area 112 | beauty of built

architect: Christian de Portzamparc

location: Rio de Janeiro, Brazil

year: 2011

Barra de Tijuca è un nuovo agglomerato urbano alla periferia meridionale di Rio de Janeiro, costituito da una lunga distesa uniforme priva di forti accenti architettonici e contrassegni urbani.
La struttura del sito è caratterizzata dall’incrocio di due grandi arterie di scorrimento. Posta all’interno dell’intreccio stradale concepito da Lucio Costa, la Cidade da Musica si troverà esattamente nel cuore del nuovo centro urbano. L’edificio è collocato in posizione sopraelevata su una vasta terrazza posta a 10 metri di altezza sopra il giardino progettato da Fernando Chacel. La terrazza funge da spazio pubblico, è il luogo di raccolta da cui si accede all’interno, che ospita sale da concerto, sale cinematografiche, sale prove, un ristorante, una biblioteca, punti vendita e la sede dell’Orchestra Sinfonica Brasiliana. La Cidade da Musica si presenta come una grande casa a guisa di palafitta, dotata di un’ampia veranda che si apre sul giardino e i suoi laghetti, fra zone ombrose e alberi. È altresì un omaggio ad un archetipo dell’architettura brasiliana. Fra i due piani orizzontali del tetto e della terrazza si susseguono i volumi delle sale concerto in un gioco di pieni e vuoti. Il progetto funge da contrassegno urbano, simbolo pubblico che si staglia sul pianoro circostante godendo di grande visibilità. L’architettura rispecchia altresì gli splendidi profili montuosi della Sierra Atlantica e la linea del mare. Grazie a queste caratteristiche, l’opera si impone quale punto di riferimento imprescindibile per l’area metropolitana di Rio.

