area 107 | glenn murcutt

Glenn Murcutt rappresenta un modo di pensare e praticare l’architettura abbastanza inconsueto ai giorni nostri. Oggi infatti la presenza mediatica, la comunicazione, il messaggio, l’autopromozione rappresentano attitudini indispensabili per il successo professionale di un architetto e della sua opera. Nonostante sia ormai un architetto di fama internazionale e abbia ricevuto un considerevole numero di premi e riconoscimenti in tutto il mondo, Murcutt continua a lavorare pressoché da solo e a progettare esclusivamente nella terra in cui vive, l’Australia. Questa sua attitudine gli ha permesso di disegnare circa 500 case e di costruire pochissimi edifici pubblici, restando lontano dalla ribalta internazionale per lungo tempo. Dopo il conferimento del Pritzker Prize, nonostante l’accresciuta popolarità e il diffondersi dell’interesse per la sua opera, le sue abitudini e le sue personali inclinazioni progettuali non sono cambiate, ferme all’interno di un coerente percorso di ricerca, messo a punto in tanti anni di professione. Apparentemente fuori moda, l’architettura di Murcutt affronta questioni che rendono molto attuale il suo approccio alla costruzione. In particolare, la tematica ambientale (ormai imprescindibile per qualsiasi architettura contemporanea) è stato affrontata da Murcutt fin dall’inizio della sua carriera. Già nei suoi primi progetti, l’orientamento dell’edificio e la ricerca di sistemi passivi di controllo ambientale rappresentano un punto cardine del processo progettuale. Tutt’oggi le sue case non prevedono alcun sistema di climatizzazione dell’aria e per la loro costruzione, l’architetto ha sempre utilizzato materiali locali, in alcuni casi anche riciclati. Da circa quarant’anni Murcutt concepisce l’architettura quale idea di spazio da integrare con l’ambiente, nella convinzione che “questo sia ciò che tutti noi dovremmo fare e che tutti avremmo dovuto fare da sempre”. I suoi edifici sono pensati per il minimo consumo di energia, sia durante la costruzione che nel corso della loro vita. La scelta di un materiale rispetto ad un altro la realizza bilanciando i costi ambientali; ad esempio, per la costruzione di un infisso valuta i costi derivanti dall’utilizzo del legno (per il quale è necessario un certo dispendio di energia per il taglio e la manutenzione) rispetto all’utilizzo dell’alluminio (per la cui produzione è necessaria una gran quantità di energia ma non ha bisogno di manutenzione ed è totalmente riciclabile). In questa “estetica della necessità” (ove il risultato percettivo – per certi versi – può considerarsi un effetto trovato più che ricercato), gli edifici di Murcutt ambiscono all’economia anche nella regolazione termica degli ambienti. L’estrema attenzione posta alle differenze climatiche, nei diversi luoghi in cui ha costruito le sue case, ha caratterizzato la sua ricerca di molteplici soluzioni dei diversi sistemi di aperture utilizzati, in grado di controllare l’ombra, il raffrescamento e la ventilazione. Così come sono stati opportunamente pensati diversi ‘pacchetti’ di involucri per i solai e le pareti delle sue case, in modo da sostenere l’efficacia dei sistemi passivi di regolazione climatica prescelti. “L’edificio ideale, secondo Murcutt, deve tendere verso un funzionamento autonomo, una volta che è stata spesa l’energia necessaria per fabbricarlo”. Questa attenzione alla eco-sostenibilità del progetto, di cui tanto si parla, non è l’unico aspetto che rende l’architettura di Murcutt così attuale. Nel clima di “Horror Pleni” che proviamo di fronte al groviglio di forme, segni e messaggi visivi caratterizzanti l’esperienza comune, restituendo un’indistinta serie di segnali che invadono ogni metro dei nostri paesaggi urbani, è forse possibile trovare un approccio all’abitare in grado di farci intravedere il senso della nostra quotidianità, per “un vivere – come afferma Dorfles – senza pseudo-vivere, cambiare, ma rimanere umani”. In questo senso, la casa disegnata per sé è un efficace metro di giudizio per conoscere