparirà evidente al lettore che si tratta di un dialogo trasformato in un‘intervista tra allievo e maestro poiché è Cino Zucchi che interroga Steven Holl e non viceversa come sarebbe stato logico attendersi trattandosi di un numero monografico su Cino Zucchi, tuttavia la risposta a questa inversione di rotta la si ritrova con chiarezza nella penultima domanda. M.C.
Cino Zucchi: Ciao Steven, mi fa piacere vederti, anche se l’immagine è sgranata. Da dove partiamo? Vuoi che rompa il ghiaccio della conversazione con un argomento ponderoso e difficili vocaboli in latino?
Steven Holl: Perché non incominciamo ricordando il nostro primo incontro? Credo che fosse all’incirca il 1986 per il progetto di Porta Vittoria alla Triennale.
Cino Zucchi: Si! Stavo aiutando Pierluigi Nicolin con la sezione di Milano per l’esposizione alla Triennale; naturalmente conoscevo il tuo lavoro già da tempo. Ricordo che quando abbiamo aperto il pacco e abbiamo visto i plastici della tua proposta per Porta Vittoria siamo rimasti stupefatti dalla loro bellezza e intensità. Abbiamo intuito immediatamente che il tuo progetto stava cambiando la nostra percezione del tema, rivelandoci un approccio nuovo.
Steven Holl: Ricordo che mi hai chiamato al telefono nel mio ufficio di New York; avevamo lavorato duramente a quel progetto, avevamo deciso di usarlo come un manifesto per modificare la nostra posizione sull’urbanistica. In quel momento era in auge una specie di “grande narrazione”, l’idea che si potessero creare città solo attraverso la tipologia e la morfologia dominava completamente la discussione. Avevamo provato a fare un progetto privo di questi due ingredienti, senza partire da tipologie specifiche e da morfologie studiate in pianta. Stavamo sperimentando questa nostra tesi e questo ci rendeva nervosi perché la stavamo esibendo in Italia accanto a tante altre cose belle. Avevamo costrutito dei plastici molto materici in ottone, rame, gesso e acciaio.
Per cui, quando hai aperto il pacco e mi hai chiamato in ufficio per dire “Sapevo che eri bravo ma non pensavo che fossi così bravo” ero contentissimo.
Cino Zucchi: Lo sai che nella mia lezione sul tema di un approccio percettivo al progetto uso ancora un tuo disegno che mostra un processo che va “dalla prospettiva alla pianta e non viceversa”?
Steven Holl: Credo che sia un approccio molto importante che abbiamo in comune. L’esperienza dello spazio nella città è ciò che dovremmo sforzarci di ottenere. Non la ottieni né disegnando una pianta né estrudendola o creando prospettive; devi procedere in senso opposto, delineando lo spazio e dando forma ai vuoti. Quando hai detto che “si comincia dai vuoti” ho abbracciato completamente la tua causa. È esattamente quello che penso che dovremmo fare, dobbiamo cominciare dagli spazi comuni, ed è davvero difficile farlo perché ci troviamo di fronte a molte imposizioni del committente, spesso dettate da ragioni puramente economiche; io cerco sempre di iniziare dai vuoti come fai tu in molti dei tuoi progetti.
Cino Zucchi: Non sei soltanto un architetto molto bravo, ma ti occupi anche di riflettere su questi argomenti da un punto di vista più astratto.
Ho qui sulla mia scrivania tre dei tuoi libri: Questions of Perception (Questioni di percezione), Anchoring (Ancoraggio) e Urbanisms (Urbanesimi); accade spesso che i tuoi progetti siano così paradigmatici da essere dei modelli metodologici che vanno al di là dell’occasione specifica, come nel caso del concorso per il Palazzo del Cinema al Lido di Venezia, che in qualche modo ne rappresenta il vincitore morale. Steven Holl: Grazie, anche a me piaceva molto quel progetto. Non ho ottenuto nemmeno una menzione e ricordo di aver fatto quei disegni con la matita nera, cosa che mi è costata centinaia di ore di lavoro, ho dovuto lavorare due notti di fila ed è per questo motivo che mi sono detto “mai più disegni così, mi uccideranno”.
