area 120 | Beirut

“Beirut è troppo grande per essere contenuta!”. Lo slogan poteva leggersi sui muri della città nella primavera del 2005 in uno dei momenti più convulsi della recente storia della capitale levantina, subito dopo l’attentato al primo ministro Rafik Hariri e subito prima del ritiro delle truppe di occupazione siriane.
Beirut è innegabilmente troppo grande per sintetizzare in una sola formula le molteplicità della “Parigi del Medio Oriente”, cresciuta rapidamente su una base plurimillenaria, e dove le diverse identità sono unite soprattutto dall’appartenenza al mosaico interconfessionale del Libano.
Modelli compositivi, insediativi e urbani tra loro diversi si affiancano in una compresenza a volte sincronica, a volte distonica, ma mai contraddittoria, in cui le tensioni latenti sono sovente esplose in conflitti nei quali l’articolata identità libanese ha espresso con violenza l’incontenibile pluralità delle sue componenti. Le foto di Gabriele Basilico, scattate solo un anno dopo la conclusione della guerra civile combattuta tra il 1975 e il 1990, rivelavano quanto era stato intenso, da parte di qualsiasi fazione, l’accanimento devastatore. Interi edifici sgretolati da proiettili di ogni calibro, in una guerriglia totale casa per casa, stanza per stanza.
Nel descrivere l’immediato sforzo per la ricostruzione, c’è chi si è avventurato in parallelismi con un’altra grande città, Berlino, o con i Balcani, l’altra regione multiconfessionale del mediterraneo.
Parallelismi legittimi ma inesatti. Se la devastazione della capitale tedesca fu l’esito di una follia da lì partita e lì conclusasi dopo avere attraversato il mondo intero, Beirut è stata, al contrario, il grumo intorno al quale si addensarono tensioni interne e regionali in una commistione difficile da comprendere e controllare.
Allo stesso tempo, mentre nei Balcani lo scontro interetnico colse quasi di sorpresa un’Europa protesa a costruire un’Unione la cui finalità costitutiva è proprio quella di un futuro senza guerre, il Libano non è mai stato alieno ai giochi politici dei vari attori dello scacchiere mediorientale.
Dopo vent’anni, a Beirut le ferite della guerra persistono: sono ancora molte le case con i segni delle raffiche, talvolta sparate da una finestra all’altra dello stesso stabile ed è significativo che due tra i maggiori edifici della città siano vistosamente segnati dagli scontri. Entrambi abbandonati, l’Holiday Inn e la torre Burj El Murr emergono sinistramente maestosi a ricordare che Beirut è incontenibile e qualunque piano o previsione deve tenerne conto. Beirut è però nota anche per il suo amore per la vita. Il recente fenomeno degli skybar, club ubicati nelle terrazze di edifici significativi con viste mozzafiato,
è la versione aggiornata delle sale cinematografiche, un tempo nuclei di aggregazione interconfessionale diffusi capillarmente.
Uno spirito edonistico percepibile negli interventi del centro, sottilmente protesi a ricostituire una godibilità epidermica che ha prevalso perfino sulle reali necessità infrastrutturali e che ha forse indirettamente giocato un ruolo nel grande ritardo con cui l’amministrazione municipale si sta dotando di uno strumento di Piano aggiornato.
Del resto Solidere, l’agenzia privata che gestisce il recupero del Beirut Central District, nel suo Master Plan ha rinunciato allo zoning in favore di volumetrie d’uso misto più vantaggiose per il mercato immobiliare ma anche esplicitamente rivolte ad esperienze di vita urbana spiccatamente ludiche: fare shopping, partecipare ad eventi, uscire la sera.
Il responsabile della pianificazione di Solidere, Angus Gavin, afferma che non si è voluto imporre un’identità globalizzata e fin dall’inizio si è cercata la continuità con lo spirito beiruttino come era prima della guerra. Pure la decisione di puntare su uno spazio pubblico diffuso, basato sulla strada (pedonale o mista) valorizzando gli aspetti archeologici e contestuali del patrimonio rientra in una visione estetizzante della città, secondo la quale i concetti di funzionalità e sostenibilità diventano quasi accessori rispetto all’obbiettivo primario: attrarre fruitori e investimenti privati.
