area 112 | beauty of built

Bello? Si certo, ma da quale angolazione? Oltre a chi o cosa si sta osservando si dovrebbe riconsiderare qual è il lato che effettivamente rende l’oggetto del nostro desiderio così bello. Sebbene nell’architettura moderna e contemporanea si sia spesso fatto ricorso a strategie formali, che prevedevano il ribaltamento degli schemi e la costruzione di volumi il cui sotto diventava sopra e l’interno esterno, il processo di voltare o girare la costruzione, scambiando tra loro fronte e retro, è rimasto essenzialmente un tabù durante tutte le rivoluzioni che hanno interessato l’architettura del ventesimo secolo. A tale mancanza di versatilità corrisponde una certa non-flessibilità da parte della critica, il cui contributo, a dir vero scarso, nei confronti di bellezze architettoniche e canoni estetici non veramente apprezzati, si basa esclusivamente sull’osservazione del lato frontale. Se, riproducendo lo stesso effetto ottico della fotografia a raggi X, l’architettura moderna ha reso sempre più visibile la struttura interna dell’edificio, facendo sì che questo indossasse per così dire le proprie “viscere” in faccia, non si è mai arrivati a rovesciare del tutto la tradizionale gerarchia fronte-retro: tutto deve essere visibile dalla facciata, che quindi va ad espandersi, divenendo predominante anche nei confronti di elementi un tempo nascosti. Nel suo Das Gesicht des Deutschen Hauses (Il volto della casa tedesca, n.d.t.), Paul Schultze-Naumburg, architetto tedesco e critico anti-modernista, utilizza foto che ritraggono il retro di abitazioni di operai per mostrare il lato “ non pianificato” e labirintico dell’architettura in un contesto urbano moderno. Il “retro”, normalmente non visibile al pubblico, viene in questo caso immortalato dalla fotocamera del critico che ne rivela la bruttezza e apre una finestra su un lato talmente privato da risultare imbarazzante. Schultze-Naumburg utilizza tali esempi negativi paragonandoli visivamente ad alcune opere di architettura moderna, tra cui la colonia di Weissenhof (1927) vicino a Stoccarda, i cui edifici, progettati in quel periodo da Le Corbusier e Hans Scharoun, appaiono scarni e privi di ogni decorazione, esattamente come il retro dei palazzi cittadini. A queste “abitazioni moderne” non manca solo un volto ma persino la testa; sono infatti “decapitate” e non presentano il classico tetto a spioventi, simbolo dell’identità nazionale tedesca; è come se l’anonimità che caratterizza solitamente il retro degli edifici avesse in questo caso preso il sopravvento andando ad occupare tutti i lati della costruzione. L’onnipresenza del lato posteriore e l’assenza della facciata tradizionale altro non sono, in questo caso, che un’eco dell’ansia diffusa di “perdere la faccia”, una forma di crisi culturale che scaturisce dal non avere un’identità stabile e i cui effetti vengono amplificati nei periodi di tensione socio-politica. La discussione sul “retro”, in ambito architettonico, va sviluppandosi parallelamente ad un’analisi a carattere generale, avvenuta nel periodo tra le due guerre, sulle conseguenze di una regressione culturale e psicologica, i cui effetti collaterali si rendono ben visibili sul corpo umano. Ne Il Disagio della Civiltà, Sigmund Freud sosteneva che l’aver assunto la posizione eretta aveva portato i nostri antenati ad una “repressione organica” dell’erotismo anale e ad associare, nel contempo, alla messa in mostra dei genitali frontali un forte senso di colpa.
