area 107 | glenn murcutt

...Sono cresciuto a Sydney, circa a sette chilometri a nord della città. Il paesaggio era quello tipico della costa sabbiosa vicino alla città, caratterizzato da sequenze di eucalipto e di altre piante australiane. In questo ambiente ho ampliato le mie conoscenze sulla riproduzione delle piante, ho imparato ad associare le varie specie vegetali alle zone in cui crescono ed ho scoperto quali piante costituiscono l’habitat naturale degli straordinari volatili, insetti e animali autoctoni. Ho scoperto inoltre, che una specie vegetale si sviluppa e cresce in maniera profondamente diversa in questa zona rispetto alle aree pianeggianti, dove la falda acquifera è maggiormente in superficie, la pressione del vento inferiore e le piante ricevono una maggiore quantità di sostanze nutritive. Quando la stessa pianta cresce in collina, esposta ai venti, con livelli di umidità ridotti e minore disponibilità di sostanze nutritive, si ottiene un risultato completamente diverso. Queste scoperte sono state per me una sorta di valorizzazione del territorio, un elemento molto importante per il mio lavoro futuro. Ho osservato la forza, la delicatezza e la trasparenza di gran parte dei paesaggi australiani, dove la nitidezza della luce consente di distinguere chiaramente gli elementi che li compongono. Lo stesso non si può dire dell’Europa, dove invece i livelli di luminosità vengono utilizzati come elemento di continuità per creare un collegamento tra le varie componenti paesaggistiche. In tal modo ho avuto la possibilità di comprendere a fondo la leggibilità degli elementi, la struttura e la delicatezza del paesaggio australiano, tutti principi alla base del mio lavoro. Sono cresciuto in una famiglia di cinque figli. Abitavamo in una casa a tre piani con sette pianoforti, dove c’era sempre una gran confusione. Intorno a casa si costruiva sempre qualcosa: canoe, imbarcazioni da regata o case. Crescendo, ho capito che per lavorare avevo bisogno di assoluto silenzio, una lezione importante per me. La confusione che mi circondava mi spingeva a cercare il silenzio. Durante le vacanze estive ero costretto a dare una mano nella falegnameria di mio padre, un lavoro che all’epoca mi pesava molto, ma che mi ha insegnato a costruire barche, edifici, scale, finestre e molto altro ancora. Anche se a volte era pesante, si è trattato di un ottimo apprendistato. Dal 1946, mio padre cominciò a portare in Australia varie riviste, in particolare americane, attraverso le quali scoprii le opere di Frank Lloyd Wright, Mies van der Rohe, Gordon Drake, Charles e Ray Eames e molti altri. Il fatto che all’età di 15-16 anni conoscessi già numerosi architetti fu un elemento decisivo per la mia carriera futura.
Nonostante un esordio difficile, riuscii ad iscrivermi all’Istituto di tecnologia nel 1956, dove frequentai un corso part-time di architettura. Ebbi la fortuna di frequentare le lezioni di Noel Bazeley, docente di costruzioni. Gli studenti non avevano una gran considerazione del prof. Bazeley, ma mentre gli altri gruppi studiavano per tre quadrimestri costruzione di basamenti, fondamenta, solai, pareti, travetti e tetti, Bazeley integrò nel corso anche il tema della continuità con l’ambiente, una materia straordinaria, approfondita per un intero quadrimestre.
Una volta compresa l’importanza di creare una soluzione di continuità con l’ambiente circostante, durante il secondo quadrimestre, ci concentrammo sulla relazione tra questo tema e le aree edificate. Infine, nel terzo quadrimestre, passammo ad analizzare la costruzione di fondamenta, solai, pareti e così via.
Quale migliore esordio per un giovane architetto e, in particolare, per me? Chi poteva, nel 1956, aspirare ad una formazione del genere? In seguito ho lavorato a tempo pieno in diversi studi, collaborando con architetti del calibro di Neville Gruzman, Bill e Ruth Lucas, esponenti del movimento modernista in Australia. Ho avuto la fortuna di essere dipendente dello studio in cui lavorava Lucas quando stava elaborando il progetto di una delle case più leggere e luminose di Sydney, ancor oggi uno dei progetti più straordinari mai realizzati. Ho inoltre lavorato per Allen and Jack, un altro studio di notevole livello. Erano veri e propri nuclei d’ispirazione per chi voleva imparare il mestiere dell’architetto negli anni Cinquanta e Sessanta.
