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Moroso leather system. Photo by Valentina Muscedra

Marco Casamonti: Guardando i materiali Moroso, dalle pelli ai tessuti, si vede che non è una scelta casuale, ma che i colori sono pensati. Quanto il colore entra all’interno del progetto e, banalmente, quanto vi impegna la sua ricerca progetto per progetto?
Patrizia Moroso: È sempre stato per me normale, estremamente logico, vestire le cose che creo in un modo non indifferente, ma appropriato a quell’oggetto. Ho cominciato a lavorare in azienda nel 1986 collaborando con Massimo Iosa Ghini, che era un ragazzino di 22 anni, studente dell’Università di Firenze, appassionato di design e di fumetti. Questo modo di cominciare è stato influente sin dall’inizio. Eravamo abituati a pensare ai nostri oggetti come dei personaggi dei fumetti, come degli essere viventi, con anima, spirito e carattere. La collezione di Massimo era quindi ispirata al futurismo e allo streetlife, i suoi due grandi pensieri, dai quali poi lui ha immaginato la sua corrente di pensiero chiamata “bolidismo”, che rappresentava tutto ciò che era veloce, che aveva un segno forte e istintivo, simbolo della traccia della velocità. È chiaro che i colori erano molto ispirati al Futurismo, erano molto freddi come il blu petrolio, e a quelli dell’America degli anni ’40 e ’50, i colori folli, come i rosa e i gialli. Era chiaro che anche la superficie doveva essere un po’ lucida e quindi c’era molto uso della pelle: pelle e tubi di ferro ricordavano molto le avanguardie e quindi il Futurismo, anche se dalle avanguardie prendeva i materiali e i colori ma non le forme. La prima collezione era quindi molto forte e contraddiceva totalmente le avanguardie storiche, del Bauhaus, ecc...
Si trattava di creare un mondo e non fare solo un oggetto. Per creare un mondo abbiamo bisogno di tutto: delle forme, dei rivestimenti e dei colori, che sono importantissimi per dare senso ai prodotti. Nel 1988 ho lavorato con Toshiyuki Kita, famoso designer giapponese e abbiamo fatto un pezzo, il Saruyama, che è stato un progetto molto più longevo rispetto a quelli di Iosa Ghini. Pensa che Yoshiyuki mi ha portato un modellino di gesso e mi ha detto che era molto prezioso perché era un modellino della sua tesi di laurea (del 1968) e che era per lui l’archetipo di tutti i suoi lavori poiché quando pensava ad un nuovo progetto si rifaceva sempre a quello, che mai nessuno aveva voluto produrre, ma che però lui amava tanto.
Io pensai che era bellissimo e ho voluto produrlo subito. Nel Saruyama, i colori sono fondamentali. Io già da allora ero una fanatica del Giappone e quando questo oggetto è nato, se c’era un colore che simboleggiava il Giappone, quello era il rosso, era quindi un colore concettuale. Quindi, pur essendo un oggetto organico, era anche un oggetto di Kita e che veniva dal Giappone. È stato rosso per molto tempo, ma pian piano ha assunto anche i colori della terra e della sabbia: ha avuto tanti grigi e tanti marroni.
La parola Saruyama significa “montagna delle scimmie”, ed è il simbolo di come le scimmie, ma anche gli umani, siedono su una roccia in vari modi: era una specie di roccia che poteva avere un angolo sul quale star seduti nella posizione del loto per la meditazione (come su una sedia), con una zona dove poter appoggiarsi per leggere oppure stendersi completamente. Tutte queste abitudini sono ben visibili se tu chiami un gruppo di bambini e tutti stanno su questa roccia, la abitano: ci insegnano che prima di avere sedie e poltrone ci sedevamo su un pezzo di roccia e di legno.
M.C.: Ti confesso che sono un fan del Saruyama Island e penso che, quando lo scegliamo per un progetto, non si può fare a meno di utilizzare il colore, nel senso che queste rocce o sono monocromatiche e quindi tutte uguali, oppure necessariamente dobbiamo fare su di esse un lavoro di composizione cromatica.