Cino Zucchi: Durante una cena a casa mia, mentre Antonio Monestiroli ripensava alla tua educazione o cultura “europea”, ricordo di averti sentito dire: «Stavo viaggiando in treno lungo una galleria tra gli USA e il Canada, penso di essere entrato in galleria con una mentalità ‘tipologica’ e di esserne uscito con una ‘fenomenologica’.
Steven Holl: Esattamente!
Cino Zucchi: Questo è un punto cruciale che volevo sollevare, quello di un possibile dilemma tra due atteggiamenti: un primo che potremmo chiamare “diretto”, volto all’osservazione del luogo, alla percezione dello spazio, al problema nella sua nudità; e un secondo che è consapevole non solo del problema, ma anche della famiglia di soluzioni stratificate dalle culture materiali e formali; si potrebbe dire la differenza tra l’atto di osservare e misurare una mucca e quello di osservare e misurare le stalle esistenti. In Art and Illusion Ernst Gombrich ha dimostrato che quando osserviamo il cielo e cerchiamo di disegnare una nuvola, anche la nostra rappresentazione più “innocente” non è mai immune dal peso delle convenzioni formali precedenti. Possiamo rintracciare questi due atteggiamenti in singoli autori, come una maniera personale di fare cose oppure come sensazioni collettive. Una fase culturale eccessivamente “manierista” e molto ricercata (il post-modern e gli studi tipologici potrebbero esserne degli esempi) viene spesso succeduta da un’altra fase che privilegia l’osservazione diretta e la spontaneità, come in pittura l’impressionismo “en plein air” è venuto dopo la pittura accademica negli studi. Non senti forse che oggi siamo andati un po’ troppo in là con l’idea di “immediatezza” e che dovremmo forse tornare un po’ indietro riconoscendo il valore dell’esperienza? Non sto parlando di storia dell’architettura, ma più che altro dell’idea che l’architettura come pratica sociale esige convenzioni o abitudini; uso la parola “abitudini” nel senso con cui il nostro sistema biologico organizza in noi una sequenza di comportamenti che una volta acquisita diventa inconscia – come camminare, leggere o andare in bicicletta – e “risparmia tempo”, divenendo una specie di scorciatoia per il conseguimento dei nostri obiettivi. Questo, talvolta, ha anche a che fare con la semantica: un rapporto completamente soggettivo tra forma e contenuto, rischia il malinteso – non possiamo restare vicino al nostro progetto come un “dizionario parlante” – e un certo grado e numero di convenzioni comuni è inevitabile in qualsiasi comunicazione. Infine, c’è un problema didattico che interessa i metodi di insegnamento, se stimolare negli studenti l’approccio diretto o quello “studioso”. Non credo che questi due metodi siano necessariamente in contraddizione tra di loro, ma qual è la tua opinione al riguardo?
Steven Holl: Insegno ancora alla Columbia University, ho allestito il mio studio come una specie di laboratorio sperimentale perché penso che gli studenti avranno esperienze pratiche a sufficienza quando andranno in giro per il mondo. Stiamo facendo uno studio che si chiama “Architectonics of Music”: dobbiamo creare qualcosa di immateriale come uno spazio che implode e che è composto seguendo l’andamento di un particolare brano musicale, come un pezzo di Ligeti, Morgan Fieldman o John Cage. Gli studenti devono esercitarsi con una specie di masterplan e poi devono disegnare un piccolo edificio - una scuola di musica con degli studios - trovando il modo di allacciarsi alla loro ispirazione originaria in base a un brano musicale. Per cui, davvero, tutto lo studio è una specie di laboratorio sperimentale dal quale scaturiscono cose molto strane. È un bell’esercizio perché in questo modo non dipendono solo dal computer, che consente di disegnare grandi forme restando completamente indifferenti al contesto o alle proporzioni umane. La cosa che chiedo ai miei studenti è quella di iniziare dalla costruzione dei plastici, poi possono proseguire usando qualsiasi tecnica digitale ritengano opportuno usare. Sono soddisfatto, perché penso che stiano emergendo dei lavori molto originali dal mio studio.
