area 108 | Mexico City

Che gli architetti abbiano smesso di decidere il corso di sviluppo delle città non è un fatto recente. Tuttavia fino a qualche decennio fa, non pochi si cimentavano nel pensare e disegnare se non intere città almeno il modo di trasformarne ambiti significativi. La loro incidenza era strettamente connessa non solo a strategie e politiche volte a risolvere necessità collettive, ma spesso anche a rappresentare l’immagine del potere che aveva commissionato gli interventi. In questo senso, quel territorio complesso e variegato chiamato America Latina annovera molteplici esempi, non solo d’intenti ma di realizzazioni concrete, concepite spesso su una tabula rasa. Sulla scia degli storici piani urbanistici di Le Corbusier per Rio de Janeiro, Buenos Aires e Bogotà, fino al caso più clamoroso d’intervento pianificato su grande scala, Brasilia, parecchi sono i casi rilevanti: dalle città universitarie di Città del Messico e Caracas, costruite rispettivamente alla fine degli anni ‘40 e ‘50, fino alle architetture pubbliche di São Paulo, dagli anni ‘50 fino ad oggi, e al monumentale complesso residenziale di Nonoalco-Tlateloco, a Città del Messico, disegnato da Mario Pani negli anni sessanta.
La capitale messicana rappresenta da questo punto di vista un caso paradossale, in quanto instaura un sistema di sistole-diastole; da un parte l’abbandono del tessuto urbano secolare in favore di una serie di enclave istituzionale e residenziale costruita dagli anni quaranta in poi; dall’altra il tentativo di crescita pianificata e lo sviluppo incontrollato di insediamenti informali, che si sono moltiplicati sin dagli anni ‘50-‘60, in maniera non dissimile da altre città del subcontinente: da Lima a São Paulo, da Buenos Aires a Caracas. Il punto di svolta avviene intorno agli anni settanta con l’abbandono di ogni progettualità da parte delle amministrazioni pubbliche, che paiono rinunciare ad ogni intervento efficace per far fronte alla crescita vertiginosa di quella che oggi è forse la città più grande del mondo. Così, quella – talvolta discutibile ma fortemente radicata – programmaticità, promossa dallo stato sin dagli anni trenta nei diversi ambiti della vita sociale, politica e culturale – dallo spazio pubblico alle infrastrutture, dalle abitazioni agli edifici istituzionali – legata a uno stretto rapporto con alcuni dei migliori architetti e urbanisti, si diluisce per far posto a un vuoto riempito, in maniera disordinata e vorace, dagli interessi corporativi e immobiliari di un mercato senza regole.
Questo slittamento dell’iniziativa dal pubblico al privato non ha origine solo nella tanto invocata quanto sospetta mancanza di risorse pubbliche, ma nella miopia di una classe politica che cede terreno davanti all’impeto della crescita informale  e della committenza privata. Dal canto loro, stato e amministrazioni locali, incancrenite da una dilagante corruzione, rivelano la propria incapacità di generare piani regolatori e normative sensate, per non parlare del recupero del centro storico o di affrontare altre istanze drammatiche – quella dell’acqua, per citarne una gravissima, non è dovuta solo al sistematico, irrazionale prosciugamento del bacino lacustre in cui si è eretta la città per secoli, ma essendo la stagione delle pioggie lunga cinque mesi, un semplice sistema di raccolta dell’acqua consentirebbe sia l’autosufficienza nel consumo che la generazione di un surplus da esportare agli stati vicini.
Davanti a uno scenario dai contorni apocalittici, è quasi un miracolo che la città funzioni. Ma non è meno sorprendente che, in mezzo al caos del traffico, ai problemi dei rifiuti, dell’inquinamento, della speculazione, delle mafie e dei conflitti sociali, si continuino a produrre delle architetture d’autore di prim’ordine. Un fatto, per altri versi, connaturale ad una civiltà che ha alle spalle una continuità di tremila anni con una delle culture architettoniche più notevoli al mondo.
Il sintomo più allarmante dello stato delle cose è che da trent’anni il secolare quanto fertile legame tra istituzioni e architettura sembra essersi spezzato in modo drammatico.
