area 119 | gaetano pesce

location: New York

Brent Lewis: Qual è, a suo parere, la missione primaria del design oggi?
Gaetano Pesce: È giunto il momento che l’oggetto possa esprimere qualcosa di più della mera bellezza, possa essere di più di una forma piacevole, con una determinata funzione. L’oggetto ha in sé il potenziale per poter esprimere un punto di vista, può avere in sé tutte le caratteristiche di un’opera d’arte con una forza espressiva maggiore dell’arte contemporanea. In passato, l’arte era spesso un prodotto, quando non esisteva ancora la fotografia, ad esempio, non vi era modo di ricordare un luogo visitato; ecco che allora si chiamava un pittore a dipingere il paesaggio.
Poi è stata inventata la macchina fotografica e l’arte ha perso la sua ragion d’essere. Io sono convinto che del design esista un aspetto funzionale e uno culturale, che possa quindi essere doppiamente potente ed espressivo.
B.L.: Ma sembra che oggi i designer si concentrino sulla superficie, siano principalmente preoccupati di trovare la perfezione nella forma, che deve essere solitamente lucente e sexy.
G.P.: Sono d’accordo. Sono passati quarant’anni, da quando ho lanciato una seduta (“La Mamma” della serie “Up”) dalla forma sensuale e morbida che ricordava il corpo di una donna, una poltrona legata con una catena ad un’ottomana a forma di palla. Benché la seduta sia piuttosto comoda, il messaggio espresso è ironico, le donne sono prigioniere dei pregiudizi dell’uomo.
Ciò che cercavo di dire era che un designer può esprimere un punto di vista politico anche con un mezzo non tradizionale, non quindi scrivendo un articolo su una rivista, ma con un oggetto di tipo industriale che si può ritrovare nella casa di un privato.
B.L.: Lei parla dell’aspetto umano del design, ovvero ammette l’imperfezione, lascia spazio alla casualità, alla probabilità.
G.P.: Qui torniamo agli anni settanta. All’epoca mi sono trovato a pensare che parlare di società significhi parlare di differenze. Gli individui non sono tutti uguali; ci sono culture e lingue diverse, origini differenti. Eppure i movimenti politici dell’epoca insistevano sul fatto che tutti sono uguali. Ciò che cercavo di dire è che “democrazia” non significa solamente garantire uguaglianza
ma tutelare anche le differenze. La mancata comprensione di tale concetto sarebbe una tragedia non solo per tutta la popolazione in generale, ma anche per i designer stessi. Nella produzione industriale standardizzata, quando un oggetto è diverso dagli altri viene considerato fallato e lo si elimina. Personalmente preferisco i pezzi “fallati”: ognuno di questi ha una personalità ed è diverso.
B.L.: Questo è il concetto alla base delle sue opere delle “serie diversificate”?
G.P.: Certo. Prendiamo le auto, per esempio, sono praticamente tutte uguali, eppure io spero che in futuro potranno essere uniche per ogni cliente. Personalmente sarei a favore di una terza rivoluzione industriale che possa contare su nuove risorse tecnologiche. Quando, per la prima volta, ho riflettuto su come la catena di produzione potesse essere modificata dalla pressione atmosferica o dall’umidità e quando ho capito che perfino l’umore dell’operaio era in grado di modificare il pezzo prodotto, ho cercato un nuovo materiale e ho disegnato la sedia “Golgotha”. Il MoMA ne ha comprata una immediatamente perché ha notato in essa un’idea innovativa. Sono convinto che questo sia il futuro, credo che il tempo delle copie identiche sia finito e che stiamo entrando nell’era dell’originalità. Ritengo ce lo chieda il mercato stesso oggi.
B.L.: È interessante sentirle dire che gli oggetti hanno una “personalità”.
