area 119 | gaetano pesce

architect: B&B

year: 1969

L’astrazione procede per gradi. Ogni rappresentazione sottrae e sostituisce al tempo stesso, proponendo una modalità visiva oltre che una visione del suo oggetto. La pittura e il disegno (che si tratti dei graffiti di Lascaux o di Leonardo) affrontano l’astrazione principale della descrizione verbale: la rimozione della terza dimensione dallo strumento di rappresentazione, suscitando la magia ottica della prospettiva, invocata dall’elemento della distanza. L’idealismo o l’essenza non c’entrano, ma sollevano la questione del contenuto. In un’opera d’arte, ciò che corrisponde a un’idea rappresenta sempre qualcosa. Il modernismo si inalberò contro questo fatto, vedendo nella rappresentazione un limite. Per superarlo, l’arte moderna creò l’idea di astrazione, diversificando coscienziosamente le sue metodologie. Il cubismo scompose l’oggetto ricorrendo alla simultaneità della visione e alla riduzione geometrica. Il surrealismo approdò all’astrazione scambiando liberamente l’oggetto con il contesto. Gli artisti russi aggredirono il pregiudizio ottico con rappresentazioni geometriche, di per sé astrazioni. Questo stile di rappresentazione ebbe un effetto particolarmente profondo su architettura e design, liberando gli oggetti perché esprimessero innanzitutto le condizioni della loro costruzione.
E portò inoltre a una retorica dell’immanenza, all’idea che costruzione ed espressione siano completamente isomorfiche. Rimaneva nell’ombra la potente rappresentazione del desiderio di palpabilità dell’oggetto. I mondi dell’arte e dell’architettura rispondevano, in parte, alla spinta di eventi tecnici che sempre più andavano cadendo fuori della loro portata. L’arte veniva messa in discussione dall’inesorabile e dilagante espressione della scienza e della tecnica, un sistema sempre più ermetico e sfrontato nel soddisfacimento delle proprie esigenze. I brillanti artefatti tecnologici degli ultimi due secoli riuscirono a produrre un vasto sistema di visualità in larga misura indifferente ai tradizionali canoni formali. Era una sfida colossale all’impresa artistica, spossessata del suo ruolo di avanguardia dell’espressione culturale. Che cos’era la pittura su cavalletto all’epoca della Great Eastern o del ponte di Brooklyn? Che importanza aveva la storia di fronte a enormi conflagrazioni come le guerre mondiali?
Posta di fronte a queste convulsioni sociali e tecniche, l’arte rispose sia entusiasticamente che criticamente. La pornografia del futurismo, la libera associazione del collage, il riduttivismo asintotico dell’astrazione “pura” e del minimalismo, l’evanescenza dell’arte comportamentale, l’autenticità individuale della “pittura dell’azione” cercarono di creare arte alla luce delle nuove tecnologie del fare e del vedere. La condizione dell’arte moderna fu ed è ancora definita da un’oscillazione fra attrazione e repulsione. Più recentemente, l’idea che l’arte sia la rappresentazione di qualcosa amorfamente definito come “teoria” la associa all’idea di un “progresso” scientifico rigoroso e analitico e al tempo stesso le consente di continuare a flirtare con i vecchi canoni della rappresentazione, anche se con un oggetto sempre più evanescente. L’arte di oggi, spiccatamente teorizzata, è decisamente postromantica. Se sublimità è alterità (l’esperienza di essere altro, diverso), la rappresentazione diventa sentimentale, un sublime sublimato. Si tratta ovviamente di una pittura molto idealista, che vediamo incessantemente identificata con la borghesia e le sue confortevoli idee della sicurezza di ciò che si vede. Nella sua interpretazione, la “vista incorniciata” deve sempre giustificare ciò che esclude, confessare la ristrettezza del suo autointeresse. In effetti, la carenza modernista consiste nel relegare la rappresentazione nel territorio del kitsch, scivolando dal sublime al ridicolo.
Il surrealismo, metodo operativo della vita moderna, recupera la rappresentazione tramite l’ironia: un atteggiamento che va al di là della curiosa atmosfera delle sue esagerate giustapposizioni, per arrivare alla drammatica dissoluzione della distinzione tra “alto e “basso”, tra ciò che a buon diritto può essere considerato arte e ciò che è solo consumo. La “scoperta” di Duchamp, il cosiddetto ready-made, rivendicava l’atto di vedere in modo diverso come una definizione sufficiente di pratica artistica. Questa modalità di osservazione aveva il potere di “trasformare” gli oggetti da una cosa a un’altra. Che si trattasse di un orinatoio sfacciatamente appeso alla parete di una galleria o dell’astuta trovata di una ruota di bicicletta, questo modo di fare arte utilizzava come strumento di comunicazione oggetti di consumo prodotti in massa. Tuttavia, il rapporto critico con questi strumenti dipendeva dalla svalutazione della loro utilità per convertirla in mera contemplazione, allineandola con gli stili tradizionali della valorizzazione artistica.