Cino Zucchi: Mentre stavi parlando mi è venuta in mente una buffa coincidenza: tu hai avuto una precoce educazione artistica italiana e poi sei tornato negli Stati Uniti, mentre io ho fatto il percorso contrario. Steven Holl: È vero, a Roma nel 1970.
Cino Zucchi: Penso di aver acquisito un atteggiamento sperimentale durante la mia esperienza al MIT e di avere successivamente riscoperto la cultura accademica italiana, mentre ho l’impressione che tu ti sia progressivamente liberato dell’approccio “deduttivo” e analitico che pervadeva l’architettura europea di quegli anni che in qualche modo traspare ancora nella tua emblematica proposta per il concorso di Les Halles. C’è una citazione di Voltaire che mi piace: “Ho studiato tutti i Padri della Chiesa, ma me la pagheranno!”. Convengo anch’io sul fatto che nell’insegnamento e nel progetto l’approccio diretto sia il migliore, ma a volte penso che ci sia ancora bisogno di un certo tipo di geografia culturale per non doversi comportare sempre come dei “principianti”.
Per costruire lo spazio urbano occorre un certo livello di ordinarietà; una mera collezione di centinaia di progetti “soggettivi”, ognuno basato su un libretto o un’idea propria, non dà origine a una città. In un certo senso, non credo che potremmo immaginare una città “decostruttivista”.
Avverti questo problema di mettere in relazione l’esperienza individuale con quella collettiva? La generazione più giovane di architetti italiani sta peraltro riscoprendo il pensiero di Aldo Rossi e Giorgio Grassi proprio in riferimento al problema della creazione di un’esperienza comune importante.
Steven Holl: Sono solito trattare tale questione in modo autonomo da progetto a progetto. Ogni progetto rappresenta una circostanza che per diventare parte di una cultura, di un luogo fisico e delle sue condizioni, richiede una risposta specifica. A Chengdu stiamo completando un intervento di circa trentamila metri quadrati (tre milioni di piedi quadrati) composto da un programma funzionale che include uffici, hotel e appartamenti; ma ho deciso che l’intero complesso doveva essere formato da un reticolo neutrale che ne rappresentava la struttura, costituendo una specie di composizione di fondo. Alcuni punti avevano bisogno di essere enfatizzati, ed è per questo che ho invitato persone come Lebbeus Woods a fare un padiglione. Penso che sia un progetto dove è il tessuto a plasmare lo spazio insieme ad alcuni punti strategici dotati di linguaggi differenti.
Amo molti dei primi progetti di Giorgio Grassi, ma dissento completamente dalla sua affermazione sull’“Architettura lingua morta”: non ritengo affatto che sia una lingua morta. In realtà, tutti i contesti ci offrono la possibilità di parole nuove in rapporto alla circostanza; proprio come è accaduto quando stavo lavorando in Norvegia a nord del circolo polare Artico per fare quel piccolo padiglione in legno nero come le chiese medievali a doghe; è un linguaggio che proviene dalla natura del progetto e dal contesto stesso. Lo stesso vale anche per un nuovo progetto che stiamo avviando alla Columbia University situato nelle vicinanze di un ponte: il linguaggio dell’edificio è formato da condutture, travi in acciaio e bulloni, un linguaggio che rimanda all’infrastruttura, la metropolitana che avanza in direzione dell’edificio. L’architettura non è una lingua morta, ritengo che sia un nostro dovere mantenerla in vita in ogni circostanza, ogni volta in un modo diverso.
Cino Zucchi: Molte città storiche sono strutturate secondo una specie di accompagnamento di sottofondo come una linea continua di bassi formata da case, tra le quali, all’improvviso, svetta una chiesa barocca come un’architettura che crea il senso del luogo.
Steven Holl: Il tessuto della città dev’essere costruito con neutralità, di modo che alcune cose vengano enfatizzate e altre no. È come un brano di musica: il silenzio conferisce ordine alle note e talvolta più silenzio c’è, meglio è. Il nostro grande maestro Alvaro Siza conosce molto bene questa lezione, lui è maestro nel dare forma allo spazio silenzioso, che aggiunge vigore allo spazio figurativo.
