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Adalberto Libera, Casa Malaparte, Capri, 1938-1943

Non vi è dubbio alcuno che il progetto, in particolare il progetto contemporaneo, sia un’attività intellettuale che richiede, oltre un’evidente preparazione sul piano culturale, alte competenze di natura tecnico-scientifica ogni volta misurate e misurabili con la responsabilità imposta dal livello delle trasformazioni indotte al paesaggio sia urbano che naturale. Di fronte ad un così elevato grado di complessità l’architettura spesso rischia di implodere all’interno delle condizioni e talvolta delle contraddizioni al contorno: i desiderata della committenza, le previsioni urbanistiche, l’apparato normativo, i costi di costruzione, l’approvazione con il conseguente giudizio degli enti preposti al rilascio dei relativi permessi, le capacità tecniche di chi realizza e, non ultimo, l’uso e la manutenzione dell’edificio finito. Se a ciò si aggiunge la calligrafia, lo stile, le idee e spesso le ambizioni, non sempre legittimate sul piano etico, di chi progetta, l’obiettivo finale, una coerente
e tangibile qualità dell’ambiente e dell’abitare, rischia sovente di diventare una chimera irraggiungibile ed il progetto un’equazione con un numero tanto elevato di incognite da risultare irrisolvibile. Dal punto di vista scientifico-metodologico l’unica possibile via d’uscita consiste nel ridurre un così alto grado di complessità attraverso la risoluzione di una sequenza organizzata di problemi semplici tentando di non perdere, con l’avanzare dell’azione e quindi della sintesi progettuale, quella semplicità logico-operativa che è stata la chiave di svolgimento dell’intero percorso costruttivo. Se l’esito, tanto per l’osservatore quanto per chi ci abita risulta ancora, nella sua chiarezza e intelligibilità, unitario       e compiuto, allora l’attività progettuale che ne è stata origine e causa ha compiuto in pieno il proprio dovere restituendoci un’architettura in cui la sommatoria delle parti e delle numerose problematiche è risolta integralmente in un ambito dove ogni gesto, e conseguentemente l’esito, sembra “facile” e quindi “felice”. Invocare la semplicità dei comportamenti e dell’architettura non significa tuttavia rinunciare al sublime, allo stupefacente, finanche al monumentale, significa piuttosto comprendere con profondità che l’essenza del progetto si fonda prioritariamente sulla composizione (da com-ponere letteralmente mettere assieme) attraverso una sintesi nella quale risultino inscindibili le diverse componenti materiali e intellettuali. Costruire con semplicità significa allora concepire il progetto come quell’attività intellettuale, invocata all’inizio, che si oppone alla semplice attività costruttiva dove l’unica abilità consiste nell’accostamento più o meno casuale dei vari elementi costruttivi affinché vi sia garanzia statica, dove la decorazione non sia ridotta ad un semplice apparato sovrapposto all’edificio con il presupposto dell’abbellimento (procedimento che più facilmente conduce all’esito opposto come testimonia la ricerca di Oliviero Toscani attraverso una selezione di immagini riportate in questo numero), dove la finalità ultima non sia la sola massimizzazione del profitto e della rendita fondiaria. È il progetto e quindi il pensiero che lo sottende a distinguere il semplice dal banale, ad allontanare il senso delle cose dalla casualità, l’inutile dall’utile, la dissoluzione del paesaggio dal paesaggio stesso. È il progetto con il suo carico di complessità a restituirci il meglio con semplicità, per “distillazione”, attraverso l’intelligenza e il sapere di un singolo, l’architetto con un numero limitato di attori, o la sapienza di molti, risultato di una tradizione costruttiva che appare nelle case e negli edifici antichi anch’essa come l’essenza di un sapere a cui il tempo ha sottratto l’inutile restituendoci il senso e la meraviglia dell’abitare.