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Via Novissima: Josef Paul Kleihues, Hans Hollein, Massimo Scolari

In preparazione della ricerca condotta dalla rivista sul tema dell‘edificio urbano (architetture poste nella cortina muraria della città consolidata) abbiamo chiesto a Paolo Portoghesi un dialogo-intervista sull‘argomento, a 33 anni di distanza dalla “Via Novissima“. L‘incontro si è svolto casualmente, ma simbolicamente, nella città di Siracusa, ad Ortigia, in occasione di una conferenza organizzata per la Facoltà di Architettura dal professor Luigi Alini. Dopo la trascrizione dei contenuti della discussione abbiamo chiesto a Vittorio Pizzigoni di commentare come ‘voce fuoricampo‘ i temi trattati, inserendosi nella discussione con la necessaria distanza;  si tratta invero non di una semplice disgiunzione spaziale ma più opportunamente generazionale anche per tentare di comprendere se il tempo trascorso possa offrire nuove prospettive e osservazioni.

Marco Casamonti: Probabilmente le generazioni che oggi iniziano a lavorare, o hanno da poco concluso il proprio ciclo di formazione, non conoscono la “Via Novissima“ a differenza della nostra generazione che, su quella Biennale e su quella proposta culturale, ha aperto un dibattito profondo e intenso. A distanza di oltre trenta anni da quella rassegna possiamo riflettere su quella esperienza con il necessario distacco, anche perché ritengo che dietro quella titolazione “La presenza del passato“ ci sia un ragionamento più complesso di quello immediatamente percepibile, una ricerca che coinvolge con la proposta del disegno di una facciata una complessa idea di città che si riconosce nel concetto di continuità e permanenza oltre l‘affermazione che un edificio urbano è un edificio di cortina a misura conforme e non un monumento, una singolarità.
Paolo Portoghesi: Certamente quell‘esperienza ha avuto una sua ambiguità intrinseca. Da una parte l‘intenzione era quella di portare l‘accento sull‘attualità della strada dopo la negazione proposta da Le Corbusier e la sua celebrazione del corridoio in antitesi all‘idea di urbanità. Tuttavia, gli anni del dopoguerra sono stati anni di riflessione e non vi è dubbio che lo stesso Le Corbusier si fosse convertito mostrando un‘attenzione sul significato dell‘architettura includendo la storia come elemento fondante del progetto, come dimostra l‘esperienza del Convento de la Tourette. Da una parte la Via Novissima era questo, ossia la ripresa del rapporto diretto con la città europea nella sua genesi, dall‘altra è stata interpretata come una sorta di esibizionismo degli stili personali, perché secondo molti critici la nostra proposta rappresentava un tentativo di nuoto controcorrente perché ci allontanavamo dal movimento moderno in tutte le possibili direzioni. Viceversa il nostro atteggiamento voleva essere soltanto il ritorno alla logica urbana e un allontanamento dalla autoreferenzialità.
Vittorio Pizzigoni: Io ho conosciuto la “Via Novissima“ solo attraverso i libri e senza vivere il dibattito architettonico che l‘ha accompagnata. Però non credo sia solo questa distanza temporale a farmi pensare che una delle caratteristiche più significative di questa mostra sia stata la complessa pluralità degli architetti coinvolti. Architetti con posizioni abbastanza distanti si sono confrontati senza generare contrapposizioni di parte e senza sentire il bisogno di esclusioni eccellenti o di nemici contro cui lottare. Pur mantenendo un‘impostazione chiara e ben riassunta dal titolo ancora attuale, “La presenza del passato“, mi sembra che la prima Biennale sia stata segnata da una certa inclusività. Anche il triplice omaggio a Gardella, Johnson e Ridolfi – una trilogia che mi ha sempre affascinato e sorpreso – può in parte confermare questa caratteristica propria di una grande operazione culturale.