Non è difficile criticare l’approccio autoritario, e talvolta dogmatico dal punto di vista estetico e politico, con cui vennero commissionati ed eseguiti molti dei grandi progetti pubblici che hanno configurato l’identità moderna di Città del Messico tra gli anni trenta e sessanta: dal degrado del suo notevolissimo centro storico, ad opera di un decentramento dalle conseguenze urbane e sociali drammatiche, fino alla costruzione di una monumentalità istituzionale di stampo autoritario, alla promozione di una ghettizzazione che negli anni diventerà rampante. Ma questa critica – necessaria, vista la visione “eroica” di quei decenni tuttora predominante – rischia di diventare non solo inoperante ma anche fuorviante, se non si tiene conto di un contesto storico in cui gli ideali post-rivoluzionari degli anni trenta e primi anni quaranta – secondo i quali l’architettura andava messa al servizio di un’ideologia egualitaria che aspirava a “cambiare la vita”– vengono soppiantati alla fine degli anni quaranta fino agli anni sessanta da una spinta modernizzatrice altrettanto autoritaria ma già de-ideologizzata, che trova nell’architettura lo strumento di una doppia intenzionalità: creare una rete di infrastrutture per agevolare la trasformazione del paese e costruire un’immagine capace di consolidare un’identità nazionale che sintetizzasse modernità, storia e potere politico.
In entrambi questi periodi è cruciale il ruolo dei grandi architetti: Juan O’Gorman, Juan Legarreta, Mario Pani, Enrique del Moral, Augusto H. Alvarez; Villagrán García, Pérez Rayón, Félix Candela, solo per citare i più noti. È probabile che, fuori dal Messico, sia poco noto come i vincoli di questi autori con i successivi governi abbiano dato luogo a una produzione di rara originalità, la quale travalica la somma delle singole opere, anche se molte meriterebbero di essere apprezzate per il loro valore stilistico, funzionale e strutturale. Questo senza dimenticare lo stesso Barragán. Per quanto il suo percorso sia quasi marginale nell’ambito delle grandi opere pubbliche della modernità messicana, si inserisce nell’evoluzione dell’architettura dell’epoca, non solo come la voce probabilmente piú originale, per le sue case e i suoi giardini, ma anche per opere pubbliche meno note, costruite o abbozzate (tra le prime, le Torri di Satélite, insieme a Mathias Goeritz; tra le seconde, il progetto residenziale del Pedregal e il complesso di Lomas Verdes). Gli anni sessanta e settanta vedono emergere una generazione di architetti che hanno lasciato un’impronta non meno duratura sulla città e sull’intero paese. Eccezion fatta per Ricardo Legorreta (1931), erede di certi tratti dell’estetica barraganiana, si tratta dei rappresentanti di un monumentalismo brutalista, sintesi tanto inconfondibile quanto discutibile di certi eccessi del razionalismo tardo moderno e dell’architettura preispanica. Gli autori più significativi sono Pedro Ramírez Vázquez (1919), Agustín Hernández (1924), Abraham Zabludovsky (1924-2003) e Teodoro González de León (1926).
Ramírez Vázquez è stato il personaggio chiave nella definizione del volto della capitale messicana dell’epoca. È l’uomo dai poteri quasi illimitati per ben due decenni (anni ‘60 e ‘70), artefice delle decisioni centrali delle politiche sul territorio e la città. Presidente del comitato dei Giochi Olimpici del 1968, ministro dei lavori pubblici negli anni ‘70, autore di opere come il Museo di Antropologia, la Basilica della Guadalupe, lo Stadio Azteca, il Ministero degli Affari Esteri; egli è la figura che fa e disfà, conferisce incarichi per opere pubbliche e piani stradali, scuole, ospedali, musei.
Per contro, González de León continua a essere tutt’oggi la figura che più di ogni altra ha saputo capire in modo pragmatico il decadimento della progettualità pubblica in favore di quella privata e corporativa. La sua prolifica produzione – spesso in collaborazione con Abraham Zabludovsky e Francisco Serrano – include opere come gli edifici residenziali Torres de Mixcoac, il Museo Tamayo, l’Infonavit, le torri di Arcos Bosques, la sede corporativa di Banamex e, in epoca recente, il complesso di usi misti Reforma 222 e il Museo Universitario d’Arte Contemporanea.
L’idea della modernità messicana allora predominante è imperniata su una sintesi di architettura preispanica, coloniale (nel caso di Barragán) e razionalista (più lecorbuseriana che miesiana). Idea quasi monopolica nella cultura di quegli anni, difesa anche da intellettuali come Octavio Paz e Carlos Fuentes, e che solo in epoca recente comincia a essere oggetto di una revisione critica che travalica l’ambito strettamente architettonico. In un saggio sul celebre film di Paul Verhoeven, con Arnold Schwarzenegger, Total Recall (vedi Arquine 22, 2003), girato a Città del Messico, il critico Cuahtémoc Medina argomenta come le architetture degli autori sopranominati – usate nel film come scenari che incarnano l’immagine di un sorta di fascismo interplanetario – rivelano il carattere di questo monumentalismo autoritario inserito nel magma di una città ormai ingovernabile e sempre meno pianificabile.
