area 105 | artificial landscape

Marco Casamonti: In questo numero di area dedicato ai paesaggi artificiali cerchiamo di affrontare anche il tema della finzione e del falso in architettura, interventi che attraverso il revival arrivano al kitsch come dimostrano le immagini della finta Venezia di Las Vegas, un genere paradossalmente apprezzato dal grande pubblico che non pare infastidito dai remake più grossolani...
David Grieco: Recentemente ho letto un articolo che affrontava il problema della forte crisi che sta colpendo anche la città di Las Vegas, un luogo che tra l’altro conosco molto bene e che ho visto trasformarsi fortemente in questi ultimi dieci anni. In particolare il giornalista sottolineva la profonda ignoranza del popolo americano e l’ingenuità di molti turisti che nel visitare la Venezia ricostruita nel deserto del Nevada tornano incredibilmente a casa con l’idea che quella messa in scena sia del tutto autentica, cioè l’originale.
M.C.: L’editoriale di questo numero scritto da Francesco Ventura è un breve saggio sulla verità del falso in cui l’autore sostiene il paradosso della perdita di valore dell’originale; la vera Venezia che è ormai una specie di souk di negozi di souvenir si è progressivamente trasformata in qualcosa di finto, di altro da sé. Conseguentemente se da un lato c’è il falso esplicito di Las Vegas, dall’altro c’è la progressiva falsificazione dell’autentico che provoca nel pubblico la perdita di riferimenti. In questo gioco tra realtà e finzione non solo l’architettura ma soprattutto il cinema recita un ruolo fondamentale a testimonianza che il rapporto tra queste due discipline è oggi completamente interconnesso e per alcuni versi sovrapponibile. Come il cinema anche il progetto architettonico è frutto di una visione, è la proiezione mentale di un paesaggio che successivamente sarà costruito.
D.G.: Credo che questo processo di prefigurazione o narrazione del paesaggio nel cinema, ascrivibile alla tradizione neorealista, si stia parzialmente modificando. Ad esempio Federico Fellini nei suoi film ha usato le architetture romane reinventandole completamente, basti pensare alle scene da lui girate nel quartiere dell’Eur che diventa, nello sguardo del regista, un luogo completamente diverso da come lo hanno vissuto i romani che, in fondo, non lo hanno mai accettato e, paradossalmente, abitato. Forse proprio per questo Fellini è riuscito a renderlo un luogo totalmente immaginario, autenticamente metafisico sebbene ci vivano da sempre migliaia di persone che vi andarono ad abitare semplicemente perché al tempo era meno costoso rispetto a quelli del centro di Roma. L’Eur, come è noto, nasce originariamente con intenti propagandistici seguendo un immaginario, quello del regime interpretato dagli architetti del tempo, finalizzato alla creazione di una sorta di City istituzionale che poi non si è mai concretamente realizzata. Il cinema realizza viceversa una sorta di immaginario dell’immaginario, si serve dell’architettura, la utilizza, la mistifica e la rende uno dei fattori di maggiore attrattiva dell’impianto narrativo, è il necessario corollario di una storia di cui è, per certi versi, il celato protagonista, basti pensare ai due film tratti dai romanzi di Dan Brown “Il codice da Vinci” e il recente “Angeli e demoni” dove si vede una Roma assolutamente artefatta che tuttavia rappresenta il vero motore del film, una sorta di indispensabile e ricercato basso continuo. Ovviamente c’è stato un incredibile incremento del turismo americano a Roma anche a seguito di ciò che nel cinema si è proiettato in relazione alla città e al suo immaginario. In questi ultimi anni, in cui il cinema è evidentemente