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La forma tettonica di Sverre Fehn
Kenneth Frampton

Fehn ha spesso enfatizzato la forma tettonica, facendone il motivo dominante dell’intero edificio, basti pensare al Padiglione dei Paesi Scandinavi, realizzato nel 1962 per la Biennale di Venezia. L’architetto ha poi dimostrato di avere la stessa predilezione di Carlo Scarpa per l’articolazione dei giunti; un debole che risulta evidente nei progetti per il Museo Etnografico di Oslo (1980). Che la costruzione fosse destinata a divenire una presenza fenomenologica nell’architettura di Fehn veniva preannunciato dalla posizione teorica assunta in The Thought of Construction (Il Pensiero della Costruzione, n.d.t.), testo scritto in collaborazione con Per Fjeld e pubblicato nel 1983. Per Fehn, la costruzione ha la capacità di rivelare la natura intrinseca della forma materica.
“L’uso di un determinato materiale non dovrebbe mai scaturire da una precisa scelta o da un calcolo, dovrebbe piuttosto essere frutto dell’intuito e del desiderio. La costruzione in armonia con il materiale si apre verso la luce rivelando, in tal modo, il proprio colore intrinseco. Il materiale tuttavia, non può mai essere “colore” senza la costruzione. La pietra ha un determinato aspetto e, in quanto materiale, è definito dalla sua forma così come la chiave di volta è definita dalla precisione che la caratterizza. Nel momento in cui si pone una pietra sopra l’altra, ecco che la forma viene determinata dal giunto”.
E ancora: “Per il giovane architetto, ogni materiale deve essere testato nella propria forza. È infatti naturale per i più giovani utilizzare il materiale all’estremo della propria capacità; l’espressione di tale forza intrinseca si accompagna ad una vitalità che è naturale. L’effetto sensazionale dato dall’uso del materiale è convincente e l’energia insita nell’essere giovani permette di raggiungere la perfezione strutturale. Con il passare del tempo, taluni architetti accetteranno il fatto che la stanchezza tipica dell’invecchiamento ha comunque una propria bellezza, che permette di conferire al materiale grezzo una dimensione di vita vissuta e di saggezza. L’arrendersi al passare del tempo è sinonimo di maturità, un segno di crescita personale. È raggiungere la generosità tramite la semplicità”. Tale riflessione profonda faceva riferimento al padiglione di Venezia, una struttura long-span, costruita in un tour de force, a soli ventotto anni. La Gestalt strutturale dell’opera si concretizza in un’unica mega-trave, lunga 25 metri, che si divide in due proiettandosi come una trave a sbalzo su di una colonna a V e creando, in tal modo, lo spazio per ospitare un albero di grandi dimensioni. A tale gesto dinamico si integra un tetto reticolare a doppio strato in calcestruzzo; una copertura in fiberglass dalla superficie increspata si inserisce sospesa tra gli arcarecci in cemento: una membrana traslucida che si sviluppa in un’unica direzione e richiama alla mente, se osservata in sezione, la copertura proposta da Jørn Utzon per l’abitazione Sydney Bayview, virtualmente progettata nello stesso periodo. Profondamente influenzato dall’immagine di Venezia data da Scarpa, il padiglione fa un riferimento velato alla laguna, dalla quale dipende la vita stessa della città. “Il padiglione ha in sé gli elementi stessi che costituiscono Venezia. La città appartiene all’acqua, dalla quale trae ispirazione; a questo elemento si contrappongono le aree verdi: il parco con il suo paesaggio erboso e piantumato è qualcosa di prezioso per quanto raro. Ogni albero esistente può crescere indisturbato all’interno dell’edificio, trovando il proprio sbocco attraverso la copertura del tetto. All’albero principale viene concesso un posto d’onore, la struttura dominante infatti lascia spazio alla sua presenza ed è proprio qui che l’unione tra natura ed edificio raggiunge i massimi livelli. I condotti trasparenti della copertura rendono omaggio all’elemento “pioggia”, che è incanalata quasi come avviene con l’acqua in città, fornendo sostentamento alle piante sia all’interno che all’esterno e creando un legame con il ciclo stesso del parco. Le foglie si protendono verso il sole e fanno sì che l’edificio si “fletta” diversamente a seconda della stagione. Tale volontà di onorare il sole e la pioggia, racchiusi in un  luogo non-razionale, è l’inizio di una ricerca di un’architettura di ordine superiore”.