un aspetto peculiare dell’opera di un autore, giacché in essa si può esprimere un gusto più personale che non nelle abitazioni progettate per altri committenti. Questo processo offre anche l’opportunità di mettere a confronto le mutate esigenze del nostro vivere e, al contempo, le possibili variazioni di una presunta ‘idea dell’abitare’. Le abitazioni costruite per sé possono infatti diventare laboratorio privilegiato per verificare, liberi da indicazioni e limitazioni esterne, la peculiare domesticità ricercata dall’autore e l’idea di spazio abitabile che ne consegue. Nelle dimore di Le Corbusier e, in particolare nel suo cabanon, ad esempio, si può facilmente cogliere la misura della tensione ideale e creativa che ha marcato gran parte dei suoi progetti di abitazioni; così come nelle fotografie d’epoca di Alvar Aalto, intento a ravvivare il fuoco nel cortile o coinvolto in piacevoli conversazioni con gruppi di amici nella casa per vacanze a Jyväskylä, si può intuire un’idea di confortante domesticità, riscontrabile in molti altri suoi progetti. Nella casa a Mosman, pensata da Murcutt con Wendy Lewin quale residenza e studio privato, è possibile individuare alcuni aspetti caratterizzanti la sua personale idea dell’abitare domestico e le sue possibili variazioni nel tempo.
Questo progetto affronta il tema della trasformazione e dell’ampliamento di una residenza a due piani, inserita nel tessuto suburbano di Sydney, oggetto di una precedente ristrutturazione di Murcutt nel 1972. Il risultato attuale introduce gradualmente alla sua personale idea di domesticità, pensata, disegnata e realizzata non per un cliente ma per necessità e con aspettative personali. L’analisi della casa è perciò una chiave di lettura indispensabile per definire i contorni di tale idea. Oltrepassato un piccolo giardino, l’ingresso principale si presenta essenziale e di ridotte dimensioni. Appena varcata la soglia della casa, si è attirati dalla luminosità proveniente dalle grandi vetrate che si intravedono sullo sfondo, invitando a proseguire verso la zona giorno, lungo uno stretto corridoio; al contempo, l’elegante presenza di una scala lineare segnala l’esistenza di un piano superiore, ricavato nel sottotetto. La compressione di questo ingresso (esito del leggero abbassamento del soffitto e delle ridotte dimensioni degli spazi) enfatizza il passaggio dal corridoio di entrata alla grande sala da pranzo e di soggiorno, affacciata sulla corte retrostante. Quella che – ad un primo sguardo – nei disegni appare come una ‘semplice’ stanza allungata, in realtà (grazie a questi minimi accorgimenti) si dinamizza e, attraverso la grande vetrata posta sul lato opposto dell’ingresso, si proietta verso lo spazio aperto del giardino. Anche al piano superiore – in contrappunto, rispetto al riservato ingresso della casa – un sistema di lucernai di aaltiana memoria configura una sezione articolata e guida la luce negli ambienti del sottotetto, in maniera inaspettata. Lo studio è stato ricavato riutilizzando alcuni ambienti seminterrati di servizio, definendo un nuovo livello. Anche questo ambiente trova il suo riferimento nello spazio aperto del giardino, posto alla stessa quota e messo in comunicazione, anche qui, tramite il leggero involucro di metallo e vetro che caratterizza il nuovo prospetto della casa, a tutti i livelli.
La casa in cui Murcutt vive e lavora – nonostante non sia annoverata dalla critica tra le sue opere principali – può confermare, coerentemente con quanto ha realizzato in altre case e per moltissimi clienti, un’idea di domesticità semplice e, al contempo, ricercata. Semplice, perché riconducibile a forme e geometrie regolari, quasi sempre modulari, caratterizzate da una chiara e lineare distribuzione, all’interno delle quali l’applicazione del principio kahniano di ‘spazi serviti e spazi serventi’ contribuisce al loro uso razionale. Ricercata, in quanto la luce e il paesaggio articolano, modificano, arricchiscono lo spazio in modi sempre diversi, così come diversi sono i luoghi dei suoi progetti.