in crisi, spesso nei film si utilizzano luoghi meno noti e quindi meno costosi sul piano produttivo, tuttavia questi luoghi spesso diventano, proprio a causa del film, mete turistiche frequentatissime. Per alcuni anni ho vissuto in Toscana vicino Pienza, una cittadina che negli anni ‘60 era totalmente abbandonata a causa del passaggio di un terremoto piuttosto violento; una città puntellata, trascurata, bella ma completamente in rovina. Da ragazzo malauguratamente ho fatto anche l’attore e mi capitò di essere nel gruppetto dei protagonisti del film “Romeo e Giulietta” di Franco Zeffirelli. Durante la ricerca del luogo dove poter girare, esclusa Verona, come nell’originale shakespeariano, poiché ormai trasformata in una città industriale, impraticabile e inagibile, finimmo a Pienza e in alcuni luoghi che all’epoca erano totalmente abbandonati consentendoci di girare con assoluta tranquillità. Molti anni dopo la città venne completamente restaurata e nonostante si fosse trasformata in un vero gioiello continuava a restare al di fuori degli itinerari turistici. Un giorno Anthony Minghella regista italo-inglese vi gira “Il paziente inglese” un film che, nato senza grandi pretese, finisce per vincere, per una serie di strane alchimie, ben nove Oscar. Un mese dopo iniziano ad arrivare frotte di torpedoni da tutto il mondo alla scoperta di spazi e luoghi immaginari, così Pienza non è più una città, è irriconoscibile, nella sua conclamata riconoscibilità. Esemplare a tale proposito è il caso di Praga, città completamente invasa dall’inquinamento delle immagini; anche il famoso cimitero ebraico è interamente tappezzato di manifesti, locandine, promozioni, dove tutto si è trasformato in luogo di consumo. Praga è una di quelle città che non esiste più per gli occhi e per lo sguardo delle persone, per gli abitanti poiché continua a sforzarsi di assomigliare all’immaginario proiettato di sé.

”Le tentazioni del dottor Antonio” episode by Federico Fellini in ”Boccaccio ’70”, 1962. Photo Paul Roland / Archivio Storico del Cinema / AFE
”Le tentazioni del dottor Antonio” episode by Federico Fellini in ”Boccaccio ’70”, 1962. Photo Paul Roland / Archivio Storico del Cinema / AFE

M.C.: L’aspetto singolare di questa nostra indagine sui paesaggi artificiali coincide con la circostanza che i paesaggi autentici nel momento in cui diventano icone dell’immaginario collettivo si trasformano in qualcosa d’altro, per cui “naturalmente“ e repentinamente si “artificializzano”, come abbiamo ora constatato per Pienza o Venezia. Per certi versi possiamo dire che il cinema nell’utilizzare i luoghi per la propria funzione narrativa finisce per condizionarli e confinarli nel tema della finzione.
D.G.: Questo perché il procedimento descritto le trasforma in uno scenario di cartapesta che finisce per assimigliare ai luoghi autentici descritti e utilizzati come merce di consumo.
M.C.: Tale conseguenza può essere considerata come l’aspetto negativo di un rapporto cinema/architettura che viceversa appare carico di potenzialità e ricco di aspettative legate, ad esempio, alla possibilità di modificare la percezione e il destino di alcuni luoghi che, nella finzione cinematografica, potrebbero mostrarci una realtà immaginaria, una sorta di iper-architettura. Basta ricordare i frammenti di spazi interni della Ennis-Brown House di Frank Lloyd Wright in “Blade Runner”, dove l’ambiente e le decorazioni impresse sui blocchetti di cemento si caricano di significati e riferimenti imprevedibili per l’architetto. Il cinema possiede in definitiva la possibilità di trasformare l’architettura e farle fare un ulteriore salto in avanti, o indietro, nell’immaginario.