M.C.: Il fatto straordinario della Via Novissima è che fu un progetto a cui parteciparono personalità come Rem Koolhaas e Frank Gehry poiché furono invitati non solo coloro che culturalmente potevano aderire con più facilità all‘idea della costruzione della città in senso tradizionale, ma anche architetti e intellettuali di diverso avviso. C‘è stato un dibattito sul tema? Sono stati tutti d‘accordo con la tua proposta? Quali sono stati gli elementi di dissenso?
P.P.: Tutti rifiutarono le regole proposte che erano state studiate insieme a Francesco Cellini e Claudio D‘Amato. La nostra idea era che le facciate dovevano stare dietro le colonne in modo che servissero da confine, invece tutti hanno pensato a delle facciate che stessero davanti, che le facessero sparire. Questa è stata una sorta di disubbidienza che ha messo in rilievo il desiderio di un‘espressione personale. Quanto al fatto di aver chiamato non solo coloro che avevano avuto un rapporto con la storia ma anche chi lo aveva avuto in una forma assolutamente diversa e non conformista, posso dire che Gehry aveva appena concluso la famosa Loyola University e arrivato a Roma voleva vedere solo le opere di Borromini. L‘influenza di Borromini però si vede solo nelle opere di 5, 6 anni dopo poiché in quel momento era ancora un architetto realista che aveva saputo esprimere la marginalità americana e aveva uno straordinario interesse per Venezia: fu scelto proprio per la sua promessa di non conformismo.
Koolhaas invece ci sorprese perché il suo progetto prevedeva semplicemente un telo steso curvilineo e ricordo che quando vide che la sua facciata era vicino alla mia mi disse che entrambi coltivavamo la stessa passione e attrazione per la linea curva. In realtà Koolhaas era stato scelto per aver scritto “Delirious New York“, per aver preso contatto con la storia in modo diverso.
M.C.: Rem è stato nominato direttore della Biennale del prossimo anno e tra tutti gli architetti contemporanei, esclusi ovviamente i nostalgici, il suo lavoro è quello più ricco di citazioni, rivolto al passato e alla storia compreso il Moderno. Ad esempio, nell‘ambito della scorsa Biennale, si è preoccupato dei centri storici, tema singolare per un architetto olandese. Questo, in qualche modo, fa capire che in fondo sul tema non c‘è stato sufficiente dibattito, tuttavia, come dimostra il suo interesse, si tratta di un tema importante e forse ancora da indagare.
P.P.: Dobbiamo ricordare che probabilmente esistono delle colonne d‘Ercole nella storia, limiti invalicabili che riconosciamo per esempio nelle proposte del 1920 o del 1870. Io ho sempre lottato per abbattere queste colonne anche se ogni tanto, inevitabilmente, riemergono. Koolhaas, ad esempio, è un personaggio di grande cultura, è stato allievo di Ungers, quindi è un architetto molto legato alla storia, ma questo suo rapporto non implica un senso di responsabilità nei confronti di questa. Inoltre, la città proposta da Koolhaas non l‘abbiamo ancora vista: quando interviene nell‘Auditorium di Porto mostra una straordinaria qualità formale, inserendo l‘edificio come un meteorite giunto dall‘alto e appoggiato casualmente al suolo rifiutando però un rapporto diretto con la terra, con il tessuto urbano.

M.C.: Ritengo che Rem Koolhaas sia l‘espressione compiuta dell‘architetto postmoderno, l‘architetto che più di ogni altro oggi guarda alla storia e opportunamente al contesto; il grattacielo della CCTV a Pechino è stato un atto di protesta verso la richiesta del bando di fare un edificio verticale ma, constatato che Pechino è sempre stata una città orizzontale, Koolhaas ha deciso di proporre un edificio strano, un grattacielo orizzontale che torna su se stesso, che inizia secondo le richieste del governo e finisce nel segno della tradizione.