Questa idea di ‘semplicità complessa’ è una delle possibili chiavi di lettura dell’opera di Murcutt; per certi versi rappresenta la ‘cifra stilistica’ di un autore che ha sempre privilegiato bisogni e necessità, rispetto a questioni di carattere estetico e formale, conseguendo una colta sintesi tra clima e topografia, materiali e tecnologia, risorse economiche e richieste del cliente. Un’idea dell’abitare, cioè un’idea di architettura, molto lontana da tanti ricercati progetti contemporanei, nei quali l’immagine, piuttosto che la tecnologia o il materiale innovativo, sembrano  prendere il soppravvento, finendo per appiattire le potenzialità del manufatto architettonico e dell’ambiente. L’uomo “non può essere separato dallo spazio”, come spiegava Heidegger; la casa – più di qualsiasi altro tema architettonico – rappresenta per Murcutt il luogo della vita per antonomasia, in equilibrio tra luce e ombra, tra spazio e vita, con i suoi piaceri tattili e sensoriali e le sue necessità. In un interessante saggio intitolato ”Casa dell’arte, casa della vita”, Adriano Cornoldi si interrogava sulla possibile relazione tra le qualità architettoniche di una casa e quelle umane del progettista. Più precisamente, si chiedeva se la casa di un architetto, quale specchio della sua umanità, offrisse qualità particolari, rispetto alle case costruite per altri, chiedendosi (in caso affermativo) se tali qualità potessero essere anche di utile insegnamento per il progetto di una qualsiasi casa. Questa intrigante questione, relativa alla vicenda umana e personale degli architetti, è un possibile ‘rilevatore’, in grado di precisare alcuni punti di vista sul ‘fare’ architettura. È proprio l’aspetto umano dell’architetto, “la sua umanità, per il carattere pratico del suo lavoro, ad essere coinvolta nella costruzione di un’opera. In particolare quando si tratta di un’abitazione, e ancor più se è la propria”. La casa dell’architetto come ‘casa della vita’, luogo della normalità per eccellenza. Chi ha avuto la fortuna di conoscere Glenn Murcutt e di apprezzarne lo spessore etico e intellettuale, non potrà non cogliere lo stretto legame tra questi aspetti inerenti la sfera privata e il loro rispecchiamento in molte soluzioni degli spazi domestici nei suoi progetti. Questo è – tra l’altro – uno dei motivi per i quali si è scelto di pubblicare parte del discorso di ringraziamento tenuto da Murcutt in occasione del Pritzker Prize nel 2002. Rileggendo il testo, che rappresenta una sorta di breve e sintetica autobiografia, appare evidente come Murcutt espliciti – in maniera semplice e diretta – il significato di alcuni episodi e di certe esperienze personali, raccontando come questi abbiano decisamente influito sul suo modo di vedere il mondo e sulla sua personale attitudine per l’architettura. Murcutt concepisce infatti l’architettura della casa come luogo della vita privata, dai caratteri spaziali distinti e contrapposti a quelli di un edificio pubblico, con l’obiettivo di progettare case da vivere e non ammirare. Significativa una delle risposte date da Murcutt nel corso dell’intervista curata da Simone Corda, durante il suo soggiorno in Australia. Parlando della Marika-Alderton House come di un manifesto del suo modo di vedere l’architettura, con particolare riferimento alla cultura aborigena e al significato politico che il progetto ha assunto per la cultura australiana, Murcutt