area 111 | zero volume

Studio Archea, Acoustic Barriers, Florence, Italy, 2007 - photo by Pietro Savorelli

Compito di una rivista di architettura è aprire nuovi scenari di riflessione o rilanciare la discussione su temi aperti e ritenuti di attualità offrendo, al dibattito sul progetto, una selezione ragionata di casi studio correlata ad una specifica azione critica ritenuta utile per l’operare contemporaneo.  Convinti di questa opportunità, diversamente orientata rispetto alla richiesta di esclusiva sull’ultimo progetto, o sulla collezione-presentazione acritica dell’architettura (da questo punto di vista puramente strumentale la rete è certamente più efficace) Area, con questo numero – tematico come di consuetudine – intende tornare sulla questione della sostenibilità dell’architettura all’interno di un paesaggio interamente urbanizzato e costruito attraverso l’originale intuizione introdotta da Aldo Aymonino e Valerio Paolo Mosco nel volume “Spazi pubblici contemporanei: architettura a volume zero” edito da Skira nel 2006. L’interesse per quella specifica ricerca non è esclusivamente legato al tema dello spazio pubblico e/o collettivo, questione che ovviamente necessita di una costante opera di aggiornamento e riflessione, quanto sulla opportunità di lavorare su una dimensione del progetto che prescinde dal volume e dalla cubatura, in ultima analisi dal consumo e dall’uso esclusivo del suolo secondo un orientamento che carica l’architettura di valori comportamentali, quindi etici e sociali, se non nuovi, certamente necessari.
L’opera e il lavoro dell’architetto, possono liberarsi, per questa via, non tanto della dimensione spaziale, giacché una piazza, un parco, la trasformazione di un lungomare, definiscono comunque uno specifico ambito relazionale variamente individuabile, quanto di una misurabilità espressa in termini di metri cubi e di esclusività di suolo sottratto alla libera fruizione. Si tratta, in ultima analisi, di interpretare un qualsiasi programma d’uso e di attività in modo da non occupare un volume definito, perimetrabile, diversamente espresso attraverso una cubatura che gli autori individuano come nulla o prossima allo zero; una cubatura che forse, paradossalmente, potremmo considerare “infinita” poiché data da una superficie aperta per un’altezza illimitata. Tuttavia, rispetto alla logica matematica dove un risultato tendente allo zero rimanda ad una dimensione diametralmente opposta rispetto ad una sommatoria tendente all’infinito, in architettura, un volume nullo, un granello di sabbia, e un volume infinito, l’ambiente circostante, convivono nello stesso luogo e quindi spazialmente possono coincidere. Ma al di là delle dispute terminologiche e delle formule utilizzabili, lo scarto da un pensiero datato – l’architettura è il gioco sapiente dei volumi sotto la luce – è costituito dalla fruibilità dell’opera, dall’essere percorribile, utilizzabile, disponibile, concepita in modo che la privatizzazione progressiva e costante del territorio non proceda rendendo lo spazio urbano o, peggio ancora, naturale, come il luogo di risulta di una attività edilizia dissennata e priva di quella sensibilità “ecologica” che le architettura a cubatura zero, o infinita, mostrano. In effetti queste, una volta costruite, risultano “calpestabili” e spesso, le migliori, perfettamente inserite in un paesaggio che esse stesse concorrono a definire.