P.M.: Questo è proprio il senso profondo di questo progetto, che si riferisce al design organico, non a quello americano degli anni ’50, ma a quello giapponese. Come tu sai, in Giappone, non esistono oggetti formali su cui ti siedi.
All’interno di una casa fatta dall’essenziale geometria, che ha delle regole e delle proporzioni, ti siedi a terra o eventualmente su un piccolo cuscino, mentre guardi magari fuori un giardino zen con le rocce disposte ad arte in uno spazio naturale. Saruyama è quello che vedi fuori, è la natura controllata, sistemata per essere bellissima. Rappresenta il rapporto tra l’architettura e la natura. È chiaro che nel momento in cui tu lo scegli per un progetto automaticamente lo vedi inserito come se fosse nel paesaggio: per esempio se sono dei pezzi di roccia sceglierai dei grigi, se invece li immagini come dei pezzi di legno, gli darai dei bruni oppure possono essere più pop e avranno dei colori più sintetici.
M.C.: Nel caso della Cantina Antinori per esempio, lavorando con i colori, avevamo bisogno di introdurre degli elementi ancora naturali ma che potessero scardinare l’armonia assoluta di essa
e introdurre degli elementi nuovi.
I colori della collezione del Saruyama Island, ma anche dei tessuti che voi avete nelle varie collezioni, in fondo sono in armonia con la natura (i pastelli, i colori, ecc) ma al tempo stesso sono innovativi e introducono elementi forti. Io li ho utilizzati perché nell’armonia complessiva delle terre potevo introdurre liberamente per esempio delle rocce colorate. Ecco, noi abbiamo lavorato così perché io penso che il colore sia molto importante, ma non ne faccio mai un uso smisurato.
Fra tutti i designer con cui avete lavorato, Massimo Iosa Ghini, Toshiyuki Kita, ma anche Ron Arad o Ross Lovegrove, chi è colui che ha più posto attenzione al tema del colore come elemento del progetto?
P.M.: È difficile dirlo perché veramente per noi è sempre stato con tutti un elemento molto importante. Per esempio Ron Arad, già agli inizi della nostra collaborazione nel 1989, portava sempre con sé il matitone rosso e blu del muratore: i colori della sua prima collezione quindi erano rosso, blu, nero o grigio (colore dell’acciaio lucido) ed escludeva tutti gli altri. Lui ha espresso così la sua forte volontà del bi-tono. Con Ross Lovegrove invece, con il quale non abbiamo lavorato molto, è nata la Supernatural, che doveva avere dei colori che richiamavano la natura ma anche un’essenza di astrazione. I colori li abbiamo creati insieme, scegliendoli poi tra gli stampi. È stato immediatamente chiaro a entrambi che non era una sedia che poteva avere colori puri. Proprio per questa sua forma naturale, come se fosse una foglia, avere un colore astratto dalla natura le conferisce un effetto scoordinato e banale.
M.C.: La Supernatural è un oggetto un po’ gelatinoso che chiede una sua trasparenza, una sua profondità data dalla materia stessa. Questa sedia è quasi un ossimoro, un oggetto di plastica ma naturale. Io per esempio sono molto appassionato al color caramello, però anche nera è bella perché il nero è assoluto, è mancanza di colore. P.M.: Pensa che io ho voluto molto la Supernatural nera, perché assomigliava ad un pezzo di carbone rotto e perché non esisteva ancora sul mercato una sedia di plastica nera. Il reparto commerciale sosteneva che non l’avremmo mai venduta, così come pensavano della versione con i buchi, e invece, a 4-5 mesi dall’inizio della vendita, valutando i consumi ci siamo accorti che la sedia più venduta era quella nera con i buchi sullo schienale.