D.G.: Il cinema riesce in qualche modo a distruggere i luoghi carichi di storia, di personalità, di poesia perché li travolge anche con la scia di turismo e di consumo che ne consegue trasformando talvolta le città in luoghi “cult “ e quindi, suo malgrado, in centri commerciali. Tuttavia, come tu sottolinei, il cinema ha anche la capacità di valorizzare luoghi che il fruitore non riesce a percepire; molti film di fantascienza di trenta anni fa hanno permesso di scoprire e valorizzare i grandi insediamenti industriali abbandonati che, nel corso degli anni, sono diventati altro, luoghi visitabili, parchi a tema, centri culturali, archeologia industriale degna di salvaguardia e attenzione. Oggi i quartieri e le case più belle di Londra sono le vecchie warehouse completamente reinventate in modo da creare un habitat di grande qualità e di grande suggestione. Luoghi di fronte ai quali, all’epoca, l’occhio del passante restava totalmente impermeabile perché erano semplicemente alveari di operai e di macchine mentre oggi sono loft straordinari che devono la loro abitabilità all’immaginario costruito dalla narrazione cinematografica che le ha proposte come modello possibile. Forse in questa capacità di prefigurazione si consolida l’apporto positivo introdotto dal cinema; un’opportunità tutta disciplinare che ha fatto scoprire e trasformare luoghi abbandonati da un’industria ormai obsoleta per spazi, macchinari e tecnologie in un ambiente di altissima qualità e suggestione. Questo fenomeno ha coinvolto l’Italia in misura minore perché non siamo mai stati un paese a vocazione veramente industriale, come si è verificato in tanti altri paesi, a partire dalla Germania.
M.C.: Secondo la tua esperienza è corretto affermare, come sosteneva Aldo Rossi, che il lavoro, il mestiere, la pratica dell’architetto e quella del regista che progetta una storia e poi la realizza, siano in realtà attività molto simili?
D.G.: Sono competenze e specificità assolutamente sovrapponibili e per certi versi identiche perché un regista, come un architetto, non può limitarsi ad immaginare uno spazio e il suo involucro dovendo necessariamente prevedere il mondo e lo scenario di vita e di accadimenti che questo contiene al suo interno, deve immaginare un’architettura non in quanto edificio di pietra e cemento ma in funzione di come verrà fruito e utilizzato. Il punto di partenza per me è lo stesso e... tra Renzo Piano e Ridley Scott non vedo molte differenze. È chiaro che cambia la chiave interpretativa e le opportunità connesse alla necessità della finzione narrativa poiché nel cinema si può ricorrere a qualsiasi trucco, si può decidere di far vedere solo la facciata o un frammento dell’oggetto rappresentato. Nel cinema se dietro una scenografia non c’è niente se non i puntelli di sostegno, non ha nessuna importanza, poiché il niente, quel vuoto, non viene ripreso e quindi percepito. Per l’architetto, viceversa fare un progetto significa poter realizzare un luogo che risulti effettivamente fruibile e abitabile al di là dei dati immediatamente visibili. In ogni caso, nella realtà operativa le problematiche sono molto più simili e vicine di quanto si sia portati a pensare. La scenografia di un film viene creata per poi essere distrutta, però anche il regista è costretto a fare i conti con i problemi della costruzione, con i tempi e i costi. Oggi i film si girano nei luoghi più soddisfacenti dal punto di vista economico. Questo spesso condiziona molto la qualità architettonica finale contenuta in un film e, molto spesso, la produzione e il regista devono scendere a compromessi. Per fare un film sull’antica Roma magari si è costretti a girare in Bulgaria cercando di adattare le situazioni ambientali alle suggestioni desiderate. Esiste comunque una mediazione con una sorta di committente immaginario, il produttore del film, che impone un preciso limite al budget. In questi casi e in simili condizioni direi che le difficoltà sono le stesse.