argomenta con molta semplicità che “questo progetto è semplicemente una casa”. Si tratta però di una casa pensata per un particolare modo di abitare, cercando cioè di coglierne i caratteri distintivi, per poi reinterpretarli all’interno di una sintesi spaziale fortemente condizionata dai peculiari aspetti climatici della zona, consegnando infine una suprema sintesi “dell’idea di rifugio trasformabile, in simbiosi con il paesaggio, gli elementi naturali e i costumi”. Un altro aspetto rilevante delle case di Murcutt è la particolare concezione di uno spazio domestico ove il paesaggio si fa scenario. In molti suoi progetti il mondo esterno viene ‘misurato’, riconducendolo a dimensioni normali, controllabili, il che consente di alzare, di tanto in tanto, timorosamente, gli occhi sulla sua smisurata estensione. Le sue case rifiutano l’idea di una domesticità come rinuncia, rifugio escludente, rifiuto di ciò che sta fuori, per incarnare invece l’idea di ‘rifugio aperto’: concetto quanto mai ambiguo, che nelle case di Murcutt si palesa proprio quale contraddizione in termini. L’abitare conserva tutta la sua centralità, senza per questo ridursi ad un permanere statico, escludente, immobile sopravvivenza dalle difficili condizioni climatiche, aprendosi invece a tratti a un movimento persistente e a una costante variazione degli elementi che lo compongono e dello spazio che lo contraddistingue. Le case di Murcutt proteggono e accolgono ma, allo stesso tempo, si proiettano e si relazionano con il paesaggio circostante, attraverso molteplici espedienti architettonici, utili tanto a proteggerle quanto a comprendere e rispettare il paesaggio che le circonda. L’interno domestico di Murcutt si precisa dunque attraverso una definizione del ‘senso dei luoghi’, in particolare nell’intenso rapporto con il paesaggio. Queste case si potrebbero chiamare ‘macchine rivelatrici’, sia delle molteplici difficoltà dell’ambiente che le circonda, sia delle opportunità che esso offre alla loro definizione. Le strategie architettoniche adottate (i sistemi passivi di raffrescamento piuttosto che i diversi paramenti per proteggersi dal sole o dai forti venti) diventano strumenti di manipolazione della luce e dello spazio, ‘macchine semplici’ di relazione tattile e visiva, aprendo e chiudendo ove necessario ma anche arricchendo, con la loro variazione, l’esperienza spaziale dell’abitante.
La ‘rude raffinatezza’ di questi edifici deriva in larga misura dal sapiente utilizzo di semplici sistemi costruttivi e dal loro inedito assemblaggio in soluzioni di straordinaria raffinatezza. La ‘rudezza’ è legata al frequente utilizzo di materiali comuni, reperibili localmente o facili da trasportare, che nella loro immediata materialità vengono ricomposti con raffinatezza costruttiva: anche il singolo giunto e il comune fissaggio concorrono così alla definizione dell’insieme. In una conversazione con chi scrive, durante una cena a base di verdure in un improbabile ristorante cinese a Dublino, Murcutt si è soffermato a lungo sulla descrizione di alcuni aspetti costruttivi dei suoi edifici, precisando come – in ogni suo progetto – la ricerca di un particolare costruttivo, piuttosto di un altro, passi sempre ed esclusivamente attraverso la rielaborazione di elementi seriali, reinterpretati in modo inatteso; e dunque, come gran parte del tempo di progetto sia dedicato a questi aspetti.