Abbiamo fatto molte prove e quelle che io mi sono messa in casa sono proprio quelle considerate “scarto di produzione”. Passando da un colore all’altro con le stesse macchine, si vede come si mescolano i colori nella plastica bollente e questi colori si vedono sui primi venti pezzi, sono un po’ cangianti. A volte non è stato solo un caso, ma ho proprio progettato delle sedie dai colori cangianti, facendo stampare tre colori in sequenza, in modo da avere il caramello con il turchese, l’arancio con il nero, ecc. Ovviamente questa non è la sequenza normale, perché si parte sempre dai colori chiari fino ad arrivare a quelli scuri. Queste sedie, dai colori mescolati, sono per me quelle più naturali, perché mostrano come si distribuisce la materia plastica in uno stampo così fine como quello dello schienale della sedia.
M.C.: Fra le tante aziende leader nel mondo per la qualità del design, ritengo che Moroso sia quella più interessante per quanta riguarda l’attenzione verso il colore. Io ad esempio sono affascinato dalla vostra collezione di pelli alla quale faccio sempre riferimento, perché in realtà il rosso non è il rosso, l’arancio è un arancio particolare, il giallo non
è giallo. Queste scelte immagino che derivino da te e non dalla collaborazione con un designer.
P.M.: È una scelta di base, come del resto tutta la selezione tessile che progredisce in due modi: da una parte con il progetto, quindi creazioni apposite per nuovi modelli che hanno bisogno di un linguaggio; viene definito di cosa l’oggetto sarà vestito, se sarà chiaro, scuro. Tutte scelte che si fanno tra il designer, me e Giulio Ridolfo che lavora con me da molti anni, che è un amico ma anche un ragazzo che lavora proprio sul colore.
Quando ho iniziato a lavorare con lui, aveva concluso un rapporto di anni con Della Valle facendo i colori delle calzature. Quindi la prima cosa su cui abbiamo lavorato insieme è stata proprio la collezione delle pelli.
M.C.: Voi fate una statistica dei modelli che hanno più o meno successo sul mercato, anche in base ai colori?
P.M.: Certo. Chiedendo le statistiche al nostro webmaster, io posso sapere per esempio qual è il tessuto che più viene richiesto, che è il panno di lana rosso.
M.C.: Se tu hai il monitoraggio delle statistiche, si sente nel gusto del pubblico la tendenza verso
i colori della natura e la consapevolezza di andare verso un mondo in armonia con l’ambiente?
P.M.: Il panno rosso magari era una cosa di qualche tempo fa: il rosso era il nostro simbolo, il nostro colore sociale. Sono convinta comunque che
i tessuti che superano le vendite sono proprio
i panni e le lane perché sono i tessuti che possono avere i colori più profondi. La qualità tessile
e coloristica a seconda della fibra con cui lavori può avere più o meno intensità: il cotone per esempio è un tessuto freddo, è difficile da usare almeno che tu non abbia una gamma di prodotti come gli sfoderabili.
Ovviamente dobbiamo pensare anche ai paesi del sud del mondo, che ci chiedono dei tessuti freschi e non la lana, ma non sanno che il fresco di lana è la cosa più fresca del mondo, perché si usa anche nel deserto.
M.C.: Ti confesso che io sto imparando da un paio di anni, da quando vi ho conosciuto, ad usare il colore che prima rifiutavo totalmente. Ho iniziato a toccare le vostre bellissime mazzette di colore ed ho capito che era un elemento del progetto. Per esempio nell’auditorium della Cantina Antinori ho scelto di non usare le poltroncine di un unico colore come avrei fatto prima, ma ho pensato ad un vigneto con le foglie di varie sfumature di verde, secondo la luce del sole, e quindi ho deciso di utilizzare sei o sette toni di verde. A tal proposito, ci sono degli oggetti che avete messo in produzione e che poi una volta visti con un altro tessuto o un’altra tonalità, hanno avuto un apprezzamento diverso, tipo una sedia che, vista in rosso poteva sembrare dura e arrogante e vista in un altro colore diventava morbida e suadente? In che modo quindi il colore influisce uscendo dal prototipo?