Non è possibile leggere la monografia su Sverre Fehn, scritta da Norberg-Schulz e Gennaro Postiglione (Electa 1997), senza rimanere colpiti dall’acutezza, dalla bellezza e dalla profondità a livello psico-fenomenologico degli schizzi di Fehn che, senza dubbio, trascendono da qualsivoglia preoccupazione, meramente funzionalista, che riguardi la struttura e la costruzione. Eppure la tettonica avrà un ruolo di rilievo in quasi ogni opera progettata da Fehn e, in particolar modo, in quelle degli esordi; basti pensare al progetto presentato nel 1949 al concorso per il museo dell’artigianato di Lillehammer. Realizzato in collaborazione con Geer Grung, nell’edificio l’aspetto tettonico e topografico si fondono in maniera simbiotica su di un sito caratterizzato da una dolce pendenza.
Il Fehn di Villa Schreiner, costruita ad Oslo nel 1963, vira impercettibilmente verso uno stile nordico/giapponese, con l’uso del mattone rigorosamente modulare e del legno. Un progetto questo che può essere considerato, sotto diversi aspetti, un “prototipo” per le abitazioni Underland e Wesse, dal gusto decisamente più nordico, con il laterizio messo in primo piano; una tendenza che raggiunge il suo culmine nella brillante soluzione applicata alla villa di Norrkoping in Svezia, ultimata nel 1964. È incredibile come quest’ultima abitazione sia in grado di sintetizzare, in un’unica e perfetta opera, Palladio, Rietveld, il Brutalismo e il mattoncino tipico della tradizione olandese, senza citare l’architettura in legno giapponese. Probabilmente, ciò che rende l’opera di Fehn così irresistibile e affascinante è proprio la sua capacità di sintetizzare le lunghe traiettorie del razionalismo e dell’organicismo europeo in edifici apparentemente estranei l’uno all’altro, si pensi al Centro Boler, realizzato ad Oslo nel 1972 e al magistrale Museo Hamar, terminato sette anni dopo. Negli anni ’70 e ’80 Fehn partecipa ad un concorso dopo l’altro, proponendo soluzioni eccezionali, trattasi tuttavia di progetti per opere pubbliche che non verranno né premiati né realizzati. È con una punta di rammarico che si constata, nello stesso periodo, la costruzione da parte di Fehn di abitazioni private di ampie dimensioni e collocate su siti altamente topografici che, nonostante l’articolazione strutturale, rasentano la stravaganza esotica. Procedendo verso il termine della propria carriera, Fehn realizza il Museo Glacier di Fjareland (1991) e il Museo Aukrunst ad Alvdal (1996), entrambi progettati per inserirsi in siti in aree alpine; tali opere tuttavia non raggiungono, a mio avviso, il livello di sintesi dimostrato nei progetti precedenti. È noto che nemo propheta in patria sua, specialmente in questo settore, ma anche quando Fehn sposta la propria attenzione sul suolo danese, le cose non vanno meglio. Come hanno potuto i danesi decidere di non realizzare la splendida galleria progettata per il Teatro Reale di Copenhagen nel 1996? Siamo di fronte a perdite irreparabili e a poco serve trovare conforto nel magnifico padiglione costruito per il Museo dell’Architettura di Oslo, poco prima di morire.

Kenneth Frampton. Architect, critic, historian and Ware Professor of Architecture at the Graduate School of Architecture, Planning, and Preservation at Columbia University in New York. Co-founding editor of its magazine Oppositions, Frampton is well known for his writing on twentieth-century architecture. His books include Modern Architecture: A Critical History and Studies in Tectonic Culture. In 2002 a collection of Frampton's writings over a period of 35 years was collated and published under the title Labour, Work and Architecture. In 2006, he wrote the introduction to the book of Flemish architect Georges Baines.