area 109 | art and architecture

“Uno dei problemi della vita culturale è quello di stabilire un contatto tra arte e pubblico. Ritenendo che questa sia essenzialmente una questione di educazione, crediamo debba essere affrontata fino dagli anni della prima giovinezza, sì che l’arte non diventi una esperienza astratta e intellettualistica, ma un diretto rapporto di scambio tra l’uomo e gli oggetti creati da lui”.  (BBPR, 1954)

Circa la metà degli anni Trenta del secolo scorso, Luciano Anceschi affronta il nodo problematico dell’”autonomia dell’arte” fondata sul concetto di una “sintesi a priori estetica” per ribaltarne il senso entro un processo in cui il passaggio da una sistematica unidimensionale a una sistematicità pluridimensionale segnala il rinnovo di una integrazione disciplinare all’interno di una figura estrema come quella della nozione di “poesia pura”. In pratica: Anceschi prosegue l’azione di liberazione dell’arte dalle mistiche dottrinarie e dalle gabbie dogmatiche (già intrapreso un decennio avanti da Antonio Banfi – suo maestro – nel saggio “Il principio trascendentale dell’autonomia dell’arte” in “Vita nell’arte” - 1924) per richiamare i canoni di una composizione che innestando il pensiero estetico inglese, di origine settecentesca, nella cultura americana del XIX secolo si basa sull’associazione insolita, sull’”improvviso incanto”, sulla manipolazione accidentale e sull’effetto-sorpresa per sfociare nel fondamento generale di una estetica dell’anti-grazioso e dell’anti-intellettualistico.
Nel corso degli stessi anni, pure se con risvolti più espressamente orientati a una funzione educativa della società civile, un simile retaggio anti-classico, teso al superamento della mera estasi contemplativa di radice ottocentesca, appartiene allo spirito divulgativo anglo-americano per opera soprattutto di John Dewey (Art as Experience – 1934), il cui pensiero filosofico punta alla concezione dell’arte come esperienza da vivere attivamente, secondo una prospettiva pedagogica in grado di contrastare le secche del purovisibilismo così come si era venuto a delineare sulla scorta delle argomentazioni teoriche di Konrad Fiedler e di Heinrich Wölfflin. Dibattito riemerso per merito di Argan alla fine degli anni ’40 per sostenere la trasmissione altamente democratica dell’arte e per accompagnare quello snodo fondamentale relativo all’allestimento museografico e al restauro che segna l’architettura italiana del secondo dopoguerra attraverso l’opera di Albini, di Gardella, di Scarpa e dei BBPR.
Ora, sullo sfondo di questa sommaria ricostruzione cronologica interna al confronto tra diverse discipline artistiche, “integrazione” è dunque il termine di ascendenza anceschiana che appassiona e sollecita Francesco Moschini nella conduzione ormai trentennale della A.A.M. Architettura Arte Moderna: luogo di sintesi tra i due ambiti richiamati in acronimo, di cui vengono sondate, pur nel fragile e aporetico equilibrio, le potenzialità espressive interagenti, con l’obiettivo di creare uno spazio mentale attraverso cui gli strumenti, i materiali, le tecniche e la storia concorrano a rafforzare il rapporto tra arte e architettura secondo un procedimento di sguardi incrociati che indaghi le contiguità, così come le infrazioni significative, per arrivare a corrodere il confine dei linguaggi. Proprio in questa chiave, del resto, vanno lette le diverse attività svolte in seno alla A.A.M., dove, in generale, viene messa in discussione la presunta autonomia di ciascuna manifestazione artistica e viene approfondito il lascito del Movimento Moderno che promuove il mutuo scambio semantico tra le discipline proiettandole empaticamente nell’intreccio tra arte e scienza.
In particolare, forte di un corpus di oltre 2.500 disegni, ordinati nel corso di una febbrile e compulsiva foga cumulativa, la A.A.M. costruisce un mosaico del raffronto arte-architettura entro cui si distinguono gli ambiti relativi alla sezione storica, architettonica, pittorica, scultorea, teatrale e del design, e il cui compito consiste nel tracciare una mappa in progress da verificare attraverso un incessante riordino retroduttivo che punti alla messa in luce delle ricerche di artisti e architetti.
In questo senso: è già a partire dal 1980 che la sezione “Duetti” intende mettere a confronto, secondo un’angolata e incisiva lettura incrociata, un architetto e un pittore i cui lavori presentano sottaciute affinità poetiche, simili debiti figurativi, evidenti intersezioni formative, volte alla costruzione di una enciclopedia del sapere che pur attestando la specificità autoriale tradisce il gioco dello sguardo obliquo. Ecco quindi che Enzo Cucchi e Dario Passi, Alighiero&Boetti ed Ettore Sottsass, Costantino Dardi e Giulio Paolini, Luigi Ontani e Alessandro Mendini, di volta in volta – tra gli altri – chiamati a restituire figurativamente le icone di un personale procedimento compositivo, ricostruiscono le stazioni di un percorso in “terre di frontiera”, nella zona liminare, cioè, in cui gli itinerari della propria storia si ritrovano nella tensione immobile di un segno che spinge alla comprensione dell’altro, per condividere memorie, per progettare luoghi, per “poeticamente abitare” lo spazio interstiziale dei comuni “pensieri fissi”.