”Le tentazioni del dottor Antonio” episode by Federico Fellini in ”Boccaccio ’70”, 1962. Photo Paul Roland / Archivio Storico del Cinema / AFE
”Le tentazioni del dottor Antonio” episode by Federico Fellini in ”Boccaccio ’70”, 1962. Photo Paul Roland / Archivio Storico del Cinema / AFE

M.C.: Al di là delle condizioni pratiche è sul piano critico e intellettuale che gli architetti possono ricevere dal cinema quell’immediatezza visionaria e quella capacità di lettura della società e degli eventi che può costituire un utile alimento al dibattito sul progetto. In effetti, in particolare in Italia, cinema e architettura si sono reciprocamente condizionati intorno ad un comune sentire ascrivibile alla parabola neorealista. Negli anni ’50, l’Italia distrutta dalla guerra lascia la cultura architettonica priva di qualsiasi riferimento operativo; gli architetti non potendo più aderire e prorogare una modernità consumata dall’esperienza del fascismo trovano conforto e risposta al proprio senso di spaesamento nell’adesione ad una realtà oggettiva che si specchia nella visione delle periferie di Roma e Milano dove vive la povera gente. Le immagini proposte nei racconti neoralisti dei film di Rossellini, De Sica e Visconti, pur impietose, appaiono finalmente autentiche, prive di retorica quindi utilizzabili in un clima di cocente incertezza e delusione. Per gli architetti, l’adesione al vernacolare, e al gusto nazional popolare di derivazione gramsciana appare come l’ancora di salvezza in cui riconoscono un modo di esprimersi che li rende alternativi e originali rispetto al resto del mondo. Conseguentemente questo periodo di totale adesione  alle suggestioni che derivano dalle arti figurative, dalla letturatura, ma prioritariamente dal cinema rappresenta, per l’architettura, specialmente quella italiana, un momento di straordinaria intensità da cui forse occorre ripartire anche se con una maggiore e ovvia consapevolezza. In effetti, se tale tradizione legata all’osservazione e la rappresentazione della realtà è praticamente scomparsa nell’architettura italiana di oggi rilevandosi sporadicamente come una condizione rara e del tutto marginale, nel cinema tale attitudine segna con successo le punte più interessanti e significative della produzione contemporanea. I film attuali più coinvolgenti e discussi, anche in ambito internazionale, si occupano della realtà anche quando è tremenda o sottaciuta come ad esempio “Gomorra” girato a Secondigliano, nella zone periferiche più degradate della città di Napoli. Quanto rimane secondo te dell’esperienza del neorealismo nel cinema di oggi e quanto il cinema ha bisogno della realtà diversamente da un dibattito architettonico generalmente inchiodato nelle rappresentazioni opulente di nuovi futuribili scenari virati e condizionati sempre dalla ricerca di immagini seducenti?
D.G.: La forza del cinema italiano del periodo neorealista è straordinaria, infatti tutti sia in Europa che nel resto mondo si sono ispirati a quel modo di leggere e interpretare la realtà. Dopo il neorealismo, ad esempio, è nato il Free Cinema in Inghilterra che partiva dallo stesso principio rendendo esplicitamente omaggio alla cinematografia italiana. I grandi registi inglesi come Lindsay Anderson, Tony Richardson, Karel Reisz hanno sempre ammesso che quel cinema non l’avrebbero potuto proporre se non fosse stato anticipato dal Neorealismo e dalla figura De Sica. Si è trattato di un cinema che partiva dall’uomo e dai suoi bisogni, una narrazione che aveva nell’essenziale un elemento guida indiscutibile. Pensiamo ad esempio a un film minore di De Sica intitolato “Il tetto”, che racconta la storia di una piccola famiglia di poveri che alla fine degli anni ‘50, tra mille difficoltà e minacce, si costruisce una casa per poi vedersela abbattere. Il bisogno che guida tutto il film è quello dell’uomo e della sua necessità/desiderio di abitare. Ancora oggi il cinema italiano conferma questa tradizione, questo punto di vista. Purtroppo il dramma dell’attualità è che il cinema usa l’esistente senza porsi troppi problemi, interrogativi, interpretazioni, in fondo senza una autentica ricerca. Dopo Fellini, secondo me, non c’è stato più nessuno che si sia adoperato in questo senso.
M.C.: Comunque in un mondo in cui tutto si artificializza questo persistere di una ricerca sulla realtà, pensiamo ancora a “Gomorra” o ad altri film ambientati nelle più degradate periferie urbane, questa tradizione di leggere e riproporre la realtà nella sua desolante crudezza che caratterizza il cinema italiano è in realtà un‘opposizione alla finzione del grande cinema americano.