All’università sono stato bocciato all’esame di “Luce naturale e ombre” e ho dovuto ripetere il corso. In questo modo, ho avuto l’occasione di comprendere e apprezzare l’importanza di luce e ombra, principi che avrebbero poi costituito la base del mio lavoro futuro. Gli insuccessi non sono momenti da cui scappare con vergogna, ma grandi opportunità. Un insuccesso è un’occasione eccezionale di crescita. Dopo aver conseguito la laurea, nel 1962, ho fatto un primo viaggio in Europa, diretto nelle isole greche e in Scandinavia. In occasione di questo viaggio ho approfondito temi quali la luce, la continuità dello spazio, la natura e i limiti dei materiali, la formazione e l’organizzazione dello spazio, l’inevitabilità del movimento, l’unità cromatica, il riflesso e molti altri ancora. Utilizzare a fondo un materiale significa sfruttarne al massimo il potenziale; la mia filosofia di lavoro si basa sull'utilizzo dei materiali per svolgere una serie di funzioni. La mia carriera ha subito una svolta dopo essere stato nel Nord Europa ed aver conosciuto le opere di Jørn Utzon, le meravigliose case di Kingo e gli altri edifici, e dopo aver ammirato le opere di Aalto in Finlandia. Fu il mio caro amico Keith Cottier, mentre lavoravamo insieme a Londra, a dirmi: “Non tornare nelle isole greche. Devi assolutamente andare a vedere le opere di Aalto! Tra tutti quelli che conosco
sei la persona che le apprezzerà di più”. Seguii il suo consiglio. Grazie, Keith.
Nel 1969 ho aperto il mio studio di architettura. Non c’era lavoro, ma a quei tempi eravamo tutti piuttosto ottimisti. Cosa ho fatto dunque per i primi sei mesi di attività? Ho telefonato ai produttori di materiali da costruzione e ho fissato degli appuntamenti per visionare la merce. Volevo considerare tutte le opzioni a mia disposizione per creare elementi decorativi standard, piuttosto che progettare ogni singolo elemento decorativo. La rifinitura ha in questo modo un carattere molto più semplice e forte.
Nel 1973 ho fatto la mia seconda spedizione oltreoceano, questa volta inserendo nel mio programma di viaggio anche Francia e Spagna. A Parigi andai a visitare un edificio che avevo visto passando per strada nel 1962, la Maison de Verre. Era un edificio in grado di trasmettere un forte senso liberatorio. Progettato intorno al 1928 da Pierre Chareau e Bernard Bijvoët, si inscriveva nel periodo modernista, pur non corrispondendo ai canoni del movimento: era un edificio pieno di vita. Caratterizzato da una parte finale aperta, l’edificio trasmetteva una sensazione di eternità. Che meraviglia trovare un edificio del passato ancora pieno di vita, moderno e proiettato al futuro. A quel punto della mia vita, visitare questo edificio è stata un’esperienza importante, che ha dato un’impronta decisiva alla mia opera. A Barcellona, incontrai inoltre il grande architetto spagnolo José Coderch, che mi diede un importante insegnamento. All’epoca ero molto nervoso quando cominciavo un nuovo progetto e lo sono ancora. Mi sembrava che questo nervosismo fosse sintomatico di una qualche lacuna. Coderch, all’età di 62 anni, mi disse: “Quando comincio un nuovo progetto sono sempre molto nervoso”. Da quel momento ho capito che l'essere nervosi è una componente essenziale di ogni nuovo progetto, è fondamentale per non perdere la volontà di essere incisivi e rimanere proiettati verso l’originalità. Mi disse: “Ai miei studenti dico sempre che quando cominciano a lavorare a un progetto devono prima di tutto metterci impegno, poi amore e infine sofferenza, un principio della dottrina cattolica. In questo modo, anche se il risultato finale non sarà un capolavoro, si vedranno comunque la cura e l’impegno dell’autore.”