Il tramonto di questa architettura, e del ruolo centrale dell’architetto come demiurgo capace di tenere le fila, non solo di un linguaggio ma di una progettualità urbana e sociale, si protrarrà ancora per almeno un decennio, ma negli anni ‘70-‘80 comincia ad emergere una nuova dialettica tra quel monumentalismo e una serie di autori influenzati dalle correnti internazionali, in cui il peso della storia e della funzione rappresentativa del potere verrà meno in favore di un’estetica – spesso estranea ai contesti in cui s’inserisce – che comporta l’implicita rinuncia a ripensare città e progetto sociale. TEN Arquitectos (Enrique Norten), Isaac Broid, Bernardo Gómez-Pimienta o Luis Vicente Flores sono tra gli esponenti di questa seconda tendenza (e più che di tendenze sarebbe opportuno parlare di filiazioni formali e concettuali), mentre Alberto Kalach o Agustín Landa propongono, non senza originalità, una certa continuità con lo stile monumentale e la tettonicità degli anni sessanta e settanta. Questa divisione, certamente schematica, tra “globalizzati” e “neovernacolari”, si accentuerà nella generazione successiva, negli anni ‘90 e nel nuovo secolo, dove tolte poche eccezioni – Mauricio Rocha è forse quella più rilevante, insieme a Sebastián Mariscal e pochi altri, come originalità formale, materica e come attenzione contestuale e sociale –, la maggioranza s’inclinerà verso un formalismo più o meno sobrio o fortemente iconico, scevro da riferimenti culturali e storici alla dominante tradizione moderna messicana.
Gli esponenti più noti di questo atteggiamento sono Javier Sánchez, Michel Rojkind, Derek Dellekamp, Fernando Romero, lo studio Productora. Sebbene alcuni esponenti delle nuove generazioni abbiano esercitato una riflessione sulla città – privilegiando spesso un aproccio, sistemico-accumulativo di stampo koolhaasiano –, i loro ripensamenti restano un fatto tanto marginale quanto estraneo alla propria prassi architettonica. Questo divario si manifesta in forma evidente anche nelle tipologie predominanti su cui si sono esercitati gli architetti negli ultimi anni: gli edifici di appartamenti e le residenze per un pubblico medio e alto borghese. Questo in una città dove quasi l’ottanta per cento della popolazione vive in povertà, talvolta estrema, con drammatiche mancanze di infrastrutture, servizi e spazi pubblici, e con la costruzione di circa 200.000 unità abitative all’anno, divisa tra progetti formali (sviluppati in gran parte dal settore privato) e informalità.
Non è questa la sede per affrontare cause ed effetti dell’assenza di politiche pubbliche in questi ambiti, ma la crescente incidenza del settore privato (anche in seno a contesti nati dall’informalità totale, spesso senza coinvolgere architetti veri e propri) fa da contrappunto alla proliferazione di opere d’autore, che rispondono a paradigmi stilistici e culturali sempre più separati dalla dilagante macchia urbana.
Solo in aree molto circoscritte, come la Condesa o Polanco, è emerso nell’ultimo decennio un insieme d’interventi che comincia a delineare un frammento di città con una certa organicità, volta a densificare e qualificare un tessuto urbano che dialoga con (e si sovrappone a) preesistenze di notevole qualità (parchi, piazze, edifici storici). Ma, per la maggior parte, le due (canoniche) istanze che rendono vivibile una città – spazio pubblico e abitazione sociale –, in quanto promuovono coesistenza sociale e qualità di vita, sembrano essere in balìa di interessi speculativi, privati e pubblici (spesso i lavori pubblici servono più a finanziare campagne elettorali che a risolvere problemi di fondo), esenti da qualsiasi progettualità urbana e territoriale. Se questa complessa e drammatica realtà potrebbe essere letta ricorrendo a diverse griglie analitiche, nel caso della capitale messicana resta chiara la marginalità dei migliori professionisti tra le forze che agiscono sul destino della metropoli. E questa che nel ‘500 e ‘600 veniva definita un modello di città, è diventata una città senza modelli, dove alla mancanza di dialogo tra architettura e progetto sociale, si aggiunge quella tra archittetura e cultura. Tuttavia, questa architettura sempre più svincolata dall’evoluzione della città, senza discorsi o prese di posizione nitide, oltre a esprimere un notevole dinamismo progettuale, testimonia la diversità di risposte del contesto messicano a una problematica ormai globale: quella di riformulare compiti e bisogni di una disciplina che da qualche decennio sembra aver perso il proprio centro, non solo per le (eterne) ragioni politiche ed economiche, ma anche per una sorta di smarrimento etico e culturale.

Javier Barreiro Cavestany (Montevideo, Uruguay, 1959) è autore di poesie, racconti, saggi, testi teatrali, video e reportage. È direttore editoriale di Arquine, rivista e casa editrice di architettura e design. Ha vissuto a Barcellona, New York e Roma. Dal 1995 risiede a Città del Messico.