D.G.: Questa è la forza della cinematografia italiana che quaranta anni fa è riuscita a produrre e girare anche 480 film in un anno. La nostra industria cinematografica è stata per lungo tempo la seconda a livello mondiale dopo quella americana proprio perché era in antitesi e in alternativa rispetto alla costruzione di un mondo immaginario e lieto in cui tutti i sogni erano possibili. Una grande forza che ha perso vitalità che tuttavia viene recuperata ogni volta che il nostro cinema riesce a combinare queste componenti che sono finzione e realtà. Immagino che uno spettatore americano che assiste a “Gomorra” non creda che le Vele siano un luogo reale ma pensi piuttosto che sia una scenografia allestita per l’occasione, non arriva ad immaginare che quell’umanità descritta nel film possa effettivamente viverci e comportarsi come narrato.
M.C.: Eppure il cinema americano nel presentare costantemente finzioni narrative svela drammaticamente che la realtà è sempre più avanti anche dell’immaginazione più esasperata, più estrema. Pensiamo alla banalità de ”L’inferno di cristallo” rispetto alla drammaticità autentica della tragedia delle Twin Towers. Parallelamente nel dibattito che si svolge tra gli architetti italiani si stigmatizza spesso la tendenza, certamente negativa, ad inseguire modelli stilistici comportamentali e culturali che derivano da altri paesi: talvolta vediamo riprodotti nelle nostre periferie piccoli edifici olandesi un po’ storti oppure di derivazione californiana un po’ decostruiti...
Se la cultura italiana ha espresso il suo volto più fecondo e originale tra gli anni ’50-’60, sia nell’architettura che nella letteratura e nel cinema, allora forse la nostra condanna o la nostra peculiarità è quella di leggere e interpretare la realtà al di là di ogni finzione.

”Il tetto” by Vittorio De Sica, 1956. Photo G.B.Poletto / Archivio Storico del Cinema / AFE
”Il tetto” by Vittorio De Sica, 1956. Photo G.B.Poletto / Archivio Storico del Cinema / AFE

D.G.: Questa, secondo me, deve essere la nostra unica linea guida anche se difficilissima da applicare in un paese che possiede oltre il 70% del patrimonio architettonico mondiale e nonostante questo fatica a farsi strada perché l’orientamento culturale prevalente appare continuamente tirato e distratto da tutte le parti. Dobbiamo riconoscere di essere un popolo in perenne crisi di identità perché non riusciamo a fare combaciare la nostra attività e il nostro pensiero con la consapevolezza della nostra esistenza. Probabilmente abbiamo attraversato il Novecento senza una vera adesione alla cultura del moderno, soffrendo per questo di un’evidente sindrome d’inferiorità; basti pensare alla scarsissima risposta che c’è in Italia nei confronti dell’arte contemporanea. A New York o in altre parti del mondo troviamo grandissimi artisti italiani riconosciuti, acclamati che in Italia nemmeno conosciamo perché siamo vittime di questa specie di ombra di fascismo che oscura tutto ciò che è moderno. Poco tempo fa sono stato a girare un film in Ucraina, a Kiev, una città dove non andava a girare nessuno e dove inaspettatamente ho trovato una piccola stazione portuale sul fiume Dnepr progettata da Gio Ponti. Un gioiello bellissimo, ignoto sia agli ucraini che agli italiani; in fondo i grandi architetti italiani degli ultimi cento anni hanno vissuto come e peggio dei profughi.
M.C.: In Italia l’architettura, soprattutto quella contemporaanea, non è un’arte molto amata; di questo devono far ammenda gli architetti perché dopo un periodo felice sono stati causa, dal boom economico degli anni ‘60, per oltre vent’anni, della distruzione di gran parte del paesaggio italiano a cui certamente hanno concorso altre figure ben più rilevanti sul piano del dissesto complessivo. Attualmente gli architetti scontano questo processo non colto col quale hanno assecondato un paese che aveva solo bisogno di quantità. Tuttavia, qualche anno fa, nel corso di una intervista, Franco Purini espose una teoria secondo la quale è necessario imparare ad osservare il paesaggio della periferia con occhi nuovi, con una altra lente, con un altro obiettivo. Dal momento che l’80% delle persone vive oggi nelle periferie e solo il 15-20% di fortunati abitanti risiede nei centri storici dobbiamo forzatamente convincerci del fatto che la periferia sia portatrice di valori positivi se non vogliamo accettare l’idea che 80% delle persone viva nell’alienazione del degrado ambientale. Forse il cinema rispetto a questo paradosso interpretativo potrebbe essere d’aiuto poiché attraverso la finzione scenica e narrativa potrebbe mostrare i paesaggi periferici e marginali della città in una dimensione completamente diversa, almeno sul piano estetico, rispetto a quella che realmente siamo abituati a considerare.
