area 119 | gaetano pesce

Senza Fine Unica,  Meritalia, 2010

Ad una mostra di Carlo Scarpa, anni fa, sono stato attratto in modo particolare dai margini dei suoi disegni preparatori. Erano coperti di figure abbozzate, spesso di corpi femminili, e punteggiati da macchie che ho poi scoperto essere schizzi di vino. Quelle figurazioni non scaturivano solo dalla fecondità della sua immaginazione, ma erano testimonianza della passione che Scarpa nutriva per il corpo e il corporeo. Il suo interesse emergeva a livello concreto quanto astratto: Scarpa era un maestro delle umane proporzioni, un designer affascinato dalla meccanica dell’interazione umana con l’architettura, dall’idea di aprire porte, di modulare la luce per la sua utilità e per l’effetto scenografico, dal pensiero dell’eterno riposo nella terra. Il lavoro di Scarpa è profondamente ricercato in senso tradizionale, basta guardare alla cura dei dettagli, all’austerità e all’armonia dei materiali, all’infinito senso di eleganza nella composizione. Anche il lavoro di Gaetano Pesce è incredibilmente ricercato, ma il sistema che descrive si rivela piuttosto diverso, più affine alla ricercatezza dell’apparato digerente umano, nel senso che ne coglie l’elegante necessità e concisione del funzionamento così come le affascinanti morfologie involute e mutevoli.
Anche il modernismo, nei giorni in cui era in auge il funzionalismo puro, si occupava delle viscere dell’architettura, ma il fascino di Gaetano Pesce risiede in qualcosa d’altro. Fin dall’inizio, molti modernisti hanno sfruttato la potenza visiva dei sistemi di costruzione, con i loro tubi e condotti, le ventole, i passacavi, le travature reticolari e le giunzioni bullonate, a guisa di elementi espressivi nei loro progetti. Questa modalità nasceva da un’esigenza di integrità, che molto aveva a che fare con il concetto di “onestà“, e altresì dal fascino che la tecnologia rampante dell’epoca esercitava su molteplici aspetti della vita. Era tuttavia una concezione estremamente riduttiva e dominata da un principio di parsimonia che si è poi dimostrato la sua condanna. Il modernismo si è arenato nella secca del minimalismo, paralizzato dal vuoto delle sue promesse sociali. Pesce ha intrapreso un percorso diverso fra tecnologia e rappresentazione. I suoi materiali prediletti, in particolare la resina, incarnano la verità della loro stessa trasformazione, in una sorta di collosità, di viscosità latente. La serie Senza Fine è particolarmente esemplificativa delle movenze tipiche dell’arte di Pesce ed esprime un’idea di sistema che si mantiene fluido, non irrigidito nel meccanicismo dell’indistruttibile. La collusione degli elementi tubolari in resina richiama in una certa concatenazione gli spaghetti e poi l’intestino sino ad arrivare ai vermi, come suggerisce il bozzetto di Pesce dove un uccello contempla la seduta. Vige un rapporto implicito fra l’immagine del digerito e la digestione, che indubbiamente evoca Yeats quando affermava che nell’arte il danzatore e la danza si fondono in una unità che tuttavia continua a riecheggiare le sue origini, come l’alimento crudo che resta visibile nella pietanza cotta. Il biomorfismo rampante di Pesce si esprime anche nelle aperture presenti sul retro delle sedute, che potrebbero simboleggiare l’occhio o l’ano, e altresì nelle forme maggiorate che, come accade in altri capolavori di Pesce, suggeriscono una persona seduta, un tessuto adagiato sul suo grembo, in cui un’altra persona può prendere comodamente posto. Anche se Pesce lavora all’ingegneria del prodotto e non a quella genetica, i suoi procedimenti si pongono nel solco dell’ontogenesi e quel richiamo perpetuo alla natura dell’arte incarna sempre l’idea della gestazione. Si ha l’impressione che la sua filogenesi sia meno costruita che curata, nata da un qualche genere di blastula mentale che rigonfia sino al completamento. Il “richiamo intestinale” di queste opere straordinarie è, tuttavia, di natura rappresentativa piuttosto che funzionale. A differenza della passeggera moda architettonica