Improvvisamente dunque, la parte anteriore dell’essere umano diveniva oscena e, allo stesso tempo, la parte posteriore si trasformava in un qualcosa da reprimere. Prendendo le mosse dalle teorie di Freud, con un occhio anche a quanto sostenuto dagli studiosi di fisio-morfologia del tempo, George Bataille, nel suo saggio pubblicato postumo Il Gesuvio, sosteneva che con la nuova posizione eretta assunta dagli ominidi e lo scomparire dell’ano sporgente (“teschi d’escrementi dai colori appariscenti” n.d.t.) all’interno di natiche carnose, i punti di maggiore attrazione erotica e sociale si elevavano all’altezza degli orifizi facciali, gli occhi lacrimosi e la bocca sorridente divenivano dunque i nuovi “luoghi” dell’espressione umana.5 Se per Bataille l’uomo non è altro che “uno stadio intermedio di sviluppo tra la scimmia e l’edificio” n.d.t., la venerazione del volto e la repressione di tutto ciò che è posteriore sono da considerarsi i pilastri di tutta la letteratura alla base dell’architettura. Riferimenti all’ambivalente status del deretano, ora oggetto di venerazione, ora associato al senso di colpa, si ritrovano nelle opere d’arte e nell’architettura dei surrealisti, ben informati (almeno ipoteticamente) sulle teorie della psicanalisi. Salvador Dalí, ad esempio, compone inni al “posteriore” della propria compagna Gala e, prendendo a modello quanto realizzato da Man Ray, immortala “lo splendido deretano” della moglie in una serie di immagini, tra cui un dipinto del 1945 in cui Gala si trasforma in un tempio antropomorfo, sostenuto da una colonna vertebrale architettonica, con i capelli che diventano volute e con un’entrata sul retro. Circa nello stesso periodo, in Italia, Carlo Mollino realizza le proprie composizioni fotografiche, in cui modelle in carne ed ossa si affiancano ad elementi architettonici, il tutto caratterizzato da un’attenzione eccessiva per la parte posteriore dell’anatomia femminile. Dalì e Mollino, con i loro esperimenti pittorici non mostrano esclusivamente quale sia il potenziale, dal punto di vista architettonico, del “lato B” umano, ciò che è ancora più importante ci dimostrano come sia possibile ribaltare la mentalità antropomorfa in architettura. Nei modelli strutturali eroticizzati presentati dai due artisti riemergono infatti tutte quelle analogie tra strutture architettoniche e cavità umane che erano state soppresse dalle iterazioni umanistiche della figura vitruviana. Benché piuttosto cruda, la messa in mostra monumentale del deretano da parte di Dalì suggerisce che il lato da cui si dovrebbe osservare il proprio oggetto del desiderio è quello posteriore, da questo punto di vista infatti, il soggetto rimane completamente aperto poiché si rifiuta di mostrare qualsivoglia proprietà enigmatica.
Ancor prima dei padiglioni antropomorfi con accesso sul retro di Dalì, si ricordano gli edifici di Le Corbusier, abitazioni che presentano una relazione ancora più complessa tra fronte e retro, criticate e definite da Scultze-Naumburg “non oggettive”. Nell’analisi di Colin Rowe e Robert Slutzky, Villa Stein, costruita a Garches nel 1926, si presenta al visitatore con una facciata quasi ermetica, pervasa da quel senso di equivocalità che caratterizza un’entrata di servizio, il retro dell’abitazione si apre invece sul paesaggio10. Esattamente come avviene, nello stesso periodo, nelle abitazioni di Adolf Loos, le ville di Le Corbusier accolgono il visitatore mostrando il proprio lato posteriore; le parti solitamente private divengono dunque pubbliche a diffondere il concetto di pubblico privatizzato11. L’esempio finale fornito da Rowes e Slutzky presenta un ribaltamento dei canoni ancora più ambiguo: nel progetto di Le Corbusier per il Palazzo della Società delle Nazioni a Ginevra (1928) il visitatore immaginario doveva essere disorientato, in modo creativo, dalla proiezione del retro dell’edificio in diversi punti d’accesso. Gli aspetti atavici di tale progetto incompiuto di Le Corbusier (anch’egli estimatore di giunonici deretani femminili) mettono in discussione non solo la logica stessa legata alla frontalità, ma persino la centralità del soggetto fenomenologico che, in una situazione letteralmente di “smarrimento” diviene decentrato “fenomenalmente”. Può sembrare ironico che l’apparente soluzione di tale sconvolgimento formale sia stato il riemergere del modello circolare o concentrico, di un edificio in cui vige l’approccio scultorio del “costruire tutto intorno”, approccio che mina la stessa distinzione tra fronte e retro; ne sono un esempio la nota villa Spezzotti di Marcello d’Olivo (1957) o la composizione quasi rotazionale (sia su asse orizzontale che verticale) progettata da Le Corbusier per la cattedrale di Ronchamps (1954). Grazie anche alla posizione, che li vede elevarsi