Quest’urgenza di riportare la vita nel centro è inizialmente sfociata in irruenza e non sono mancate distruzioni disinvolte e progetti estranei al luogo, in aperta contraddizione con gli stessi assunti fondativi di Solidere, teoricamente distanti dall’igienismo ordinatore dei pianificatori francesi che negli anni ’30 rasero al suolo Beirut medievale in favore di un’impostazione haussmaniana e neocolonialista di strade ed edifici. Le vicende dei Souk e della piazza dei Martiri, con gli sviluppi dei rispettivi concorsi e le molte demolizioni controverse, illustrano le difficoltà incontrate da Solidere nel calibrare adeguatamente azioni e posizioni, sia ideologiche che politiche, anche per il ginepraio amministrativo della vecchia parcellizzazione (una stessa unità a volte era reclamata da centinaia, se non migliaia, di proprietari). L’allora primo ministro Rafik Hariri, artefice della nascita di Solidere nel 1993, affrontò il problema in modo gorgiano passando dalla proprietà frazionata alla proprietà globale: in un inedito modello misto pubblico/privato, la proprietà del centro venne accorpata in un’unica mega parcella con l’esclusione di luoghi di culto, sedi governative e pochi altri edifici.
Chiunque vantasse un qualsiasi titolo di proprietà divenne azionista proporzionale di due terzi della nuova agenzia, il cui capitale fu per il restante terzo collocato in borsa.
Solidere divenne in pratica l’unica proprietaria del centro di Beirut, con l’obbligo di agire solo dopo l’approvazione governativa del Master Plan e con l’impegno di costruire infrastrutture e spazio pubblico rispettando l’identità del distretto, in cambio di una concessione di 75 anni sui diritti di sfruttamento degli edifici, di gestione dei servizi e il permesso di costruire e gestire il nuovo Waterfront. Non sono mancate polemiche per l’eccessivo potere dato a Solidere, l’assenza di un vero dibattito, la manipolazione dell’identità storica del centro in funzione di interessi speculativi e convenienze politiche e per il timore che si estendesse a tutta la città un modello di intervento dai dubbi benefici generali.
Un punto di inflessione si ebbe con l’attentato ad Hariri, nel 2005, e “il fatto che i successivi rivoluzionari eventi politici siano stati innescati dalla morte del più grande tycoon immobiliare della regione non è una mera coincidenza”, così come non lo fu la reazione della popolazione espressa in un’occupazione spontanea di quella piazza dei Martiri che guerra e ruspe avevano ridotto a un’inquietante spianata alla De Chirico. Negli anni successivi, sia la guerra tra Hezbollah e Israele del 2006, sia il rigurgito di guerriglia del maggio 2008, non hanno bloccato la delicata ma incessante opera di riconciliazione e ricostruzione del paese. La Primavera Araba del 2011 è stata seguita in Libano con interesse ma senza un coinvolgimento attivo: a Beirut sono vent’anni che sta sbocciando la primavera locale e nessuno vuole che il paese ricaschi nella guerra civile. La stessa facilità con cui tutti sanno che potrebbe ripartire il massacro (contro il proprio collega di lavoro, vicino di casa o membro di famiglia) genera un istintivo attaccamento alla vita ma anche una diffusa propensione alla cautela, se non alla tolleranza, verso situazioni di delicata gestibilità politica. È il caso del quartiere meridionale di Dahiye, amministrato dall’organizzazione sciita di Hezbollah in sostanziale autonomia e con il conclamato appoggio dell’Iran. La ricostruzione di questa parte di città dopo i bombardamenti israeliani del 2006 è stata gestita internamente senza che l’amministrazione centrale abbia insistito troppo per essere coinvolta. In questo contesto di tensioni e vitalità, sono cresciuti negli ultimi anni cantieri e progetti. Ma diversamente da altre città, la cui rinascita ha visto un momento algido in uno specifico evento o edificio, Beirut non ha finora giocato questa carta. C’è un progetto, approvato, per un circuito di Formula 1 in centro e c’è stata una timida proposta come sede olimpica, ma Beirut non è la Barcellona del ’92 o la Bilbao del Guggenheim e nemmeno la Glasgow dello spazio pubblico.