Sono sempre stato un fermo sostenitore della scoperta, piuttosto che della creatività. Un’opera esistente o che esiste solo sotto forma di progetto è sempre collegata ad una scoperta. Non siamo noi a crearla. A mio parere, noi non siamo altro che esploratori e l’architettura altro non è se non un percorso di esplorazione. Questo principio è molto importante per me. Personalmente, ho imparato più attraverso l’osservazione che dai testi stampati. Persino scrivere questo discorso in occasione della consegna del premio è stato per me un compito assai arduo.
La mia famiglia potrà confermarvi che sono uno spirito inquieto e non lo nego. Ho sempre cercato di trarre il massimo dalle cose, cercando di “sentire” i luoghi e oltrepassare i limiti; i miei studenti vi diranno che i miei studi sono memorabili. Esigo il massimo anche da me stesso e so sempre quando posso migliorare le cose che faccio; sono instancabile nella mia ricerca dell’ideale.
Ora vorrei spiegarvi brevemente i miei metodi di lavoro. Lavoro da solo perché amo il silenzio, che costituisce un’occasione per pensare e respingere tutto ciò che non è degno di essere definito architettura. Lavorando da solo non ho responsabilità né obblighi nei confronti dei dipendenti. Inoltre posso viaggiare ed eseguire studi di progettazione in varie università a livello internazionale, dove posso insegnare e cercare di trasmettere idee e approcci di lavoro agli studenti, gli architetti del futuro. Se necessario per qualche progetto collaboro con altri architetti che stimo. Quando non posso accettare un lavoro, lo passo ad un giovane architetto di valore che è stato mio studente, in modo da aiutarlo a dare vita al proprio studio. Come ho già detto, infatti, dietro ad un edificio di successo, c’è un cliente di rilievo. Non mi sono mai voluto far carico di progetti di grandi dimensioni perché mi conosco e so che ho bisogno di una grande varietà di stimoli per dare il massimo; mi stanco a lavorare per troppo tempo su un unico progetto che se è di grandi dimensioni può durare anche degli anni. Lavorare a molti piccoli progetti, significa lavorare con molti clienti diversi. In questo modo mi è possibile sperimentare e abbandonarmi a nuove suggestioni. So bene che studi di architetti famosi quali Renzo Piano e Frank Gehry riescono ad ottenere quello a cui aspiro io pur lavorando a progetti di maggiore portata. Accettare commissioni fuori dall’Australia significherebbe per me assumere del personale. Da solo, mi sarebbe impossibile lavorare contemporaneamente all’estero e in Australia, perché questo mi porterebbe a perdere i miei clienti qui dove posso sperimentare con una vasta gamma di paesaggi e climi. Viste le dimensioni del paese, che corrispondono a quelle degli Stati Uniti e che coprono una superficie pari a quella tra la costa occidentale della Spagna e Israele o tra l’Africa settentrionale e il Circolo Polare Artico, il potenziale d’azione è enorme. Se poi si considerano le varianti paesaggistiche di costa ed entroterra, con le varie altitudini ad esse associate, le possibilità sono pressoché inesauribili.
Paradossalmente, una volta stabiliti i limiti operativi che mi sono imposto, ho visto aumentare le possibilità a mia disposizione. Lavorare con studenti e accademici è estremamente gratificante. Ho instaurato profondi rapporti di amicizia con membri del corpo docente e con gli studenti, riuscendo in qualche modo a placare il mio spirito nomade. Quest’anno, la giuria ha identificato un elemento chiave che sta diventando sempre più importante per la sopravvivenza futura dell'umanità: la tutela dell’ambiente. Fare architettura senza cercare di ridurre il consumo energetico, utilizzare tecnologie semplici e dirette, rispettare l’ambiente naturale, il clima, il territorio e la cultura è per me impensabile. Se considerate nel loro insieme, queste discipline rappresentano a mio avviso un punto di partenza ideale per sperimentare ed esprimere la propria arte. Particolare importanza riveste per me la fusione dell’elemento razionale e dell’elemento poetico che dovrebbe emergere in opere che appartengono all’ambiente in cui sono inserite. Questo premio, quindi, ha un valore che trascende l’individuo. Tratta di temi fondamentali quali il presente e il futuro e riveste un ruolo importante a livello nazionale e internazionale. Mi sembra di percepire che nella decisione della giuria si possa leggere una speranza, collettiva e individuale, che attribuisce agli architetti la possibilità di farsi promotori di cambiamenti positivi, lasciando in eredità alle generazioni future principi degni del nostro tempo. Grazie.