Il periodo della prima modernità è anche quello in cui nasce la disciplina del design industriale. Come l’architettura moderna, il design industriale dipende dalla rappresentazione precedente dell’oggetto da produrre a macchina in serie. Anche questo trasferimento (con la distinzione tra design e fabbricazione) fu trattato nel dibattito sulla forma appropriata dell’oggetto industriale e del modo in cui doveva essere giudicato. Sebbene la mitica retorica del funzionalismo offrisse e continui a offrire gli strumenti principali per giudicare tale produzione, fin dall’inizio fu chiaro che non era sufficiente. In questo senso, sia William Morris che la Bauhaus rappresentano manifestazioni analoghe di resistenza all’anonimato dell’oggetto di massa, che arricchiscono di fatture o stile molto superiori alle semplici necessità d’uso. Tutta questa premessa non è che un modo un po’ lungo e tortuoso per suggerire che l’arte astratta ribolliva sia dei significati rappresentati che della loro negazione. Nell’architettura tradizionale, questa contraddizione offriva nient’altro che un vicolo cieco senza alternative, tanto che negli anni Sessanta, il gigantesco vuoto del minimalismo aziendale, che aveva finito per dominare il volto ufficiale dell’architettura, era pronto a crollare. L’attacco venne da molti concorrenti, come storicisti, sentimentalisti e ironisti, oltre che dalle convulsioni visive sfrenate della controcultura con il suo gusto della rappresentazione (per quanto allucinata) e la critica politica delle forme oppressive del tardo capitalismo. In questa ri-creazione dell’arte del design, non c’era (e non c’è) protagonista più grande di Gaetano Pesce, che (come nessun altro praticante in tempi recenti) ricattura la rappresentazione sia per politica che per piacere. In una certa misura, lo fa con una strategia di “trasformazione”, ma non precisamente del tipo favorito da gruppi alla Ant-Farm o Archigram, con la loro affettuosa cattura di oggetti dei consumi di massa come auto, fumetti, confortevoli quartieri residenziali, pubblicità, ecc. Pesce ha istintivamente capito qualcosa a un livello più profondo: che la creazione di immagini (in particolare del corpo umano) è una caratteristica fondamentale del nostro comportamento come specie e anche uno strumento di difesa del corpo contro le minacce della cultura “postumana”. Il suo lavoro (in ogni dimensione) è soffuso di immagini corporee, artisticamente astrattizzate per mantenere un equilibrio vigoroso tra media e messaggio.
Ma se ci si fermasse solamente all’inclusione dell’immagine umana, si fraintenderebbe il ruolo di Pesce. La sua genialità consiste nel combinare questo stile rappresentativo franco e personalissimo con una vivace politica di talento e significato, e con un’utilizzazione entusiasta, esperta e brillante della nuova tecnologia. Mentre la maggioranza dei suoi colleghi continua a elaborare il modello della macchina rigida, metallica (per quanto avvolta in forme voluttuose o in pelli morbide), Pesce ha capito che l’organicità è un concetto che va ben al di là delle forme semplicistiche, che gli organismi sono al tempo stesso resistenti e vulnerabili, che la materia appare in varie fasi e fogge, e che il corpo umano è l’eterno soggetto del design architettonico e domestico. La serie Up (e in particolare le poltrone 5 e 6) è un esempio lampante della capacità di Pesce di incorporare significato e tecnica in oggetti artistici e utili. Alla fine degli anni Sessanta, quando il poliuretano era un materiale che esercitava un notevole fascino sui designer, Pesce ebbe un’idea trascendentalmente utile: il poliuretano contiene un’enorme quantità di aria. E con la B&B Italia ideò un sistema per togliere l’aria dai mobili in poliuretano e confezionarli sotto vuoto, in modo che il volume delle spedizioni fosse minimo rispetto a quello da utilizzare. Grazie alla “memoria morfologica” propria del poliuretano, le poltrone, compresse rapidamente alle dimensioni di una frittella, appena liberate della confezione riprendevano forma e consistenza.
Non c’è dubbio che questa è una delle più straordinarie innovazioni nella storia del design di mobili. Per molti versi, questa tecnologia “gonfiabile” capovolge la fissazione sui “gonfiabili” che prevaleva allora. Mentre i colleghi di Pesce in tutto il mondo creavano infinite variazioni del pallone (oggetti gonfiabili che consistevano meramente in membrane sostenute dall’aria), Pesce fu il primo a creare una massa gonfiabile. Questa operazione quasi alchimistica è sbalorditiva sia per innovazione che per la fondamentale semplicità dell’osservazione che l’ha ispirata. La rianimazione della poltrona per esposizione all’aria è miracolosa.
Le poltrone Up 5 e 6 fanno compiere a questa innovazione un passo in più, utilizzando la forma corporea per reggere il corpo da sedere. Ma non un corpo qualsiasi, il corpo femminile. Dire che allora il corpo femminile fosse un territorio contestato equivale a minimizzare seriamente la situazione: erano gli anni della Fabbrica delle mogli, con le sue docili donne robot, delle conigliette di Playboy, ipervitaminizzate e oggettificate al massimo, delle bambole gonfiabili e della reazione furiosa e liberatrice del movimento femminista. La risposta di Pesce fu di portare il suo design ancora oltre, offrendo un’”ottomana” (altra colonizzazione) per la poltrona/donna in forma di palla e catena. Il significato è chiaro: la donna oggettificata è una prigioniera. Ma non manca una certa ambiguità e anche questo fa parte della genialità di Pesce. La poltrona è bella e, di conseguenza, bella è anche la donna rappresentata. La sua oppressione sembra ancora più triste perché la vittima è così grande e formosa. L’idea di Pesce è che l’immagine del corpo femminile (in quel momento storico) poteva essere recuperata alla raffigurazione artistica solo con un criticismo adeguato. Questa contraddizione (che un mobile ideato per servire al corpo potesse rappresentarlo con connotati visibili) coglie un elemento centrale dei conflitti di allora e di oggi. Nell’opera di Gaetano Pesce, una poltrona acquista una straordinaria eloquenza.