Di più ancora – come evidenziano alcune mostre d’autore – c’è la volontà di ampliare il dominio degli imprestiti concettuali, dei rinvii e delle appropriazioni, per costruire un “racconto parallelo” degli eventi. Sotto questo aspetto, per esempio, è concepito l’omaggio memoriale alla figura di Costantino Dardi, il cui spirito immaginario, migrante in tre diverse sedi espositive, ripercorre il contributo fornito a suo tempo per il film “Il ventre dell’architetto” di Peter Greenaway, incentrandolo nuovamente sulla rilettura di Roma filtrata attraverso i modelli di Boullée: vero e proprio arsenale generativo per una visione mirata della città ricalcata sulla impronta della Pianta del Nolli. Lo stesso ambito tematico, d’altronde, accomuna le mostre individuali dedicate ad Alberto Burri e a Vito Acconci. La prima, concepita alla metà degli anni ’80, rivede il lavoro complessivo di Burri a partire dagli anni ’70 attraverso la successione dei bozzetti originali per i cicli pittorici all’interno dello spazio circoscritto e volutamente compresso della sede espositiva. I bozzetti, allineati come i pannelli sconnessi di un mosaico incompleto, dalla parete si protendono all’interno del modello ligneo di Orsanmichele a Firenze per cogliere la relazione esistente tra l’opera concepita per un luogo e il luogo stesso. La seconda, soprattutto nella sezione fotografica delle opere monumentali realizzate da Acconci in diversi siti statunitensi, sonda più direttamente il rapporto scultura-architettura contribuendo a fornire una chiave di lettura per gli esiti di una parte dell’architettura contemporanea spesso preda di una facile identificazione tra edificio e oggetto scultoreo. In ultimo, tra le altre iniziative della A.A.M. ci preme ancora segnalare l’attività svolta per conto di Ferruzzi, che ha visto coinvolti, a vario titolo, artisti e architetti all’interno di un rapporto interdisciplinare indispensabile per la comprensione del “moderno”.
In particolare, il confronto tra diversi artisti si esplica in modo più significativo nel contesto del Palazzo delle Arti e dello Sport di Ravenna, dove nel 1990 vengono giustapposte esperienze eterogenee e consensuali tra cui spiccano il “Grande Ferro R” di Burri: due grandi mani metalliche affioranti dal suolo che rinserrano lo spazio in un trattenuto abbraccio, la scultura in cemento e ferro di Giuseppe Uncini, il cui sviluppo continuo inscena il gesto di una progressiva smaterializzazione del piano per consegnarsi alla scheletrica esibizione dell’involucro metallico in tensione, e, infine, la tabula dei percorsi incrociati di Alighiero Boetti che nel mosaico pavimentale irradia le tracce di un favoloso bestiario transumante. Lo stesso rapporto consensuale riemerge poi in altri confronti promossi o sostenuti dalla A.A.M. Tra questi: la mostra-consulto proposta per l’ampliamento della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, che sui resti dell’opera di Luigi Cosenza ha visto il contributo di sei architetti e di sei artisti selezionati in base a un preciso taglio generazionale, e il sofisticato intervento artistico di Elvio Chiricozzi all’interno del progetto di CdP (Compagnia del Progetto) per la sistemazione delle aree di ingresso dell’Ospedale di Salonicco, dove le figure che trasmigrano da una parete all’altra creano una continuità circolare che progressivamente si richiude nel castone visivo in retropiano. Insomma, pur dalla sommaria rassegna, quella di Moschini emerge come la figura di un atleta instancabile che ambisce ricomporre i frammenti di una scomposta e dissonante coralità per inscriverli all’interno di un racconto storico faticosamente estratto dalla materia del suo desiderio confessato: quello di superare i circoscritti confini dell’autonomia disciplinare per coniugare, nel rinnovato “matrimonio mistico” tra arte e architettura, teoria e prassi, analisi e azione, tradizione e progresso.

Efisio Pitzalis è docente di Progettazione Architettonica presso la Facoltà di Architettura della Seconda Università di Napoli. La sua attività di ricerca, teorica e applicativa, è interna alle correnti moderniste, di cui interpreta la linea genealogica delle fonti, e si svolge tra Roma e Aversa/Napoli. Nel 1996 fonda lo studio di architettura a Roma insieme a Geneviève Hanssen e nel corso degli anni intreccia rapporti lavorativi con studi internazionali, avvalendosi delle loro specifiche competenze. Il campo di interessi si colloca sia nell’ambito di complessi edifici multifunzionali sia nell’area della progettazione paesaggistica e urbana.