La Cidade da Musica a conversation with Christian de Portzamparc

Laura Andreini: La Cidade da Musica di Rio de Janeiro segue dopo molti anni uno dei suoi primi importanti progetti come la Città della Musica di Parigi, quali le differenze tra i due progetti e quali le influenze e i rimandi? Se infatti Parigi ricordava in pianta l’idea di uno strumento musicale quest’ultimo lavoro appare più complesso; se Parigi era, nella scelta dei materiali, più sofisticato, Rio è più genuino e unitario, il primo un percorso, quest’ultimo una sorta di grande piazza coperta. Possiamo provare a descrivere i due progetti tra assonanze e diversità in modo da comprendere evoluzione e continuità nel suo lavoro?
Christian de Portzamparc: A Parigi, la Cité de la Musique della Villette è costituita da due isolati aperti su ciascun lato della Fontaine aux Lions, alla Villette. L’ho concepita seguendo due programmi distinti: da una parte l’insegnamento, con il Conservatoire National, dall’altra gli spazi aperti al pubblico (sala concerti e museo). E proprio lì bisognava realizzare l’ingresso al Parco, quello della Grande Halle, su una sorta di piazza pubblica tra l’avenue Jean Jaurès e il Parco. A Rio, il programma prevede una “Città delle Arti“ e il sito è un’immensa piana urbana, che si estende tra mare e montagna. Ci si trova al centro di un immenso snodo di strade urbane a scorrimento veloce, nel cuore di una enorme nuova conglomerazione, dove non esiste alcun punto di riferimento. In questo caso, è necessario un progetto che sia visibile: si tratta di realizzare un simbolo pubblico. E ho capito subito che bisogna elevare il progetto, perché da lì si possano vedere il mare, le montagne, la città, dal momento che a livello del suolo si vedono solo automobili. Perciò dovevo accogliere il pubblico a dieci metri d’altezza. Si è dunque imposta l’idea di una ampia terrazza esterna, che distribuisce tutte le attività e accoglie il pubblico. Sin dai primi piccoli plastici della Cidade des Arts di Rio, l’idea era quella di collocare le varie funzioni in volumi distinti, separati e isolati acusticamente, e di installarli in “levitazione“.  La Cité de la Musique di Parigi era già stata concepita in questo modo, secondo una dialettica tra i volumi pieni e chiusi delle sale, e i vuoti luminosi degli spazi comuni, aperti. Per ragioni di isolamento acustico, le sale dovevano essere necessariamente dei gusci chiusi, di cemento, perciò anche in questo caso si stabilisce una continuità con Parigi. La novità, dunque, è la terrazza alta, con il tetto posto a trenta metri. L’aria, la luce e l’ombra dovevano quindi poter passare tra la terrazza e la copertura che vanno a formare una veranda, tipico archetipo brasiliano, risposta al clima locale. L’idea è quella dell’accoglienza, dell’apertura, del forum: salire su questa grande emergenza architettonica seguendo rampe dolcemente inclinate, e attraversare i volumi chiusi delle sale. Le dimensioni delle sale hanno formato un complesso di circa 200 per 90 metri. La veranda è un belvedere su Barra da Tijuca, al di sopra di un giardino di mangrovie che verrà disegnato da Fernando Chacel. Ma dal punto di vista della “strategia urbana“, il tema del progetto di Rio è una risposta alle esigenze di Barra, questa nuova Rio. Si sa che ogni grande città si comprende e si vive attraverso dei punti di riferimento. A questo proposito, la Rio tradizionale, nei suoi quartieri centrali, nel suo cuore ‘glamour‘, è favorita in modo straordinario dalla natura, con la sua laguna, le sue baie, le sue montagne. Tra questi grandi elementi, che sono altrettante protezioni, troviamo sempre un orientamento. Accade il contrario nella nuova Rio Ovest che è Barra da Tijuca, dove il paesaggio svanisce, le montagne si allontanano e la lunga piana non offre eventi né sorprese. Si perde questa linea di cielo unica, disegnata dalla danza, così particolare, sincopata e languida, che la struttura geologica ha impresso alle montagne. Lungo questa immensa piana urbana, lungo questa serie ininterrotta fatta di torri che ospitano appartamenti e uffici, di condomini e di centri commerciali, non ci sono punti di riferimento né edifici pubblici. Perciò ho ricevuto reazioni stupite dai carioca, per aver scelto Barra: ”Barra non è Rio”, mi dicevano, non vedendo oltre il loro naso… Ma Barra è immensa, è la nuova Rio, è un’urbanizzazione che pone molte questioni, con dei grandi complessi residenziali chiusi (tipo cités, ndt), ed è una città che è cresciuta troppo in fretta; è una delle urbanizzazioni più impressionanti, per la velocità con la quale si è sviluppata: all’inizio degli anni Ottanta non c’era nulla.
Oggi, per Rio è fondamentale creare una qualità urbana a Barra. La Cidade è visibile e dalla Cidade, a dieci metri dal suolo, si riscoprono Rio, le montagne, il mare. Barra diventa bella. Occorreva un simbolo pubblico, e solo un oggetto monumentale sul quale viene voglia di salire, poteva rispondere alla grandezza della piana urbana Baixada. A Rio, più che a Parigi, è esaltata l’unità del volume complessivo, ma anche la molteplicità aperta del suo interno.