G.P.: Lasci che le parli di una lampada che ho disegnato personalmente, chiamata “Verbal Abuse”. Ricorda quando andavamo a scuola e tra i nostri compagni ce n’era qualcuno non proprio brillante? L’insegnante era solita dire “Non capisci e non avrai mai successo nella vita”. Ecco, per me questo è un abuso verbale. Una persona a cui venga detto questo può reagire in due modi: c’è a chi non importerà cosa dice l’insegnante ma anche chi crederà a quelle parole e comincerà a “piegarsi” in preda alla vergogna. Queste persone saranno “piegate” per la vita.
B.L.: Certo, la lampada è tenuta ferma da pesi di piombo.
G.P.: La lampada si erge eretta ma è possibile appendere, in punti precisi, uno due o tre pesi e farla piegare in modo che il fascio di luce venga angolato a seconda delle esigenze. La lampada
ha una doppia funzione, è pratica e racconta una storia di abuso verbale.
B.L.: Sono confuso. Sta dicendo che le persone a volte si piegano quando non dovrebbero o che dovrebbero rimanere forti e libere?
G.P.: Entrambe le cose. Dovremmo essere forti ma anche ragionevoli. L’abuso verbale fa parte della vita: marito e moglie commettono abusi verbali l’uno nei confronti dell’altro quotidianamente, lo stesso avviene tra dipendente e superiore. La lampada si riferisce all’abuso verbale che può avvenire a scuola, sul luogo di lavoro, in famiglia e tra le mura domestiche, ma basta togliere i pesi e la lampada ritorna eretta.
B.L.: Quindi lei spera che le sue creazioni arrivino alle persone anche a livello emotivo?
G.P.: Sì, dovrebbero stimolare l’immaginazione oltre che avere una funzione. Creiamo una sedia che solo una minoranza possiederà e questo non perché sia stata progettata appositamente per essa ma perché viene a crearsi una minoranza non appena la sedia è immessa sul mercato. Ad alcune persone, con una determinata mentalità, la seduta piacerà, ad altri no. Spesso, quando creo un oggetto, finisco con averne due, tre o anche dieci copie. Ciò non significa che di quell’oggetto esistano esclusivamente dieci copie; quell’oggetto è unico in se stesso ma lo riproduco
in più copie affinché altri possano apprezzarlo e comprarlo.
B.L.: Crede che le persone che acquistano i suoi prodotti, i suoi clienti, siano cambiati in quaranta anni?
G.P.: Più o meno quarant’anni fa, pochi erano interessati al mio lavoro. Ora ciò che faccio è più o meno quello che facevo allora, prendiamo uno dei divani che ho disegnato recentemente, si chiama “Montanara” e rappresenta un lago sulle alpi, ecco mi dicono che piace molto. Ciò significa che qualcosa è cambiato in questi quarant’anni. Credo che la gente sia più attenta al design oggi. Però mi piacerebbe tornare alla domanda precedente, quella sull’aspetto emotivo.
B.L.: Certo, faccia pure.
G.P.: Vorrei parlare del progetto architettonico a cui ho lavorato, principalmente per me stesso, quello per il sito del World Trade Center. L’11 settembre mi è tornato in mente un divano che avevo disegnato ventinove anni fa dal titolo “Sunset in New York”. Vivo e lavoro a New York dal 1980, ebbene da quel giorno di settembre ho cominciato a credere che la città corresse davvero il rischio
di vivere il proprio tramonto, sociale e culturale, a causa della tragedia che l’aveva colpita. Non ci sono state fornite brillanti soluzioni per ciò che era accaduto, solo discussioni e ritardi, in parte quindi la tragedia continua. Con il mio progetto, che prevedeva essenzialmente una ricostruzione delle Twin Towers unite tra loro da un ponte a forma di cuore, volevo rappresentare qualcosa che raramente viene espresso in architettura: l’ottimismo. È raro guardare un edificio e pensare “ecco, ora vedo le cose in modo più positivo”. L’esprimere un sentimento di questo tipo è semplicemente ben al di là delle competenze della maggior parte degli architetti. Quello che cercavo di dire con il mio progetto era: “Guardate, possiamo avere un futuro se siamo ottimisti. Avremo un futuro se saremo in grado di credere in cose nuove”.

This text by Brent Lewis was published on Modern Magazine, Spring 2010