area 108

Luis Barragan, House at Avenida de las Fuentes 12, Jardines del Pedregal, Mexico City, 1949-50. Photo Armando Salas Portugal © Barragan Foundation, Switzerland / ProLitteris / SIAE

Un mare di lava nera che disegna straordinarie figure, una vegetazione prorompente che sembra urlare la fertilità della terra vulcanica, l’acqua irreggimentata che zampilla incessante dalle fontane, la storia di migliaia di anni di questi luoghi, una natura che è cambiata ed ha cambiato il paesaggio. Circa sette milioni di metri quadrati frutto della potente eruzione del vulcano Xitle, duemila anni fa, una immensa distesa di roccia con tre strati distinti, risultato di tre diverse eruzioni. Superfici ruvide e lucide, innumerevoli tonalità di grigio basalto fino al nero che riflettono i verdi della vegetazione, le infinite figurazioni che si possono scorgere nelle forme della roccia. Questo è il Pedregal de San Angel, una vasta area a sud-ovest di Città del Messico considerata inavvicinabile quanto inospitale, prima del 1940 infatti nessuno aveva mai provato ad “addomesticarla”, e quando vi si avvicinarono era ancora un luogo un po’ magico, ricco di piante e specie animali indigene e rare. La storia di questa parte di città è affascinante perché è come se l’uomo l’avesse scoperta d’improvviso e contestualmente scelta come sito nel quale realizzare la nuova Città Universitaria e il grande complesso residenziale Jardines del Pedregal.
Lo spirito che pervase i promotori e protagonisti di queste due importanti realizzazioni, era innovativo, guardava al futuro ed alla modernità e, al contempo, era una affermazione forte e chiara dell’essenza del Messico come nazione con una sua identità e con sue caratteristiche fisiche, storiche e naturali nelle quali riconoscersi. La Città Universitaria, iniziata nel 1947, rappresenta il punto di avvio per la costruzione della nuova identità messicana ed anche, con Brasilia, una delle maggiori opere pubbliche della modernità, dal 2007 è iscritta nel Patrimonio Mondiale dell’UNESCO. Il masterplan, attraverso un concorso interno alla Scuola di Architettura, è affidato a Mario Pani ed Enrique del Moral, ma il complesso è il frutto della collaborazione di più di 100 tra architetti, ingegneri e paesaggisti messicani, che rappresentano diverse generazioni e diversi stili architettonici e artistici. La superficie è immensa e dall’orografia complessa, la composizione è impostata su un asse, orientato est-ovest, che si sovrappone perpendicolarmente all’asse più importante della città, l’Avenida de los Insurgentes, che attraversa Città del Messico da nord a sud; l’idea era che le tre aree che compongono la Città Universitaria si potessero costantemente relazionare al centro storico, cosa mai realmente avvenuta.
Lo Stadio Olimpico, e con esso la zona degli impianti sportivi che lo circondano, è stato il primo ad essere realizzato, ”nace del terreno con la misma lógica que los conos vólcanicos que forman el paisaje donde se encuentra” scrisse Diego Rivera, al contempo rappresenta la conclusione dell’asse, una sorta di cittadella sopraelevata che richiama l’architettura sacra dei templi. La seconda zona è quella più rappresentativa e simbolica, con al centro la grande explanada attorno alla quale sorgono le principali Facoltà e gli edifici amministrativi
e collettivi, le biblioteche, i musei; infine, la terza è dedicata al campus sportivo organizzato su piattaforme naturali e artificiali a diversi livelli. Fondamentale è il sistema della viabilità veicolare e pedonale che fa da ossatura all’intero complesso, su cui si innestano piazze, terrazze, giardini, patii, un complesso che oggi rappresenta uno dei più significativi spazi pubblici di Città del Messico.