L.A.: Molte delle sue opere precedenti alla Cidade da Musica, si caratterizzano per la scelta accurata e sapiente dei materiali e degli aspetti tecnologici costruttivi, come l’ambasciata francese a Berlino. Il progetto, qui presentato, è invece, prevalentemente realizzato in calcestruzzo; quanto ha influenzato, nella scelta dei materiali, il fatto di lavorare in Brasile?
C.d.P: In effetti, in questo intervento ho proseguito il lavoro attorno alla nozione di ciò che ho chiamato “il mattone forato“, come per il progetto di Montreal. Si tratta di blocchi in cui si trovano degli spazi vuoti. L’ho definito “mattone forato” perché viene dalle sculture che facevo quando ero ragazzo: andavo a prendere in una fornace dei mattoni che non erano ancora stati cotti per scolpirne, per sottrazione, l’interno. Questi mattoni erano vuoti, contenevano sei “canalette“, sei cavità cilindriche, che li attraversavano per lungo, cavità che io collegavo e amplificavo.
Forse ero influenzato da quelle sculture di Etienne Martin che avevo potuto vedere, chiamate “demeures“, o da certe sculture di Henry Moore. Questa idea di volume penetrabile, ovviamente, ha molte altre referenze nel mondo dell’architettura e della scultura. A Rio, pensavo al progetto che avevo presentato al concorso per la biblioteca di Montreal, nel 2000. Una sorta di paesaggio interiorizzato: al posto di una piazza atrio, a Rio avevamo una piazza veranda, un grande spazio orizzontale contenuto tra le due grandi superfici che formano la terrazza, a dieci metri d’altezza, e un piano di copertura a trenta metri. Questo volume vuoto, occupato dai volumi pieni delle sale, è un blocco attraversato da trasparenze, come accade per il progetto della biblioteca di Montreal.
Un’altra caratteristica di questo progetto è la sua dimensione eccezionale: a ciò mi avevano preparato alcuni lavori sui quali abbiamo lavorato in passato, costruiti o no, come quello del museo di Seul del 1996. Bertrand Beau li chiama i projets-table, “progetti-tavola“. Ma si sa che per governare l’impatto delle grandi dimensioni c’è un lavoro di armonizzazione con il corpo umano, ritrovare l’intimità e aprirla alla grandezza; è un processo molto fisico. Si dialoga con le montagne. Per l’unità, la matericità della costruzione, si imponeva l’unità dell’utilizzo esclusivo del cemento. Qui era possibile. A Parigi mi sarebbe piaciuto realizzare tutto in cemento ma sapevo che il materiale si sarebbe sporcato moltissimo e non sarebbe stato molto bello. Ho subito capito che i grandi aggetti che desideravo realizzare per sollevare tutta questa struttura sarebbero stati possibili solo con la ”precompressione”, la tecnica che Freyssinet ha portato in Brasile. Solo il cemento precompresso consente che il solaio-terrazza e la copertura siano così sottili e che gli aggetti da trenta a trentacinque metri abbiano uno spessore di 150 cm, mentre con il cemento classico saremmo stati obbligati a realizzare dei solai tre o quattro volte più spessi, e assai brutti.
Inoltre, per evitare di avere decine di pali a sostegno della veranda, sono giunto all’idea che le stesse vele che reggevano le sale in alto, sarebbero state portanti allargandosi a partire dal basso.
È un’idea che mi è venuta mentre ero in aereo, tra il cantiere del Lussemburgo e quello di Berlino. Le vele potevano partire da terra e diventare delle mensole giganti, sostituendo i pali che avrebbero attraversato la terrazza, con pochi punti di appoggio a terra concentrati. In modo molto naturale, le vele non erano più travi ma muri portanti, che andavano a formare le mensole giganti. Ho disegnato questi gusci, incurvati e cilindrici, chiedendo a Joseph Attia il suo parere relativamente alla stabilità e alle dimensioni. Poi, a Rio, Bruno Cantarini e Carlos Fragelli hanno calcolato le strutture. Ci sono stati pochissimi cambiamenti. Successivamente abbiamo fatto molteplici prove con la collaborazione di Andrade Guttierez-Carioca, e con le aziende che sono riuscite a realizzare le colate di questi immensi gusci con una grande precisione su una lunghezza di 120 metri, grazie all’uso di casseforme scorrevoli!
Qui le forme sono abitate dai tracciati delle forze, dal calcolo statico. Solo le possibilità offerte dall’attuale calcolo informatico ci hanno consentito di farlo. Le vele non sono in posizioni regolari
e simmetriche, come nelle strutture classiche in cui si ripete un arco o un colonnato di base. La dimensione dei gusci dipende dalla grandezza delle sale e dalla loro posizione. Per una struttura di questo genere è necessario il calcolo di tutti i momenti di flessione in tutti i punti e, ricorrendo al solo calcolo umano, questa operazione richiederebbe un tempo infinito. È il motivo per cui una scultura-struttura come questa si può costruire solo oggi. Così, la riflessione e il disegno sono andati di pari passo con la ragione statica. Più di recente, ho pensato al progetto fatto per
la Disney nel 1988. È un omaggio a Rio. Quella linea delle montagne così particolare era là, come citazione sfasata, mentre la Cidade definisce la sua propria geometria e il suo proprio mondo con i suoi gusci che entrano in relazione con la montagna e il suo profilo. Sono sempre stato affascinato dalle linee che tracciano il profilo delle montagne di Rio. Sembrano proteggere la città con potenza e grazia. A Barra, il dio della montagna mi ha fatto cenno da lontano. Credo che egli abbia guidato il progetto. Inizialmente trovavo il sito impossibile ma dal punto di vista urbanistico è una scelta forte.
