area 104 | introverted architecture

museo del tesoro di San Lorenzo
photo by Pietro Savorelli

Se è mio il compito di indagare su quanto d’introverso si manifesta nella fase di maturazione dell’Albini dei primi anni Cinquanta, su uno dei temi relativi alle classificazioni ancora arcaiche del primo dopoguerra, l’alternanza zeviana, spazio interno-spazio esterno, che pur archiviata, oggi riprende vita nel dibattito di revisione del moderno, non posso non aderire all’appello di chi, come lui, si volge verso la tradizione, osservando il proprio mestiere da un punto di vista innovativo. Albini continua nel dopoguerra nel suo percorso silente, consapevole che le verifiche e i rimandi teorici, che pur arriveranno successivamente, non potranno oscurare l’eccellenza del lavoro e la sua permanenza di lunga durata nell’arte italiana. L’introversione è il volto reale di questo procedere metodologico  lineare, enunciato nei cenacoli di tendenza, mentre la sua ricerca, per converso, sperimenta fasi alterne, fra esperienze concluse e nuovi indirizzi. Intorno al 1951 prende il via una serie di realizzazioni che comportano, senza dirlo, una revisione dissonante dei suoi arnesi del mestiere artigiano, quali la Galleria di Palazzo Bianco a Genova, gli uffici INA a Parma e l’insediamento residenziale a Cesate. A chiusura di questa fase, nel ’52, inizia la vicenda genovese del Museo del Tesoro di S. Lorenzo, dove il Maestro raggiunge il punto d’eccellenza del suo lavoro, ma anche segna l’anomalia, vera o presunta, su cui soffermarci per un’osservazione introversa, che valuti le ragioni di un tema caratterizzato da fatti separati e che implica la connessione di un interno compiuto con un interno altro. Un progetto che supera i riferimenti concettuali, già sperimentati, negli anni Trenta, in interventi che hanno disegnato la particolarità della scuola razionalista milanese, tetragona nel verbo, ma lieve nel materializzare lo stile in opere compiute. Questo traspare ancora nell’inquadramento cartesiano di Palazzo Bianco, ma con il Museo del Tesoro di S. Lorenzo cambia, infine, il segno del tempo e della storia e si entra nel cuore di una mutazione genetica, ove variano la sostanza materica e il peso dei manufatti. In origine, il restauro di Palazzo Bianco segna una prima riflessione che riassume un passato ventennale e riafferma la primogenitura della sua ricerca, con l’esaltazione di un’assestata sospensione formale dell’arte, la cui cifra stilistica raggiunge il compimento di un’astrazione lirica. Lontano dal razionalismo primigenio, Albini crea un itinerario interno alla grande Maniera, con l’invenzione di un astrattismo che si confronta dal dentro della composita fabbrica alessiana. Di seguito, una seconda revisione, è riscontrabile nella citazione esplicita del disegno rastremato del fronte lago, del primo Mies americano dei Promontory Apartments di Chicago, che influenza la configurazione degli uffici INA di Parma, dove un partito geometrico rigoroso è fissato con regole di cristallo, pronte, tuttavia a mutarsi, nella strategia distributiva dell’interno-esterno, nel nodo tipologico dell’ellisse rinascimentale del collegamento verticale. Da questa realizzazione, nel 1951 appunto, inizia la mia ricerca d’affinità con i Nuovi Maestri. La presenza di Albini (e della Helg) in cantiere ha costituito, per un osservatore clandestino come me, il viatico per cogliere la successione del montaggio dei componenti e l’ordinamento dei tempi di costruzione. Una scuola di progettazione all’aria aperta, che, di fatto, ha mutato il mio rapporto con il piano di studi del Politecnico e mi ha indotto ad una verifica sullo stesso pensiero di Albini, fautore di coerenze esplicitate al limite del paradosso (la sua leggenda personale: l’intangibilità di un metodo del comporre di natura calvinista), messe in crisi a partire dalle ragioni implicite del cantiere. Come ho potuto constatare nella sequenza che procede dalla struttura, dai pilastri (rastremati), fino ai tamponamenti (rivestiti) e alla posa, via via, degli altri componenti, lo schema modulare miesiano muta di segno, recuperando una definizione materica, che costituisce la differenza rispetto alla mera citazione di un appuntamento ideale con un Mies minore. L’immaginifica esposizione di sé e della sua storia nell’interno aulico del palazzo di Genova, assieme alle citazioni miesiane di Parma, affermate e successivamente sovrastate da partiti decorativi, testimoniano il lavorio e l’interna inquietudine che conducono, poi, all’intervento di Cesate. Qui si segue la linea d’inusitate tipologie disposte oltre gli schemi del razionalismo canonico, e si mutano le schiere in un incastro improbabile (con il pretesto dell’orientamento eliotermico), per inventare un congegno meccanico, un gioco di bravura, che esprime sottese perplessità, già rivelate nel coevo edificio IACP del quartiere Mangiagalli
(in collaborazione con Gardella). L’esame di queste opere realizzate in contemporanea, mostra, di nuovo, approcci diversi e variazioni nelle metodologie d’intervento. Nel piccolo quartiere, Albini si rinchiude in se stesso e affronta elucubrazioni tipologiche astratte, pur se dai tratti tecnologici consueti, distanti dai contributi dei sodali Gardella e BBPR, più attenti alle sollecitazioni di un populismo di maniera.