D.G.: Nel cinema è difficile trovare qualcuno dotato di un simile slancio e di una chiara consapevolezza sul piano programmatico del proprio agire. L’unico esempio che mi viene in mente è quello dell’episodio “In vespa” in “Caro diario” dove Nanni Moretti percorre la periferia romana e giunto a Spinaceto, uno dei primi quartieri minacciosi nati intorno a Roma, conclude con una battuta esilarante: “Spinaceto: pensavo peggio, non è per niente male!”. Questo è l’unico esempio che ricordo, purtroppo però non c’è questa fantasia diffusa nel cinema italiano.
M.C.: Essendo l’architettura un’arte di prefigurazione e anticipazione, come del resto il cinema, talvolta produce modelli abitativi che le persone comuni non sono ancora pronte, nel presente, ad abitare. Forse il cinema, ha le potenzialità e la capacità di proporre e divulgare nuovi modelli abitativi e insediativi rendendo l’utente meno ostile alle novità. Il Corviale oggi è un luogo che consideriamo deteriorato ma anche l’Unité d’habitation di Le Corbusier a Marsiglia era un luogo analogo che oggi si è trasformato in una zona cult della città in cui risiedono intellettuali e artisti che considerano l’Unité in un modo diverso rispetto al passato. Seguendo questo processo forse anche la periferia italiana o il Corviale tra venti anni potrebbero diventare un sistema abitativo confortevole. In fondo l’architettura, come il cinema, è un’arte di anticipazione capace di creare uno scarto col presente, scarto che molto spesso si traduce in un conflitto causato dalla mancanza di conoscenza.
D.G.: I francesi da questo punto di vista hanno un grande talento. Basti pensare a un’altra periferia rispetto a quella italiana, come quella della Villette il cui parco a tema culturale è diventato uno delle principali attrazioni turistiche parigine; un complesso immenso sulla cui architettura si potrebbero esprimere giudizi anche negativi che però sono annullati dall’utilizzo interessante di questo spazio. Gli italiani, al contrario, non hanno grande fantasia in questo campo poiché pesa sulle loro spalle un passato che li condanna a non trovare una nuova identità. Schematicamente potremmo dire che i francesi sono sempre pronti a rovesciare le situazioni trasformandole in senso positivo, come in parte hanno saputo fare anche i tedeschi perché si sono dovuti allontanare il più possibile dall’incubo della II Guerra Mondiale, del nazismo e dell’olocausto; per questo tra le grandi capitali europee Berlino rappresenta forse la città più interessante dal punto di vista architettonico, probabilmente perché c’è quella libertà operativa e quella voglia di riscatto che a noi italiani non appartiene. Concordo sul fatto che il cinema, proprio per la sua immediatezza, potrebbe riuscire, meglio di altre discipline, ad individuare quelle vie d’uscita d’alienazione che sono difficili da individuare nella realtà, però ritengo sia difficile farne un uso programmaticamente strumentale. In un film, l’ambientazione e il mondo che rappresenta devono essere credibili. Non nei termini in cui la credibilità era concepita trenta o quarantaanni fa cioè sul piano della verosimiglianza. In un racconto deve risultare attendibile il mondo in cui si svolge la narrazione, le problematiche che quel mondo e quelle scene veicolano, anche se la vita dei suoi personaggi deve essere reale per 90, 120 minuti al massimo. Ovviamente il cinema deve essere credibile anche nella dimensione di una totale invenzione, basti pensare a film come “Blade Runner” che tu hai ricordato, un insieme assolutamente realistico nonostante descriva un mondo totalmente inventato; l’identità dell’universo che si racconta, dei personaggi che