Per esemplificare il tema dell’utilizzo inedito di materiali di serie, attraverso la loro modifica, un esempio emblematico è quello delle due porte girevoli, in metallo e vetro, della Magney House a Paddington (Sydney): a partire da un modello standard sono state adattate a misura per permettere di aprire il soggiorno verso la terrazza, in tutta la sua larghezza. Quasi uno ‘squarcio dello spazio’ – per usare una definizione di Tessenow –, dovuto all’uso di ampie vetrate, in grado di mettere in diretta relazione interno ed esterno, secondo precisi rapporti spazio-dimensionali: non una regola prescrittiva, quanto un principio adottato in particolari situazioni. Il concetto di trasformabilità e variazione è una delle costanti del lavoro di Murcutt. Sintetizza un’idea dell’edificio non quale opera totalizzante, definita e immodificabile, quanto piuttosto l’assunto di un’architettura trasformabile, anche durante il processo progettuale, e adattabile a future esigenze. La Fredericks-White House, ad esempio, inizialmente era stata concepita su un unico livello, con una successione di volumi statici uniti dalla prospettiva; durante la progettazione emerse la necessità di maggiori spazi, che Murcutt decise di ricavare con la creazione di un nuovo livello. Il piano primo registra in effetti una specie di turbamento, rispetto alla spazialità originaria dell’edificio, offrendo una vista del cuore della casa da una posizione predominante, con un ulteriore grado di complessità spaziale, inizialmente non previsto. Nel periodo 2001-2004 la casa è stata nuovamente ristrutturata, con pesanti modifiche, attraverso l’annessione di nuovi ambienti, il riposizionamento della veranda e la creazione di uno studio in luogo del vecchio garage, al di sopra del quale è stato ricavato un altro livello.
La conformazione attuale mantiene (e, per certi versi, conferma) i caratteri generali della casa; la composizione dell’insieme non evidenzia le alterazioni subite, a dimostrazione e conferma dell’eccezionale lungimiranza costruttiva di queste abitazioni. Questo approccio assimilabile al concetto di ‘opera aperta’ che deriva, in larga misura, da un’idea precisa del mestiere dell’architetto e dei suoi riflessi sull’opera costruita. L’opera d’arte moderna, secondo Umberto Eco è un artificio costituito da ‘moduli aperti’, capaci di accogliere la mutazione, e basata sulla visione di un universo fondato sul concetto di ‘possibilità’. La Murcutt House (già Marie Short House) a Kempsey è un altro significativo esempio di come un modulo costruttivo, basato su tecnologie semplici, possa essere ampliato nel tempo, per il mutare delle esigenze. Cinque anni dopo la costruzione, Murcutt ha acquistato la casa, ingrandendola e ridistribuendone gli spazi, per adattarla alle necessità della propria famiglia. Questa trasformazione è stata possibile grazie a una struttura modulare imbullonata, che ha consentito lo smontaggio dei fronti e la ricostruzione delle verande alle estremità. “Ho sbullonato ciò che si trovava imbullonato – ha spiegato Murcutt – in corrispondenza del nuovo soggiorno e, facendo rotolare il tutto su cilindri, l’ho spostato in una nuova posizione. Ho quindi imbullonato di nuovo, ho preso il frontone, l’ho smontato e rimontato; il tutto è stato possibile perché il legno era adatto sia per l’esterno sia per l’interno. Sono molto coscienzioso quando si tratta di materiali: voglio che non vada perso nulla, quando si procede ad una modifica cerco di riutilizzare tutto”. Questa estrema attenzione agli aspetti costruttivi e al loro ruolo all’interno del processo progettuale non dovrebbe prendere il soppravvento nella critica, per lasciare invece spazio ad una idea più generale di architettura, in grado di creare metafore esistenziali concrete e vive, che diano consistenza e forma al nostro essere nel mondo. “Una architettura che riflette, materializza e immortala idee e immagini di vita ideale (…) La nostra abitazione diventa una cosa sola con la nostra autoidentità: diventa parte del nostro stesso corpo, del nostro stesso essere” – così come la teoria non scritta ma costruita di Murcutt insegna.

Massimo Faiferri (Cagliari, 1969) si laurea in Architettura presso lo IUA di Venezia dove consegue il dottorato di ricerca in composizione architettonica. Docente di progettazione architettonica alla facoltà di Architettura di Alghero, svolge attività didattica in numerosi seminari di progettazione e Master in diverse sedi italiane e straniere. Vive a Cagliari dove svolge attività professionale come socio dello Studio Professionisti Associati.