L’impostazione planimetrica si richiama ai principi dell’urbanistica moderna, così come la maggior parte degli edifici risponde ai canoni allora emergenti di modernità e funzionalità, oggi la Città Universitaria è considerata un raro esempio di unità architettonica e urbanistica. Negli edifici si ritrovano un forte senso dell’orizzontale, la trasparenza, lo stretto rapporto spaziale esterno-interno, l’uso dei materiali locali, pietra, commisti a quelli tradizionali, terracotta, e a quelli moderni, ferro e vetro; ma si ritrova anche la tecnica dei frontoni, interpretazione moderna di un’antichissima tecnica plastica preispanica. Grandi architetture della Città Universitaria sono la Rectoria di Pani, del Moral e di Salvador Ortega; la Biblioteca Central di Juan O’Gorman, Gustavo Saavedra e Juan Martínez de Velasco con il murales dello stesso O’Gorman; la Facultad de Ciencias e Institutos, oggi Torre de Humanidades II e Posgrado de Arquitectura, di Raúl Chaco, Eugenio Peschard, Félix Sánchez e Jorge González Reyna; la Facultad de Medicina di Roberto Àlvarez Espinosa, Pedro Ramírez Vázquez, Ramón Torres e Héctor Velásquez. I messicani hanno da sempre chiamato le impervie terre vulcaniche in tono dispregiativo il “malpaís”, eppure il fascino e l’idea tutta umana di dar forma anche alla materia più ribelle e dura, ha spinto Luis Barragán ad immaginare di poter “umanizzare”, con il suo tratto delicato e rispettoso, un’altra parte del vasto Pedregal per la realizzazione di un nuovo e moderno quartiere residenziale.
Città del Messico cercava nuovi spazi di espansione, luoghi in cui attraverso l’architettura, sia pubblica che privata, potesse dare un nuovo volto alla città confermando caratteri specifici e tradizioni del Messico; al contempo gli architetti si contendevano incarichi prestigiosi per affermare un’identità culturale e ideologica. Con José Alberto Bustamante intorno al 1945 Barragán acquista terreni a basso costo nel Pedregal de San Àngel, per dedicare a questa impresa sette lunghi anni, durante i quali si occupa del progetto, ma anche della sua divulgazione, creando intorno a sé un gruppo di architetti che hanno poi collaborato alla sua realizzazione, coinvolgendo anche artisti come Diego Rivera e Mathias Goeritz. Il complesso, che prende il nome di Jardines del Pedregal dal sito stesso in cui viene realizzato, vuole essere il luogo simbolo di una nuova borghesia messicana, ma anche di una classe politica e di professionisti in ascesa. L’impianto disegnato da Barragán, assume una forma topografica, strade, piazze, muri, giardini si conformano al terreno, specchi d’acqua ai quali dà nomi e gerarchie, dettando anche regole normative. Ma l’idea principale sottesa all’intero progetto è quella del giardino, artificiale e naturale si fondono in un immenso “eden”. Questa idea domina l’intera opera del maestro messicano, il giardino è il luogo dell’intimità come lo è l’interno della casa, e nel complesso le strade sono tracciate rispettando le preesistenze naturali, i muri disegnano prospettive, mediano il rapporto tra pubblico e privato, l’acqua è materiale del progetto, è suono di sottofondo; gli animali sono vivi tra le pietre, come le anatre nella Fontana a loro dedicata, o scultorei come l’animale del Pedregal scolpito da Goeritz all’ingresso del complesso. L’intenzione dello stesso Barragán è di creare un luogo in cui privato e pubblico, pur mantenendo precisi confini, siano uniti in alcuni punti dove prevale il senso della comunità – per quanto sia una comunità di “lusso” –, e questo ruolo collettivo è affidato prevalentemente al verde, elemento del progetto ma anche elemento di continuità con il contesto.
Centrali in questo progetto sono le case realizzate da alcuni protagonisti della scena architettonica messicana di quegli anni, d’altronde lo spazio disponibile era tanto e il contesto nel suo insieme armonioso e accattivante. Negli anni centrali della lunga storia, 1945-1968, del Jardines del Pedregal, si contavano circa 1.500 lotti costruiti, con un’architettura moderna dominante e di altissimo livello, dando vita ad una sperimentazione comparabile a poche altre esperienze coeve. Più di trecento delle case realizzate, sono state progettate da architetti prestigiosi e in diversa maniera collegati al Movimento Moderno, purtroppo molte di queste sono state demolite o irreparabilmente alterate. La prima casa, realizzata nel 1947, è quella di Max Cetto per la sua famiglia che dà il via a costruzioni, oltre che dello stesso Barragán, di Francisco Artigas, Ramírez Vázquez, Enrique Yáñez, Félix Candela, José María Buendía, Antonio Attolini e tanti altri. Dal 1968 il complesso, ormai interno al tessuto urbano di Città del Messico, continua a trasformarsi, ma con logiche e strumenti diversi. La maggior parte delle altre abitazioni erano comunque di qualità alta, l’insieme residenziale moderno, realizzato in un recinto di circa 3 chilometri quadrati, ha costituito un fenomeno – forse unico – di architettura residenziale unifamiliare realizzata all’interno di un tessuto, di spazi pubblici e giardini, pensato nella sua complessità dalla sola mano di un maestro dell’architettura moderna.