P.P.: Questo edificio è un esempio tipico di postmodernismo, sono d‘accordo, tuttavia prendiamo atto che questo flirt con la storia non ha mai prodotto relazioni profonde. Sicuramente è un grande personaggio e l‘imprevedibilità è un suo merito ma, al tempo stesso, una sua debolezza perché ovviamente non c‘è un metodo di Koolhaas che va dall‘inizio alla fine, che attraversa con consapevolezza il processo progettuale. In questo senso, un po‘ come Stirling, è un personaggio che si è servito magnificamente della storia per esprimere una personalità complessa e ricca. Tornando alla “Via Novissima“, ritengo che questa abbia avuto molta influenza sugli architetti proprio perché riproponeva in modo diretto una strada che si svolge tra due quinte. La continuità delle quinte e allo stesso tempo la loro variabilità riproponeva un senso di competizione tra gli architetti che si era spento, ognuno faceva le sue ipotesi architettoniche, accostando Mies a Le Corbusier, ad esempio nel Weissenhof, pur essendo qualcosa di impossibile e stonato. Il Weissenhof, pur nelle sue limitate dimensioni, mostra l‘incapacità di fare città. Certamente nel periodo razionalista sono stati realizzati dei bei quartieri ma non delle città.
V.P.: Una caratteristica della “Via Novissima“ è anche quella di aver esposto l‘architettura attraverso veri e propri edifici, e non come spesso accade attraverso disegni, modelli o fotografie: una modalità espositiva che permette di cogliere i valori spaziali di un‘architettura rendendola facilmente comprensibile anche al grande pubblico.
M.C.: Penso alla “Via Novissima“ come una congiunzione virtuale tra Genova e Berlino, ossia tra Strada nuova di Genova che è come l‘origine e Berlino dove questa strategia si è consolidata nella contemporaneità. Basti pensare al lavoro di Hans Stimmann, cioè alla proposta di ricostruire su lotto gotico, sulla parcella tradizionale, i nuovi edifici affidando alla strada un ruolo fondativo e fondante rispetto alla città. La Friedrichstrasse in fondo è esattamente la Via Novissima. È interessante capire se tu pensi che in qualche modo la Via Novissima abbia avuto un ruolo, come io ritengo, per il costituirsi e il consolidarsi di questi due fenomeni.

P.P.: Il gioco senza regole non è un gioco. In realtà la Via Novissima è nata proprio a Berlino: a me l‘idea è venuta guardando il luogo dove adesso c‘è Alexanderplatz. In quel momento c‘era una fiera di Natale dove ogni stand era su due piani, il piano superiore però non serviva a niente se non a fingere l‘esistenza di una casa. Sono rimasto affascinato da questa immagine perché ho scoperto l‘idea della città gioiosa soprattutto quella meridionale: a Siracusa, dove siamo adesso, i palazzi sono tutti dotati di balcone che serve principalmente a creare, in determinate condizioni, un‘estroflessione della casa verso la strada. Questo è il segreto della qualità della città nata nel medioevo e sviluppatasi successivamente, la quale non ha più la parete come chiusura e divisione tra domus e domus ma è diventata un elemento straordinario di espressione del rapporto con la società, dello stare a casa e nello stesso tempo consentire di stare per strada. Tutto ciò purtroppo non si è realizzato nella “Via Novissima“ perché quasi la metà degli edifici è di un‘austerità sconcertante, alcuni sono volutamente ironici ma con un‘ispirazione scenografica eccessiva. Gehry ha realizzato una delle facciate che io amo di più, dotata di assoluta trasparenza, che insiste più sulla struttura che sull‘immagine e ci fa capire come in quel momento Gehry fosse nutrito di dubbi, in una situazione esistenziale estremamente positiva. Dopo è diventato l‘uomo delle certezze e terribilmente ripetitivo. In quel momento molti hanno considerato il suo gesto come un cedersi all‘accademia, io invece penso che sia la persona che ha risposto in modo più problematico ad una domanda imbarazzante come quella delle facciate.