Cino Zucchi: Penso sia molto interessante il fatto che, da una parte, sei molto istruito, e che dall’altra ti sei scrollato di dosso il peso dell’erudizione, e hai sempre un atteggiamento fresco. In Italia c’è un proverbio che dice: “Impara l’arte e mettila da parte”.
Steven Holl: Esatto, è proprio quello che dico ai miei studenti!
Cino Zucchi: Penso che la tua spontaneità, il tuo atteggiamento “diretto” sia quello di una persona molto colta.
Steven Holl: È curioso che tu dica proprio questo. È anche il modo in cui mi avvicino a ogni progetto: cerco di capire quanto più posso della cultura, del luogo, delle circostanze, del programma funzionale e poi metto tutto da parte, mi scordo di tutto, mi sveglio la mattina e creo schemi intuitivi.
Cino Zucchi: Leggo dal tuo libro Anchoring: “il rapporto della scrittura con l’architettura consente solo a uno specchio incerto di reggere il confronto; semmai è in un silenzio senza parole dove abbiamo la migliore opportunità di imbatterci in quella zona costituita da spazio, luce e materia che è l’architettura”. Hai scritto molte cose e hai anche un pensiero teorico molto profondo. Gli anni ’70 hanno generato un bel po’ di teorie esplicite. Ma mi sono sempre chiesto se la parola “teoria dell’architettura” potesse essere modificata in “poetica dell’architettura” senza averne paura.
Steven Holl: Sono pienamente d’accordo con quello che dici.
Cino Zucchi: Ma tu credi che l’architettura abbia tutte le caratteristiche di un’arte? Adolf Loos non lo pensava. Se cosi fosse sarebbe molto “pesante”.
Steven Holl: Non sono d’accordo. Sulla rivista Art Forum di questo mese, intervengo nel dibattito tra un bel po’ di persone sul tema arte e architettura. Nella frase di apertura dico “non c’è differenza; l’architettura è un’arte, punto” e ne sono convinto. Quando sei un artista sai anche quando devi essere neutrale, quando ci vuole uno sfondo. Ritengo che quest’affermazione racchiuda interpretazioni possibili anche per creare grandi strutture urbane; tu parli di tessuto di fondo e di spazio vuoto, non tutto deve per forza essere una specie di figura mostruosa, sono d’accordo; ma credo anche che l’architettura sia un’arte e, oggi, più di sempre, intravedo la possibilità di collaborazioni molto interessanti. Ho collaborato con persone come Walter Di Maria, Dan Graham, Terry Donovan.
Cino Zucchi: L’architettura è oppure può essere un’arte, ma deve anche proteggere gli esseri umani. La questione del “rifugio” è ancora presente, non si può andare contro la questione della ricerca di un riparo. In particolare l’architettura domestica possiede un delicato aspetto “consolatorio” di cui non dovremmo dimenticarci.
Steven Holl: Ho appena terminato una casa nella Corea del Sud e penso che sia un esempio di ciò di cui stai parlando. Ho scritto un piccolo pezzo al riguardo e ho detto che è una specie di mini Utopia, è una casa che si affaccia sull’interno, in un quartiere densamente popolato. Tutto il progetto si affaccia internamente su una distesa d’acqua e i tre padiglioni sono tutti alti uguali, collegati nella parte inferiore. C’è una composizione del 1967 del musicista ungherese Istvan Anhalt che si chiama “Sinfonia dei Moduli”. È un pezzo che non era mai stato suonato, lo abbiamo tradotto in spazio in un modo astratto. La vedova del compositore ci ha scritto una lettera in cui diceva “Oh mio Dio, sono così felice che la composizione di mio marito sia stata tradotta in un pezzo di architettura”.