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Il percorso tracciato, nei primi anni Cinquanta dal lavoro di Albini, rivela, dunque, strade distinte, che pur congiunte da una pratica paziente, testimoniano avanzamenti, pause e motivati risvegli, tutti riconoscibili e derivanti dal suo lavoro d’artista dell’avanguardia europea. Un tratto d’inquietudine permane, si fa ricerca incessante e si conclude in risultati d’eccellenza, nell’intervento iniziale, il restauro di Palazzo Bianco (1949-51), ove le relazioni esperite mostrano il segno riassuntivo della sua adesione a quella tendenza propria delle avanguardie storiche che trova la strada nell’integrazione fra l’antico edificio e l’intervento innovativo. Siamo di fronte alla realizzazione di quel passo da fare chiarito successivamente (il dibattito sui centri storici) che e prospettive teoriche dell’architettura non avevano ancora messo a punto. L’opera terminale della sequenza, il Tesoro di S. Lorenzo, ha un’altra storia: iniziato al termine del cantiere di Palazzo Bianco, è stato previsto nel sottosuolo, al disotto di una corte interna dell’Arcivescovado. Si dà così, avvio alla costruzione di una cripta distaccata dall’abside del Duomo, s’inventa uno spazio collaterale alla sacrestia ove il fulcro del Museo acquista una definizione interno-esterno in reciproca autonomia: i tholoi (così chiamati con familiarità nello studio Albini) sono collegati e distinti da uno spazio geometrico di contenimento, la cui impronta ricalca un esagono regolare (una maniera diffusa nel dopoguerra), i cui lati convergono ai centri dei tre ambienti principali. La geometria interseca figure canoniche che, prima di essere coinvolte da un assetto spaziale determinato, si palesano nella loro autonomia formale (l’esagono, i cilindri caratterizzati da una sezione a mandorla) e determinano, di seguito, percorsi interstiziali, deambulatori esterni, rispetto ai fuochi delle zone di esposizione principale. Lo spazio ipogeo così determinato si carica di valori evocativi suscitati dall’uso della Pietra di Promontorio (il rimando al Mediterraneo dei tholoi micenei), che si concreta in lastre di forte spessore, posate anche sul pavimento in un disegno radiale specchiante la aggiera dei travetti della copertura. Siamo, infine, di fronte all’intervento in un luogo eletto ove Albini, affascinato, introduce nel gioco compositivo la misura arcaica di un tempo trascendente, proponendo, per converso, il peso di materiali tramandati da sempre e celebrati, in una cripta ideale, dalla pietra – scolpita a mano, dalla gradina e dallo scalpello – per evocare la chiamata verso la tradizione aulica dell’architettura e della sua costruzione, nell’uso storico degli strumenti del costruire. Nel dibattito sulla tradizione in architettura promosso da Casabella-continuità nel 1955 (in una data in cui il cantiere era ancora in fase di completamento), Albini ha testimoniato che “l’architettura, nel momento attuale, credo tenda verso la realtà, abbandonando le posizioni idealiste, le teorie, i principi, gli schemi: tende verso una realtà presente, che è la risultante di numerose componenti attuali e passate, e di questa realtà vuole prendere coscienza”. Una chiamata di correo del “realismo”, una traccia culturale per un futuro possibile, che l’architettura del razionalismo critico della scuola italiana ha potuto seguire.