M.C.: Sono convinto che l‘Italia abbia vissuto una stagione straordinaria, legata anche a contingenze particolari, la Seconda Guerra Mondiale, i bombardamenti, i centri storici distrutti, e abbiamo risposto a queste esigenze in un modo altrettanto straordinario per circa dieci anni, dal 1947, anno della casa del Viticoltore di Gardella, sviluppando eccezionali esempi e riflessioni sull‘architettura e la città che si realizzano in particolare tra gli anni 1957 e 1960 e nei quali vengono realizzati tre esempi eccezionali tra i quali l‘edificio di Albini in Piazza Fiume a Roma (l‘attuale Rinascente), Casa alle Zattere di Gardella a Venezia e la Torre Velasca dei BBPR. In realtà in questi anni l‘Italia si affianca al dibattito europeo proponendo una via del tutto originale e fruttuosa rispetto al tema della ricostruzione urbana, ritengo quindi che da lì occorra ripartire. La cultura italiana ha proposto in quel particolare momento la più interessante e lungimirante proposta culturale nel tentativo di uscire da una situazione di crisi e dare una risposta che in fondo ancora oggi mostra tutta la sua attualità. Poi ci sono stati venti anni di buio, fino alla Via Novissima (1980). Adesso sono passati altri trenta anni e penso che oggi questo messaggio sia molto attuale, soprattutto in risposta all‘emergenza; ad esempio Pechino, una città costruita sul tessuto ordinato e orizzontale degli Hutong, sta diventando una città isolata di grattacieli. Penso sia il momento di riproporre con forza il messaggio delle preesistenze ambientali, del rispetto e valorizzazione delle identità e differenze rispetto alla dilagante standardizzazione urbana.
P.P.: Penso in ogni caso che l‘Europa debba fare i conti con se stessa, così come l‘America, anche se sono due situazioni completamente diverse: la mania dell‘omologazione è sbagliata. Anche l‘America ha un problema di memoria: le città americane hanno dei centri storici di notevole qualità che sono stati trapiantati dall‘Europa (per esempio attraverso lo schema a scacchiera) anche se con qualche originalità nel linguaggio ma attraverso lo sviluppo in verticale, l‘immaginazione della provincia, ha assunto caratteri diversi da quelli che per esempio caratterizzano l‘Italia. L‘Europa in genere presenta una serie di città di incalcolabile valore ambientale, ognuna delle quali rappresenta una particolare e specifica identità per cui la forza della cultura europea sono proprio le differenze. Non si devono estinguere le identità locali, gli elementi tradizionali e quindi non c‘è altra strada che fare marcia indietro. I valori della località nell‘architettura europea sono fondamentali perché noi abbiamo un‘eredità che non può essere dimenticata o dispersa, ma va messa a frutto. L‘architettura degli anni ‘50 è importante perché dall‘interno del Movimento Moderno, mantenendo tutta una serie di regole e comportamenti, gli architetti italiani sono stati capaci di riconquistare una continuità con la storia locale. Per esempio la casa di Albini a Parma ha un senso perché a Parma c‘è il Battistero di Antelami, se non ci fosse quell‘edificio non ci sarebbe la casa di Albini, che è nata da una riflessione sull‘identità della città.
La cosa importante è quindi riuscire ad imparare dalla storia a sentire il luogo; quando Rogers parla di preesistenze ambientali, proponendo un discorso che poteva sembrare in un certo senso retrospettivo e romantico, affermava appunto che si poteva comprendere il valore del progetto osservando l‘architettura.
V.P.: Credo che il contesto sia una peculiarità oggettiva dell‘architettura e che sia imprescindibile. A differenza delle sculture, gli edifici non si muovono, occupano un posto nel mondo e impediscono ad altre cose di occupare quel posto. Non si capisce perché non approfittare delle ricchezze offerte dal contesto.