Cino Zucchi: Lavorare in tali contesti ci obbliga a rivedere le nostre nozioni di urbanità e di qualità in generale. Stai lavorando in Cina adesso, dove il controllo del dettaglio, probabilmente, è molto diverso. Proviamo tutti a riadattarci al contesto per capire il modo in cui la nostra esperienza è collegata agli strumenti del nostro lavoro. Vivi la condizione della città orientale contemporanea come un luogo in cui possano essere impiegati i codici urbani appresi a scuola? Rafael Moneo parlava della “solitudine degli edifici”, poiché la città non li accoglie più. Pensi che questa costituisca una nuova condizione di libertà o ti crea dei problemi?
Inoltre disponiamo oggi di tanta libertà tecnologica; ogni forma può essere realizzata dalla tecnologia quasi senza alcuno sforzo. Abbiamo un livello di libertà che è superiore a quella di un artigiano della metà degli anni ’80. Usiamo questa libertà, ma è forse questo che rende gli edifici soli. Ti senti solo qualche volta?
Steven Holl: Spesso alcune delle opere migliori nascono creando qualcosa di nuovo che è direttamente collegato a qualcosa di vecchio, come al Nelson-Atkins Museum di Kansas City; dal nuovo ampliamento scomposto in piccoli volumi di vetro si può ammirare il gioco di riflessi del vecchio edificio in pietra. Non avrei fatto il Nelson Atkins-Museum da solo, dipende tutto dal rapporto con l’edificio neoclassico in pietra del 1937. Nel progetto Higgins Hall del Pratt Institute, la differenza dei livelli tra l’edificio del 1850 da una parte e quello del 1864 dall’altra diventa il tema principale dell’ampliamento. Costruire in contesti preesistenti, laddove sia possibile salvare delle porzioni e le loro connessioni, attribuisce ai nuovi interventi una relazione con la città che ritengo necessaria.
Cino Zucchi: Per non prenderti troppo tempo, cosa suggeriresti infine al tuo vecchio fan Cino?
Steven Holl: Fai spesso riferimento a Walter Benjamin: stavo ripensando a un suo testo che ho amato molto, le sue riflessioni su Napoli. Ho usato il termine “porosità”, credo che anche tu lo abbia usato; il suo è un bel testo su Napoli e la “porosità” è la vita della città che si muove dentro e intorno agli edifici. Si può percepire tutto ciò nei tuoi progetti urbani di Venezia e del Portello (Milano). Penso che anche Casa Rustici di Terragni a Milano sia, in un certo qual modo, un esempio di “porosità”. Non potrò mai scordare anche la sua scala/rampa di Villa Bianca a Seveso. Penso di avere impiegato quella scala un sacco di volte, si sviluppa in un modo straordinario. Da un lato il mio libro “Anchoring” mostra il tentativo di muoversi battendo vie nuove, ma dall’altro sono un nostalgico delle parole pure di un architetto come Terragni.
Cino Zucchi: La prossima volta che vieni a Milano, ti porto in giro con me in sella alla mia Vespa a vedere qualche altra architettura “pervertita” del secondo dopoguerra. Milano è stata pesantemente bombardata durante il conflitto, la ricostruzione del centro è avvenuta in un modo peculiare, che potremmo etichettare come una specie di modernismo “ di compromesso”; nel 1959 Reyner Banham scrisse un articolo intitolato “La ritirata italiana dall’architettura moderna” e, Ernesto Rogers replicò con l’articolo “Risposta al custode dei Frigidaires”: quello che in quel momento veniva visto come un allontanamento negativo dal funzionalismo radicale, oggi viene visto come un’interessante mediazione tra le ragioni interne alla tipologia e la necessità di consolidare la morfologia esistente della città. Casa Rustici di Terragni che hai citato è un primo esempio di questa “doppia strategia”: i balconi sospesi sul lato della strada uniscono i corpi liberi degli appartamenti e ristabiliscono la continuità della cortina. Penso che a costituire la parte più interessante della Milano ricostruita sia una fertile dialettica tra la purezza del modello in cerca di sole e luce e quest’accettazione di carattere stratificato della città. Non si tratta di un adattamento linguistico, ma piuttosto di una deformazione che ritrovo anche nel tuo lavoro.
Grazie per la chiacchierata Steve, ti faccio tornare al tuo lavoro.
Steven Holl: Ciao Cino, ci vediamo presto a New York oppure a Milano!