L.A.: Qual è stato il rapporto con le imprese che hanno realizzato l’edifico e come è stato affrontato lo sviluppo e il controllo del cantiere di un opera così importante dimensionalmente?
C.d.P: Abbiamo creato una equipe brasiliana;  Betrand Beau, che aveva diretto il progetto della Cité de la Musique di Parigi, Nanda Eskes, carioca che aveva lavorato nello studio di Parigi, Clovis Cunha e Ana-Paula Fontes hanno formato una squadra fondamentale e insieme a questa mi hanno accompagnato anche Duccio Cardelli e Christophe Escapasse, prima a Parigi, poi a Rio.
Con Nanda, abbiamo scelto le diverse figure ”chiave”: Bruno Contarini e Carlos Fragelli per la struttura, Xu Yaying per l’acustica insieme a Ze Nepomulceno. Sul cantiere, la gestione degli appalti e la supervisione spetta a Rio-Urb, l’organismo cittadino responsabile delle costruzioni. L’impresa Andrade Guttierez-Carioca ha fatto un bel lavoro, con loro abbiamo fatto molti test preliminari per trovare il tipo ideale di casseforme. La mia responsabilità d’architetto in questo progetto è fissata dal contratto in questi termini: realizzare i disegni e i dettagli del progetto, verificare i progetti di studio delle imprese e seguire attentamemente la loro esecuzione. È sufficiente. Per una volta, non ho dovuto avere a che fare con  i costi e il calendario…Purtroppo, il cantiere in corso d’opera è stato ritardato di due anni, a causa di una difficile gestione dell’erogazione dei fondi da parte della municipalità. Nel 2006, questo ritardo ci ha lasciato il tempo di prepararsi molto bene e di verificare progetti ed esecuzione. Alla ripresa, nel 2008, si è verificata un’incredibile accelerazione: fino a 3000 operai sul cantiere contemporaneamente, un record.
E tutto questo in buon ordine, senza incidenti, con un controllo perfetto. Da allora, questa gestione ha dato luogo a molteplici critiche nei confronti  della nuova municipalità. Oggi, restano le opere interne da ultimare e molti elementi da correggere. Malgrado tutto, l’edificio è lì presente.
L.A.: La cultura e la tradizione della modernità di stampo brasiliano, a partire dalla sapiente opera di Oscar Niemeyer, quanto ha influenzato la sua idea e la costruzione concettuale del progetto?
C.d.P: In fondo le immagini di Brasilia viste a quindici anni erano solo una scintilla, e dopo, negli anni Ottanta, Elizabeth mi ha fatto scoprire la portata della modernità brasiliana che, dagli anni Quaranta agli anni Sessanta, fu la più creativa al mondo. Di fronte a questa eredità, mi sento libero. Ho una forte idiosincrasia: in questo progetto, non ho mai cercato, neppure un solo istante, un ”fare brasiliano”; ciò mi avrebbe bloccato. Ma c’è il cemento, il clima, il mio rapporto con il luogo, la storia, la cultura tecnica – tanto a New York quanto a Berlino o ad Almere –, che fanno sì che
io non abbia trovato una soluzione unica. E se si legge un omaggio a Oscar Niemeyer ad Artigas, o a Reidy, ciò accade a mia insaputa, e forse è per questo che può funzionare ed è un incontro felice. Ed è sempre un po’ una lezione brasiliana quella di servirsi del cemento per esprimere un movimento, una levitazione.
L.A.: La bellezza del costruire è una sorta di elogio dell’architettura come disciplina che si completa nella realizzazione; con la costruzione della Cidade da Musica sente di aver raggiunto una architettura intesa anche come opera di arte visiva, istintivamente votata alla ricerca di un’estetica che si riverbera nel piano della forma e dell’immagine dell’edificio?
C.d.P: D’altra parte, ci sarebbe ancora molto da dire sulle sale da concerto. Ma sarà per la prossima volta.

Christian de Portzamparc was born in 1944, in Casablanca. In the nineteen-sixties, he studied painting and architecture at the “Ecole des Beaux Arts” in Paris, and worked with Eugene Baudoin and Gorge Candilis. In 1965 through to 1970, he continued his meditations and critical analyse of thereigning architectural doctrines and theoretical structures. In 1995, he created the LVMH Tower, in New York City, for the HQ of LVMH: USA, a project which gained unanimous critical acclaim. He became the first French architect to gain the prestigious “Pritzker Architectural Prize” in 1994, at the age of 50. CdP is concerned with research, he avoids pure speculation. For him, architecture is concerned with the quality of life. Within this realm, aesthetics themselves are conditioned by ethics, and he maintains that we have too often dissociated one from the other. His projects are drawn from dreams, reflection and from that state of real world awareness, of the concrete reality, that incorporates large scale perceptions and the observation of minute detail, as well as more regulation bound considerations that must be respected, container or worked around. Today CdP continues his reserarch work on and through projects that are under way around the world, his freshness, the plasure and the passion intact, with, above all, the same perfectionism that has characterised his work from the beginning. For 2006, the “Collège de France” has created a 53rd chair, that of “Artistic Crreations”, and has called on CdP to be its first occupant.