M.C.: Mi pare che viviamo una fase storica in cui queste riflessioni diventano estremamente importanti perché abbiamo attraversato anni in cui la gestualità ha preso il sopravvento sul pensiero. Adesso mi sembra che ci sia una sorta di ribellione al tema della gestualità perché quando essa diventa totalmente libera l‘architettura perde la sua appartenenza e il suo ruolo rispetto alla disciplina e diventa non-architettura. Credo che in generale, di fronte alla globalizzazione e al fenomeno free-form design, si scopre che le architetture più belle sono quelle in cui vi è dentro un‘anima che sa di conoscenza, di lunga vita dell‘architettura. Anche negli architetti che sembrano essere più distanti da questa logica in definitiva ritornano sia l‘eccezionalità della proposta sia la suggestione (anche inconscia) del contesto; penso ad esempio alla Fiera di Milano di Massimiliano Fuksas il cui successo si deve certamente alla galleria vetrata, anima e vita della città, che ricorda la proposta ottocentesca di Mengoni. A mio giudizio molte architetture straordinarie sono tali perché ricordano luoghi e desideri che ci appartengono. La Via Novissima, dopo 33 anni dalla sua prima edizione, è una lezione di straordinaria attualità, ed è per questo motivo che vogliamo riproporla pensando di ripartire da alcune opere come appunto le Case Ina di Michelucci a Firenze e la Casa di Albini a Parma. Nella produzione contemporanea esistono molti di questi esempi, non è un fatto così raro ma una questione che dobbiamo rendere programmatica. Il tema del rapporto e della continuità con l‘architettura è d‘interesse fondamentale per i cinesi, gli indiani
e i brasiliani.
P.P.: Dobbiamo riuscire a rispondere sia al mondo che ha bisogno di una nuova alleanza con la natura, sia al mondo che ha bisogno di tornare alla città come luogo di convivenza sottoposto a una serie di regole fondamentali. Sono due linee di sviluppo diverse ma che dobbiamo necessariamente tentare di unire. Ritengo che l‘eredità dell‘architettura organica sia uno degli argomenti più attuali. Vedo che ci sono molti architetti per i quali l‘esperienza di Giorgio Grassi rappresenta il punto di arrivo. Da un lato mi conforta perché vedo delle autentiche vocazioni al rigore, dall‘altro mi spaventa perché fermarsi a Grassi significa fermarsi davanti all‘autoreferenzialità che se non è personale è tuttavia disciplinare. Se c‘è stato un errore nell‘architettura delle star è che ha trovato consenso innanzitutto nella classe degli architetti evitando invece il coinvolgimento popolare, la partecipazione. Un‘architettura che esiste perché sostenuta dai media, mentre lo sforzo è quello di coinvolgere la gente comune, coloro che non hanno una cultura architettonica. L‘architettura deve produrre piacere, gioia, non solo consenso intellettuale, altrimenti rimane un fenomeno di classe che appartiene solo al mondo degli intellettuali.
È inutile pensare oggi di perseguire l‘architettura di Wittgenstein, davanti al quale mi inchino come di fronte a Brunelleschi. Wittgenstein seppe proporre una particolare idea di architettura in un momento storico irripetibile, da parte di un filosofo che in quel momento stava facendo una scoperta di importanza incalcolabile, tuttavia non dobbiamo illuderci che la strada del rigore possa essere ancora molto fruttuosa. Le risorse vanno trovate altrove attraverso la riconquista di una nuova nozione di popolo che non sia più legata al nazionalismo ma che riconosca che tante persone che mostrano aspetti comuni formano un popolo, che ha interessi da difendere nonché radici comuni. Riproporre l‘attualità del lavoro fatto dagli italiani dal 1950 al 1970, anche attraverso la riflessione sulle tipologie, è un modo per reagire al rischio di un vero e proprio annientamento della cultura architettonica.