liberamente in mezzo al paesaggio, gli edifici di questo tipo rappresentano una forma di “serpentinismo” architettonico analogo a quello che si ritrova in pittura e nella scultura, ovvero tentano di mostrare tutti i propri lati in una immagine unica. Anche edifici inseriti in un fitto tessuto urbano tuttavia, possono presentare un lato frontale identico a quello posteriore, si pensi al grattacielo Pirelli di Gio Ponti a Milano, tali edifici si caratterizzano per una equanimità “fissa” della forma che li rende elementi autonomi rispetto al contesto urbano, di cui tuttavia rimandano il riflesso.Ecco dunque che l’attenzione per il “retro” si sposta dalla sfera personale al contesto civico, incarnando il paradosso di un’identità anonima che, in realtà, diviene sinonimo di quella muta trasparenza o della fisionomia silenziosa che caratterizza gli edifici della corporate architecture. Un altro momento di svolta, anch’esso “ironico”, avviene verosimilmente nell’intervallo del postmodernismo, alla fine degli anni ’70, primi anni ’80. Le facciate quasi neoclassiche degli edifici corporate di Michael Graves e Philip Johnson indicano un ritorno ad una frontalità iconica; è come se l’architettura voltasse le spalle al passato modernista e lo facesse indossando una maschera, una superficie ornamentale reversibile dunque, che rende impossibile comprendere quale lato dell’edificio si stia effettivamente osservando. La logica della maschera reversibile sembra estendersi anche agli edifici altamente scultorei degli ultimi due decenni, i quali, così come avevano fatto gli edifici “a tutto tondo” degli anni ’50, vanno apparentemente a minare la distinzione tra fronte e retro a favore di una continuità ritmica. Edifici come il Fisher Center for Performing Arts del Bard College (2003) progettato da Frank Gehry tuttavia, mostrano una netta distinzione tra fronte e retro. L’elaborata facciata scultorea in metallo pensata da Gehry infatti, è in netto contrasto con la parte posteriore dell’edificio che, realizzata in cemento, ricorda l’entrata di servizio di un centro commerciale. Realizzato dieci anni prima, il Columbus Convention Center di Peter Eiseman in Ohio (1993), che si distingue per la sua planimetria complessa ed è stato pubblicizzato sulle riviste di architettura utilizzando principalmente foto dall’alto, presenta una serie di facciate prive di finestre, a simulare il caratteristico retro “cieco” degli edifici, memore delle critiche mosse, negli anni ‘20, da Schultze-Naumburg alle facciate laterali irregolari. Sebbene nettamente differenti, gli ultimi due esempi riconoscono il retro come “retro” e, nel progetto di Eisenman, tale elemento riconosciuto (sconosciuto?) nasconde la parte frontale dell’edificio. In questo caso dunque, ci si trova di fronte ad un retro ben esposto, totalmente smitizzato, libero da quelle qualità enigmatiche che gli venivano attribuite dai surrealisti e il cui potere di seduzione tuttavia, deriva ancora una volta dal suo essere nudo. Un uso ancora più provocatorio del “posteriore” lo si ritrova probabilmente nell’architettura “che parla” di Diller e Scofidio; in questo caso l’oggetto dell’analisi non è un edificio ma un libro, ovvero la raccolta di testi e progetti del 1994: Flesh. Il libro presenta in copertina l’immagine di una natica femminile e di una maschile a formare un unico fondoschiena, la cui fessura si trova esattamente sul dorso del volume.
Il libro viene aperto da dietro, la copertina crea infatti un’entrata sul retro per il lettore. Il primo articolo scritto dagli architetti inizia con una definizione, in termini legali, dell’area delle natiche, estrapolata da un’ordinanza sui limiti dell’esposizione di tale parte in pubblico, emessa nello Stato della Florida. Il testo è accompagnato dall’immagine di un fondoschiena “inguainato” in un paio di hot pants in poliestere lucido, seguono (nella pagina successiva) quattro foto in cui vengono mostrate, con tanto di dettagli grafici, le fasi di un intervento estetico per l’inserimento di protesi in silicone alle natiche14. Ecco dunque quale sarà il futuro del fondoschiena, un “lato B” artificiale che preannuncia una serie di analogie alternative, a livello antropomorfo, tra la tecnologia applicata al corpo umano e l’architettura; una protesi che diviene allegoria di quell’iniezione di ironia di cui l’architettura ha bisogno per ritrovare la propria direzione, anche quella del ritorno. Il tornare o il guardare indietro, che sia osservare da dietro o guardare il retro, costituiscono un modo per smascherare principi metodologici ormai stantii e mentalità istituzionalizzate, imparando, nel contempo, ad avvicinarsi all’architettura da un angolo diverso. In fondo, non potrebbe essere questo il segreto della bellezza, compresa quella architettonica?