Lo stimolo decisivo per l’investimento privato (visto come migliore fattore per generare, sul lungo periodo, anche l’investimento pubblico) è stato proprio il senso di benessere emanato dalle nuovi torri residenziali e dalla prestigiosa visibilità data agli edifici terziari da un mirato recupero dello spazio urbano. A investire dall’estero sono prevalentemente gli stessi libanesi: quel milione di espatriati che, scappando dalla guerra, ha ingrossato la diaspora già esistente e la cui ricchezza è superiore a quella dei residenti. I libanesi d’oltremare costituiscono il 50% degli acquirenti delle nuove promozioni immobiliari, spesso sono partecipi delle finanziarie che mettono i soldi e sono partner con i grandi studi internazionali di progettazione. Inoltre la costruzione è stata ultimamente vista come un settore tanto sicuro da non temere nemmeno l’eventuale esplosione di un nuovo conflitto.
L’idea diffusa è che sia molto più conveniente mettere i soldi in una proprietà, meglio ancora se una torre di lusso, piuttosto che rischiare in borsa o nel mercato valori. Beirut è la città della regione dove maggiore è stato l’incremento del prezzo al metro quadro della nuova costruzione con impennate del 400% in meno di sei anni. Tra gli effetti di questo sistema c’è stato un aumento degli introiti del Comune, a fronte di una maggiore difficoltà del Governo nell’ottenere un ritorno di liquidità dall’ondata edilizia. Sul piano linguistico, l’iniziale impertinenza di molta della nuova architettura locale, rappresentata soprattutto dal talento di Bernard Khoury, si è andata stemperando col tempo, passando da una monotònica riflessione sulla guerra, alla ricerca di una modernità attenta alle grandi correnti internazionali evitando però di cadere nel gusto per lo stupore globalizzato che permea quasi tutti gli interventi nei vicini Emirati Arabi.
Anche a Beirut è stata programmaticamente seguita la politica delle archistar9, ma finora non si è trattato di un’acritica consegna della città nelle salvifiche mani di progettisti famosi: piuttosto, si sono individuati punti significativi, i landmark, per i quali il grande nome garantisce visibilità e qualità in assenza di un piano più ampio. La collaborazione tra studi locali e archistar è molto comune e va bel al di là del normale schema archistar-local architect, anche in virtù di un nutrito gruppo di architetti libanesi con doppia sede, a Beirut e all’estero: per esempio Nabil Gholam e i L.E.F.T in collaborazione rispettivamente con Ricardo Bofill e Steven Holl.
Recentemente si è poi allentato l’assedio al patrimonio architettonico (le case tradizionali libanesi, ma anche varii manufatti della stagione del modernismo degli anni ’50 e ’60), paradossalmente conservato grazie a una guerra civile che arrestò pianificazioni la cui assertività internazionalista stava facendo tabula rasa di edifici ed ámbiti tradizionali, ma che era tornato in una condizione precaria quando sembrò che la nuova Beirut dovesse eliminare le tracce di un passato che annidava al suo interno i germi della guerra.
La crisi finanziaria internazionale del 2008 ha abbassato la febbre costruttiva dando la possibilità di una riflessione più attenta a quella che sarà la Beirut che verrà, al di là del dovere di ricordare, dell’urgenza di ricostruire e dell’opportunità di crescere. Resta da vedere se, sul lungo periodo, il funambolismo gestionale che ha agevolato una ricostruzione priva di visioni e strumenti complessivi, sarà un punto debole a fronte delle tensioni interne e regionali o se, al contrario, diventerà un inusuale modello di genericità grazie al quale la vitalità locale potrà trovare soluzioni specifiche alle sfide poste da crescita e mercato.

Alessandro Scarnato divides his time between academic and professional activities, and between Spain and Italy. In recent years he has studied the Middle East as bridge between East and West as part of his research, which centres on the relationship between the city, politics and the cultural expressions of society.