V.P.: L‘architettura è un arte debole. Con altre forme di arte al limite è anche possibile decidere di non entrare in contatto, ma invece le architetture ci circondano sempre, perfino se decidessimo di isolarci dal mondo. Per questo, sebbene il consenso interno alla disciplina e la sua risonanza mediatica possano essere influenti, credo che il giudizio popolare sia alla fine più forte. Per me e per il mio studio, le architetture e gli scritti di Grassi sono stati più un punto di partenza che un punto di arrivo. Penso anche che la completa impermeabilità di Grassi ai desideri popolari abbia finito per rendere sterili le sue bellissime architetture. Tornando alla “Via Novissima“ devo dire che un‘altra caratteristica peculiare di tale esposizione credo sia stata proprio la sua allegria e la sua vitalità popolare: un aspetto che oggi è assente in molte mostre di architettura. Mi verrebbe da associarla alla “Fête moderne“ di New York nel 1931, il famoso ballo in maschera in cui ogni architetto era travestito come il grattacielo che aveva progettato. Credo che questo aspetto sia stato molto importante e che sia stato apprezzato dal grande pubblico.
M.C.: Vi sono aree nel mondo, penso alla Cina e al Sud Est Asiatico, dove si stanno costruendo nuove città. Forse, rispetto a queste necessità la riflessione che stiamo compiendo sulla “Via Novissima“ può tornare a essere di grande attualità. Quali sono le regole o le metodologie su cui oggi è importante orientare la propria ricerca nel tentativo di rispondere alla esigenza di realizzare nuove città di fondazione?
P.P.: Purtroppo, quasi sempre, la progettazione della città è delegata a pochi soggetti, al massimo 2, 4, 6 mani, ossia una società di progettazione, un gruppo omogeneo che fa un enorme sforzo per semplificare ciò che invece deve essere complicato. Il programma potrebbe consistere proprio nella ricerca di una necessaria complessità dei fenomeni urbani.
È incredibile come Milizia, che era un neoclassico, in un periodo di rigore ed esaltazione dell‘ordine, abbia capito quello che noi ci ostiniamo a non capire, ossia che la città deve essere caos ma con l‘ordine nel dettaglio. La città contemporanea deve contenere i due aspetti fondamentali della vita senza i quali la gente vive non sentendosi a casa, ma sentendosi ospite: caos e ordine. Penso che in Cina potrebbero farlo tranquillamente perché non hanno problemi di superficie massima occupabile. Viceversa ho visitato vicino Shanghai dei quartieri che sembrano campi di concentramenti di lusso, uno in stile olandese, uno in stile francese, con case a due, tre piani.
M.C.: C‘è un luogo singolare a Pechino, il quartiere di Sanlitun, per il quale Kengo Kuma ha realizzato il masterplan. Per creare un luogo urbano che non fosse la città cinese contemporanea ma neanche quella americana, ha costruito un pezzo di Venezia, con le piazzette e le calli, un luogo italiano o europeo, in cui i cinesi si ritrovano con grande piacere, perché vanno a piedi, perché c‘è il rapporto strada-negozio, perché in fondo rappresenta un modello urbano molto più vicino al loro stile tradizionale di vita degli hutong rispetto a quello dei compound internazionali che si costruiscono oggi. Quando proponi una urbanità in sintonia con il desiderio di appartenenza e identità della gente, riesci a creare dei luoghi di straordinario successo indipendentemente dall‘architettura.
P.P.: I cinesi dovrebbero ripartire dalla Cina, perché ho visto dei villaggi con delle strade meravigliose, che costituiscono l‘elemento di continuità, in cui la strada e la bottega non hanno una distinzione così netta come c‘è da noi. Credo che tra venti anni, quando i giovani che io ho visto nelle facoltà cinesi saranno più maturi, l‘architettura in Cina perderà questa terribile vernice europeizzante  o americanizzante. Per un occidentale che ama la città, vedere questi scempi, come la distruzione delle case originali cinesi che creavano promiscuità tra pubblico e privato attraverso le corti, è terribile.