P.M.: Ricordo che la Fjord di Patricia Urquiola, che con una piccola trasformazione è diventata la seduta del tuo auditorium, quando è uscita aveva bisogno di essere caratterizzata. Per la sua presentazione, nel 2000, Patricia l’ha voluta in rosso e nero e in bianco e nero perché il doppio guscio, uno interno e uno esterno, doveva essere messo in evidenza da due colori in contrasto, più assoluti possibile. Ed è stato così per lungo tempo.
È chiaro che noi ci siamo stufati quasi subito
e abbiamo iniziato ad usare i marroni con i verdi, cercando sempre l’armonia dell’abbinamento come succede in natura. Questo oggetto è diventato un simbolo degli accostamenti naturali: per esempio anche le cuciture sono in tono, come se fosse una foglia con le sue venature.
M.C.: La cosa che mi ha stupito nelle poltrone per la Cantina Antinori è la fatica che ho dovuto fare per scegliere tutti i colori per il guscio esterno, quello interno, le cuciture, la base. Ho scoperto che anche la cucitura è importante, se è in tono o in contrasto, perché mette in evidenza le linee di forza con le quali la pelle si attacca.
P.M.: Il basamento e la cucitura vanno insieme, un po’ come il picciolo e le vene interne. Ci sono delle cose che devono avere un’armonia e l’armonia suprema è in natura.
M.C.: Sarebbe interessante capire se c’è una geografia del colore, ossia se c’è un cambiamento della scelta del colore in base alla zona geografica. Capire come l’ambiente in cui si vive cambia il gusto di ogni persona.
P.M.: Io spesso vado giù in produzione e faccio le mie scommesse. Per esempio l’altro giorno ho visto una Fjord, in pelle gialla dentro e fuori, con la base nera e le cuciture nere e ho detto: questa è tedesca!
Parlando di preferenze, per quanti colori meravigliosi tu possa mettere sul mercato, il nero è quello più richiesto, anche se fortunatamente non a livelli degli anni ‘80-90 in cui la proporzione tra il nero e gli altri colori era dell’85% contro il 15%.
Se vedi una Supernatural rossa ti fa orrore, così come un pezzo di Ron Arad rosa. Il colore rispecchia sempre anche il suo ideatore, poiché quest’ultimo inevitabilmente mette sempre un po’ di sé nel progetto. Pensiamo per esempio al lavoro di Tord Boontje, che è stato prezioso e molto importante per la svolta dal design industriale un po’ rigido al pensiero più libero e senza tabù dell’uso del rosa, dell’azzurro, del verde, dei colori pastelli e dei fiori. I giapponesi di ultima generazione invece, rispetto a Kita, hanno assunto la priorità del bianco, si sono più “giapponesizzati”.
M.C.: Noi lavoriamo con le aziende attraverso un rapporto molto profondo, mai superficiale, si cerca di capire con chi stiamo lavorando, che filosofia produttiva e di vita ha. Son stato in Brasile una volta e ho trovato una Supernatural finta. Com’è che me ne sono accorto? La forma era perfetta, identica, perché lo stampo è stato copiato dai cinesi, ma il colore no: era di un arancio che la Moroso non l’avrebbe mai scelto e la qualità della plastica era più scadente. C’è quindi un’identità nell’accostamento dei colori nella vostra collezione, che prescinde dalla forma e dal designer, ma rappresenta il dna di Moroso.
La riconoscibilità è un elemento importante per un’azienda.

 

Patrizia Moroso, direttore artistico di Moroso. La Moroso nasce nel 1952 con l’intento di produrre e realizzare divani, poltrone e complementi d’arredo.
Quasi sessant’anni dopo la sua fondazione, si posiziona nell’haute couture del design internazionale e diventa un’azienda leader nel settore degli imbottiti. Grazie al contributo creativo di designers famosi, Moroso ha creato negli anni una collezione di prodotti iconici ed è diventata la prima azienda di imbottiti ad ottenere dal 1994 la certificazione per la qualità dei cicli produttivi (ISO 9001) e dal 1999 quella per la gestione del sistema ambientale ( ISO 14001).
Oggi Moroso ha 140 dipendenti, un fatturato di 30 milioni di Euro, filiali negli Usa, Gran Bretagna e Singapore.