britannica nota come “bowelism” (dall’inglese bowel, che significa appunto “intestino”), non c’è niente che fluisce nelle serpentine di Pesce e la forza della loro rappresentazione risiede nell’attenzione per la forma, che possiede un impeto pittorico, nella natura dei materiali insita nell’immagine, nel rigore del loro rapporto artificiale con ciò che viene raffigurato e altresì nel fatto che la loro materialità letterale è completamente avulsa dallo scopo dell’oggetto rappresentato. La sua cappa da cucina, ad esempio, è ornata da festoni di frutti e verdure ed è senza dubbio in sintonia con la voglia di stare ai fornelli. È una natura morta assolutamente deliziosa e un’immagine incredibile. Questo soggetto recupera un tema che l’arte tratta da millenni, non ha niente a che fare con la rottura ricercata della modernità iconoclasta. Pesce è consapevole che, qualunque sia l’ornamento concettuale in cui avvolgiamo il campo visivo, determinate questioni sono una costante nella storia di una specie in carne e ossa. Il suo è un invito a mangiare. Questa idea dell’incarnazione permea anche “L’Italia in Croce”, un’opera in cui la rappresentazione in resina rossa del paese è inchiodata su una croce nera. Con la punta dello stivale gocciolante verso il pavimento, la patria è raffigurata come un insieme di frattaglie, organico e sanguinolento. Il messaggio di Pesce è legato all’idea di un paese crocifisso da una classe politica incapace di risolvere i problemi, troppo corrotta e invischiata nella lotta di autopromozione verso il potere per curarsene. La questione viene posta nei termini di un conflitto tra benessere sociale e mediocrità, l’immagine del paese “scarnificato“ è concisa e al tempo stesso grottesca, due buone qualità nell’arte polemica.
Ma vista nel contesto più ampio della produzione di Pesce, la figura dell’Italia, con l’ineffabile evidenza della sua biologia, si richiama a un concetto fondamentale che riguarda l’essenza degli oggetti, il modo in cui non perdono mai la loro qualità sia di avatar che di surrogati del corpo. Un’immagine che potrebbe suscitare disgusto deve essere interpretata tenendo conto di un’idea di delicatezza che Pesce riterrebbe troppo superficiale, approssimativa. L’immagine è scioccante e premurosa insieme.
Non è tuttavia possibile discutere del lavoro di Pesce senza menzionare quell’arguzia imperante che caratterizza ogni sua opera, la sfida che egli simultaneamente lancia al pathos del modernismo e all’anticlimax del kitsch. Prendiamo ad esempio Horse Cabinet, ispirato a un’immagine teoricamente tratta dalla Crocifissione di Altichiero da Verona. Non è altro che il deretano di un cavallo, un motto di spirito riscattato dal suo colto referente, dal vuoto gradevolmente sinuoso fra le gambe, dall’utilità dell’oggetto, dall’ingenuità dei cardini.
Questo meravigliosa convergenza di gestualità e burla è particolarmente evidente nel divano “Giullare”, in cui lo schienale delle sedute va rastremandosi per terminare in un cappello da giullare, una sorta di supplemento ornamentale che si accompagna con la sua morbidezza al semplice gesto dello stare seduti come un braccio intorno alla spalla, la proboscide di un elefante adagiata sul grembo, o semplicemente come un eccesso, l’essenza dell’umorismo, qualcosa di liberatorio. Ovviamente, qualsiasi ornamento è per definizione supplementare e Pesce è da tempo un maestro nel forzare i limiti della compiutezza di significato. La nuova serie di imbottiti che riproducono il profilo frastagliato delle Alpi nello schienale, foreste sui braccioli e cascate sulle sedute è tipica di una predilezione che in passato ha ricercato la singolarità nell’eccentricità di panorami urbani, brandelli di stoffa, tramonti, spalle, grovigli di pasta e altri amplificatori di significato.
Difatti, se l’umorismo risiede nella sorpresa delle giustapposizioni, nella sua capacità di risolvere l’idea di incompatibilità, allora l’umorismo è la forza trainante che sottende l’espressività immediata del lavoro di Pesce a qualsiasi livello.