sono al centro della storia, deve necessariamente essere forte, netta, delineata affinché lo spettatore che è seduto in platea possa immedesimarsi totalmente. Per me l’ambientazione è uno degli elementi centrali del lavoro. Solitamente racconto storie molto forzate rispetto alla realtà e sono sempre alla ricerca di luoghi capaci di concretizzare le mie e conseguentemente le altrui fantasie. Per tali motivi viaggio per il mondo come un rabdomante in cerca dell’acqua trovando, ogni volta, solo una piccola percentuale di quello che mi interesserebbe rappresentare, frammenti che cerco di trasformare nella totalità del paesaggio sotteso, anche se a volte mi devo arrendere all’impossibilità di una visione complessiva ed esaustiva. L’ambientazione, ciò che tu chiami paesaggio artificiale in architettura, rappresenta in un film l’elemento più importante e difficile da individuare. Il prossimo inverno andrò a girare in Tunisia dove esiste la ricostruzione in scala reale di un paese siciliano che si chiama Bagheria. Giuseppe Tornatore, che vi è nato, ha fatto ricostruire questa cittadina vicino Tunisi ricreandola in tre differenti epoche: i primi del Novecento, gli anni Trenta e il 1975. Il film, che uscirà a settembre con il titolo di “Baaria”, ha richiesto un enorme impegno economico dovuto alla creazione di una scenografia così puntuale e precisa, tuttavia rimane importante e necessaria la ricostruzione di un ambiente senza il quale la storia non avrebbe senso, non avrebbe valore. Probabilmente questa necessità della finzione dovrebbe essere studiata e compresa nella sua realtà per capire gli enormi sforzi che il cinema compie per raggiungere, appunto nella finzione, una condizione di assoluta verità, quella verità che forse gli architetti dovrebbero conseguire con altrettanta pervicacia quando si apprestano a progettare nuovi e differenti paesaggi urbani o naturali che siano.

David Grieco è nato a Roma il 19/9/1951. Da giovanissimo è stato attore (“Romeo e Giulietta” di Zeffirelli, “Teorema” di Pasolini, “Partner” di Bertolucci), poi assistente alla regia (Pasolini, Bertolucci, ecc.), giornalista e critico cinematografico (l’Unità, Radiorai, TELE+), scrittore (“Fuori il regista”, “Il comunista che mangiava i bambini”, “Parla Greganti”, “Funari è Funari?”, ecc.) sceneggiatore (“Sogni e bisogni”, “Caruso Pascoski”, “Mortacci”, “I magi randagi” ecc.) produttore cinematografico (“Angela come te”, “Mortacci”, “Clown in Kabul”), autore e conduttore radiofonico (Hollywood Party) nonché televisivo (autore e conduttore di numerosi programmi per TELE+ e Canal+), e autore di quasi cento documentari (“Who’s Woo?”, “Borgata America”, “La favola inventata” ecc.). “Evilenko” (interpretato da Malcolm McDowell), tratto dal suo romanzo “Il comunista che mangiava i bambini”, è stato il suo primo film in qualità di regista. “Evilenko” nel 2005 è uscito in tutto il mondo (Stati Uniti e Cina compresi) e ha vinto 18 premi, tra cui il Nastro d’Argento internazionale, il Placido d’oro al Festival di Barcellona e il Golden Reel Award per il Miglior Regista al Festival di Tiburon (San Francisco). In pubblicità, David Grieco ha realizzato negli anni’80 spot pubblicitari, spot istituzionali per il Ministero dei Trasporti (interpretati da Ninetto Davoli), e più di recente (nel 2006) spot per Discovery Channel (interpretati da Laura Morante e Sergio Rubini. David Grieco è anche l’autore della memoria di parte civile al processo contro Pino Pelosi, l’assassino di Pier Paolo Pasolini. Attualmente, Grieco sta preparando il suo nuovo film, “Secrets of Love” (interpretato ancora una volta da Malcolm McDowell) che si girerà nell’Africa del Nord.