Si fa posto a edifici alti mostruosi dove la gente non è felice di vivere, purtroppo la realizzazione di questi complessi è immensa e non sembra arrestarsi, almeno per ora.
M.C.: Ci sono molti film-maker cinesi che denunciano questi fenomeni mostrando la vita di chi abita questi blocchi verticali, container di umanità aggregata in malo modo; si tratta della descrizione di un malessere di persone abituate a vivere in una dimensione orizzontale, comunitaria sradicati dalla loro stessa vita per effetto di una consuetudine abitativa violenta e non confortevole.
V.P.: Contrapporre case alte e case basse come soluzioni di per sé buone o cattive mi riporta alla memoria alcuni dibattiti degli anni Venti, ma da quei dibattiti forse abbiamo imparato che non è necessario scegliere un solo sistema insediativo. È però un‘altro aspetto della questione che mi interessa maggiormente: ossia che quasi sempre le costruzioni alte sono molto più economiche. Costruire edifici di un solo piano è diventato davvero un lusso. Questo mi porta a domandarmi se le costruzioni basse siano davvero sostenibili in un mondo in cui la popolazione aumenta senza sosta.
P.P.: Dobbiamo riflettere sul fatto che siamo una società di consumo, che stiamo abusando di una tendenza autodistruttiva. Se non riusciamo ad uscire da questo vicolo cieco per le città non ci sarà futuro, ci potranno essere solo dei piccoli paradisi serrati ma mai una soluzione globale. Sono convinto che un processo di ritorno al limite sia indispensabile per la società occidentale, attraverso la ripresa delle tipologie, dell‘integrazione della storia. Non tutto quello che è avvenuto negli anni ‘50 è da buttare;
i contributi alla conoscenza, all‘approfondimento, al significato dell‘architettura sono stati molti e anche preziosi, però certo l‘orizzonte in cui potrebbero essere utilizzati correttamente è un orizzonte di cambiamento totale, di svolta decisiva, che potrebbe essere imposta senz‘altro dalla crisi economica così profonda, dalla quale si esce solo cambiando stile di vita. È difficile pensare ad una società che da una parte possiede nuove straordinarie tecnologie e dall‘altra ha bisogno di andare oltre questa condizione. C‘è chi pensa che si possa tornare indietro dimenticando anche le cose buone che il tempo ci ha dato. Bisogna trovare una prospettiva in cui si salva il buono di internet, della rete, della tecnica e allo stesso tempo si torna all‘esaltazione dei valori locali, dell‘agricoltura per esempio che, attraverso l‘industrializzazione, ha perso il suo valore di civiltà che aveva costruito il paesaggio. Siamo pronti a rinunciare al paesaggio? Direi di no, altrimenti il turismo, ad esempio, non avrebbe senso.
M.C.: Se tu dovessi tornare ad essere il direttore della Biennale, dopo 33 anni dalla Via Novissima, quale sarebbe la tua proposta?
P.P.: Da anni sto coltivando l‘idea della geo-architettura, che non è quella dei pannelli fotovoltaici, ma quella della nuova sensibilità, che sa imparare dalla natura e dalla storia, che sa continuare nell‘innovazione con una forma diversa che tende a salvare la terra e creare una nuova alleanza tra uomo e ambiente. È molto difficile perché non dobbiamo passare da una semi alleanza ad un‘alleanza concreta con l‘ambiente, ma da un conflitto forte ad una situazione di pacificazione con la natura. Ha un futuro l‘umanità? Qualcuno crede che il progresso tecnologico sia in grado di risolvere tutti i problemi. Io credo invece che questa sia solo una pericolosa religione dell‘infinito terrestre, sporco, consumista, non quello più suadente del romanticismo. Così non può andare avanti e occorre veramente risvegliare il senso della responsabilità, infatti la geoarchitettura, la sostengo come l‘architettura della responsabilità: ogni cosa che facciamo, ogni materiale che si sposta da un punto ad un altro della terra, ha una conseguenza, dobbiamo fare un bilancio di quello che costa. Questo dovrebbe essere un atteggiamento spontaneo, non deve essere un calcolo dato da un certificato, ognuno deve essere sensibile nel fare la cosa giusta. I grandi stili della storia sono legati a questa rivoluzione della sensibilità.