Ecco dunque che i recenti progetti architettonici di Gaetano Pesce recano quasi tutti un’impronta ludica e rappresentano una sorta di Bomarzo globale, disaggregato, una galleria grottesa antropomorfa, sempre più miniaturizzata e prevalentemente auto-realizzata. Com’è ovvio, lavori simili si propongono sempre come un divertissement, vuoi per la rappresentazione, il gigantismo, l’effetto inatteso o la pura e semplice vistosità del progetto. La villa di Bahia è un compendio della filosofia di Pesce: la facciata che richiama un volto, la distribuzione di elementi familiari a guisa di edicole, l’elaborazione delle superfici, sia nella concezione dei pavimenti in resina come nella collocazione di scale all’esterno, e l’ampia persino eccentrica tavolozza di materiali presi a prestito ora dalla tradizione indigena ora dal corredo industriale e giustapposti con una libertà caratterizzante ed evocativa, l’assito spigoloso accostato a resine vistose e fluenti.
Il Pesce-Trullo si presenta non a caso come una struttura binaria, un pluralismo che sta a suggerire come anche un singolo individuo sia in realtà membro di una specie, una vita-forma che è sì riproducibile, ma ogni volta con qualche differenza. Molti degli oggetti di arredamento disegnati da Pesce, come il tavolo Sessantuna, sono concepiti con un processo di produzione che insistentemente genera una serie di copie singole, talvolta mediante la “liberazione” del lavoratore che le realizza per impartire a ciascuna la sua specificità. Gli elementi di Sessantuna possono essere uniti a formare una gigantesca mappa dell’Italia, una figura costantemente ricorrente, una musa perpetua nel lavoro di Pesce, ed è un altro strumento, come il coinvolgimento del lavoratore nella realizzazione di oggetti in serie ma unici, che l’artista impiega per esprimersi sul piano politico. L’Italia è per l’appunto il grembo che ha dato vita a questa genia, la chiave di lettura per comprendere il corredo genetico condiviso di ciascun individuo, depositario di un DNA comune. Personalmente, adoro il Pesce-Trullo, semplice e altrettanto semplicemente meraviglioso, con i suoi due volti benigni, le tonsure verdi, la superficie irregolare e la colorazione antropica, le protuberanze, i nasi lunghi e sottili come quello di Pinocchio o delle maschere di carnevale. I due corpi architettonici sono depositari del codice espressivo: la loro dualità è il fulcro di questo progetto di edilizia familiare. Il loro essere due gemelli non identici è sia la chiave che il limite della loro replicabilità. Attraverso di essi si esprime l’idea che la produzione di massa deve trovare strumenti per conferire sempre all’oggetto quel tanto di varietà che serva a dare una sensazione di esclusività a ciascun individuo. Pesce non produce mai un numero eccessivo di oggetti, ma egli non ritiene che ciò ne aumenti il valore dal punto di vista del consumo puro e semplice, come opere troppo preziose per essere condivise. Tutt’altro, è un po’ come la ricetta per il sugo della mamma: è unica, ma vive nella costante imperfezione della sua trasmissione.

Michael Sorkin is the principal of the Michael Sorkin Studio in New York City, a design practice devoted to both practical and theoretical projects at all scales with a special interest in the city and in green architecture. Sorkin is also founding President of Terreform, a non-profit organization dedicated to research and intervention in issues of urban morphology, sustainability, equity,
and community planning. In addition, Sorkin is President of the Institute for Urban Design, an educational and advocacy group.
Michael Sorkin is Distinguished Professor of Architecture and the Director of the Graduate Urban Design Program at the City College of New York. His books include Variations on A Theme Park, Exquisite Corpse, Local Code, Giving Ground (edited with Joan Copjec), Wiggle (a monograph of the studio‘s work), Some Assembly Required, Other Plans, The Next Jerusalem, After The World Trade Center (edited with Sharon Zukin), Starting From Zero, Analyzing Ambasz, Against the Wall, Indefensible Space, and Twenty Minutes in Manhattan. wForthcoming are Eutopia, All Over the Map, New Orleans Under Reconstruction, Beyond Petropolis, and New York City (Steady) State.