V.P.: Il tema ecologico è per me estremamente problematico, personalmente preferisco pensare a cosa sia economico, e interpretare in questo modo le necessità ecologiste. In fondo lo sviluppo delle tecniche costruttive può essere letto anche come una serie di migliorie volte a rendere la costruzione sempre meno costosa. Credo poi che se vogliamo essere oggettivi dobbiamo riconoscere la natura essenzialmente violenta dell‘architettura: essa modifica il paesaggio, lo piega alle necessità umane, si contrappone alla terribile violenza della natura e cerca di renderla ospitale. Un atteggiamento di radicale responsabilità nei confronti della natura porterebbe a non cavare più nessuna pietra dalle montagne, a non usare la sabbia dei fiumi né gli alberi delle foreste. Porterebbe – come scriveva Piranesi – a fare un‘architettura “senza pareti, senza pilastri, senza tetti; piazza, piazza, campagna rasa“.

M.C.: In questi ultimi anni ho visitato e soggiornato molto in Sudamerica, ho conosciuto bene città come Caracas, Rio de Janeiro e San Paolo. Ho visitato e soggiornato in città informali, spesso l‘80% delle città che ho citato sono fatte da comunità, favelas, nate senza regole, totalmente spontanee, dove non ci sono strade ma solo vicoli, non ci sono parcheggi quindi non si usa l‘automobile. Alla fine ho compreso che queste città più che un problema possono costituire una risorsa per la contemporaneità, perché in realtà ti donano maggiore qualità di vita, il senso della vita collettiva, dei rapporti di vicinato, la mancanza di viabilità e quindi di traffico che costituisce un problema ma anche un‘enorme opportunità. Queste favelas abbarbicate come a Rio sulle montagne, dalle quali vedi l‘oceano, al di là dei problemi igienici, sono meno dense dei grattacieli costruiti sulla spiaggia di Copacabana regolati e progettati solo in relazione alle regole del mercato. Questo significa che la complessità del vivere e delle esigenze quotidiane genera qualità.
P.P.: Come già ho detto, ho paura di chi pensa che le proposte di Giorgio Grassi costituiscano la via, l‘obiettivo per cambiare l‘architettura. Per cambiare l‘architettura, e quindi la città, dobbiamo proprio guardare alle favelas. In fondo, fortunatamente, non è vero che i ricchi siano felici, le statistiche ci dicono che chi dichiara di essere felice vive nei luoghi che noi considereremo invivibili per ragioni di miseria. La favela è un materiale formidabile di riflessione. Così come credo che il cibo sia un certo senso il luogo più vicino alla giustizia: non è vero che chi mangia di più goda di più e non è affatto vero che quelle cose che mangiano i ricchi, adesso sempre più vicine all‘artificialità, siano meglio della pizza con il peperoncino che si mangia in Messico o l‘Acquacotta toscana. La Toscana insegna che i piatti più buoni sono quelli della tradizione popolare. Si dovrebbe guardare al mondo del cibo riflettendo su questo: illudendosi di mangiare meglio, i ricchi mangiano peggio dei poveri e spesso sono costretti ad imitarli per gustare questi piatti che noi consideriamo eccezionali. Bisogna guardare al futuro con spregiudicatezza rispetto a ciò che è prevedibile. Sono convinto che il futuro si possa cambiare se smettiamo di lavorare sulle statistiche, le quali ci raccontano un mondo prevedibile, e noi sappiamo bene che queste previsioni vengono sistematicamente smentite dalla storia. Ogni individuo deve sentire e seguire, ad un certo punto, il proprio destino, e il destino della città europea oggi richiede una svolta radicale.