area 113 | benedetta tagliabue embt

Scoprire e vivere il “nuovo” mercato di Santa Caterina nel cuore della Ciutat Vella di Barcellona è come ascoltare uno di quei pensieri vivi e curiosi che a volte si fanno ad alta voce per spostare il centro stanco di una discussione, per provocare visioni differenti chiedendo contemporaneamente l’aiuto di chi ti sta intorno. Il mercato disegnato e costruito da EMBT, ovvero Enric Miralles + Benedetta Tagliabue, tra il 1999 e il 2005, è molto più di una semplice, bella architettura, quanto piuttosto è un punto di domanda sorridente, un pensiero generoso per la città e i suoi abitanti, una di quelle opere che hanno cercato silenziosamente di traghettare la nostra architettura da un tempo ad un altro. Il mercato e i suoi spazi urbani contigui ti raccontano di una Barcellona tradizionale, di storie, materie e colori conosciuti, ma, insieme, di un modo assolutamente contemporaneo e inedito di pensare e costruire luoghi collettivi. La storia, le storie, qualsiasi esse siano, dalle più alte e riconosciute a quei frammenti di memoria oscura che ti si incastrano dentro, sono impastate e digerite nel corpo denso di quel sistema di archi, coperture, volte metalliche, legni e ceramiche, cemento che avvolge il mercato e la vita che incessantemente lo attraversa.
Questo progetto, come tutte le storie, nasconde nei suoi meandri altri racconti, eroici e drammatici, che ci possono dire qualcosa in più della vita e dell’attività recente di Benedetta Tagliabue, socia e moglie di Enric, che dall’aprile del 2000, rimase sola a sorreggere e gestire tutta la grande mole di lavori e progetti prodotti da EMBT, a causa dell’improvvisa scomparsa del suo compagno
di vita e lavoro. Il nuovo mercato è innanzitutto una conquista sociale e civile a cui i due progettisti hanno dato un contributo polemico e progettuale decisivo; la vecchia costruzione era destinata alla demolizione senza che si fosse portata avanti una riflessione pubblica adeguata sul suo futuro, e nella risposta ferma e indignata della città la voce di Miralles fu una delle più ascoltate e importanti perché si scegliesse una strada diversa. Dopo la demolizione vennero alla luce le tracce del vecchio insediamento monastico che occupava questo grande isolato, mentre, nel frattempo EMBT, vincitore del concorso di architettura, sviluppava il progetto urbano di ricomposizione paziente e sensibile di questo delicato frammento di città antica.  In questi stessi anni Enric e Benedetta costruiscono la loro casa, a poche centinaia di metri da Santa Caterina, nel cuore della città gotica e popolare, e sembra molto difficile separare questi due versanti, progetto pubblico e privato, tanto la dimensione sperimentale e curiosa prende il sopravvento in ogni carattere, dettaglio e spazio che viene sviluppato e realizzato.
Le opere sono racconti aperti, in attesa di dialogo e di essere vissute continuamente. Si fa ogni volta molta fatica a individuare un punto e a capo nelle opere di EMBT, ma non si tratta di incertezza o di incapacità di portare a compimento un’opera, quanto piuttosto della strenua volontà di considerare il lavoro di architettura come uno spartito che deve essere interpretato e vissuto attivamente, senza che l’architetto debba avere necessariamente l’ultima parola. In questo atteggiamento ritroviamo la lezione irrequieta degli Smithson, di Giancarlo De Carlo e del Team X, che il giovane Miralles respirò nei suoi seminari estivi e, soprattutto, nel dialogo continuo nel tempo, con la coppia (un’altra!) dei Maestri inglesi. Ma insieme credo si debba riconoscere alla poetica dell’opera aperta l’intuizione irrisolta e spavalda di un autore che non sembra più accontentarsi delle continuità con le tradizioni locali (da Gaudì passando per il modernismo catalano fino alla soglia contemporanea dei suoi Maestri locali Pinon e Viaplana), o delle lezioni inquiete dei Maestri del Moderno (le lezioni universitarie di Miralles su Le Corbusier erano impareggiabili e acute), ma che stava cercando una possibile via d’uscita dal secolo che stava andandosene aprendo nuovi fronti di ricerca e confronto.
Il cantiere della casa, il progetto di Santa Caterina si muovono pari passo in questo periodo, così come i primi sviluppi per il nuovo Parlamento Scozzese a Edimburgo, il campus universitario di Vigo, la nuova sede per Gas Natural a Barcellona, l’ampliamento dello IUAV a Venezia (una delle tante magre figure e occasioni perse accumulate negli anni dal nostro Paese), oltre che la chiusura dei cantieri per una scuola di Musica ad Amburgo e per il municipio di Utrecht. Questo biennio a cavallo della fine del secolo è decisivo e drammaticamente strategico per EMBT, perché lo studio stava lentamente assimilando il passaggio da un piccolo, prezioso laboratorio semi-artigianale alla dimensione di un importante studio riconosciuto internazionalmente con incarichi sempre più impegnativi e significativi. E nel cuore di questa transizione delicata viene meno la sua anima fondativa, l’autore riconosciuto, forse uno dei talenti più cristallini e audaci che la nuova cultura architettonica europea poteva vantare in quel momento. E Benedetta fa immediatamente una scelta chiara, non scontata, coerente con la sua storia e con la filosofia di vita che aveva animato il lavoro con Enric: portare avanti i progetti, naturalmente, ma non cadere nel pericoloso rischio di chi cristallizza un momento, uno stile per prolungare ancora la fragile sensazione di eternità assicurata dall’opera costruita. I lavori sui tavoli in quei giorni, e quelli che sono continuati ad arrivare negli anni a seguire, sono stati sviluppati rafforzando l’intuizione che il lavoro di architettura è frutto di regia sapiente, forte e silenziosa, insieme a un dialogo attivato continuamente con i progettisti dello studio oltre che insieme ai tanti, e diversi, compagni di viaggio che si individuano a seconda dei caratteri diversi e dei temi che devi affrontare.
La scelta portata avanti da Benedetta Tagliabue è stata quella di una consapevole regia di una metamorfosi senza un obiettivo predicato, di un percorso in cui i caratteri consolidati della ricerca progettuale insieme a Miralles venissero arricchiti e messi progressivamente in discussione dalle occasioni che si sarebbero incontrate e dalle sensibilità che sarebbero inevitabilmente emerse.
E quello che ritroviamo dopo dieci anni è il felice e problematico risultato di questa metamorfosi che ancora sta progredendo, indicando, insieme, strade nuove e ricerche che hanno trovato risposte interessanti. Oltre a tutto questo, Benedetta Tagliabue è anche una figura che anticipa con la sua storia personale, un fenomeno che la cultura architettonica italiana sta sperimentando in questo periodo per ben altre motivazioni. Lombarda di nascita, veneziana di formazione universitaria, dopo il fulminante incontro con Miralles si sposta definitivamente a Barcellona venendo ad essere ormai considerata un’autrice catalana per adozione a tutti gli effetti, anche se, personalmente, a me piace guardare a Benedetta come a una progettista europea di nuova generazione, in cui le “servitù” linguistiche e identitarie si mescolano sfumandosi, dando vita a caratteri ancora in attesa di definizione.
È oggi il destino di molti giovani progettisti di talento che hanno “dovuto” lasciare il nostro Paese, povero di occasioni e di soddisfazioni, per stabilire il proprio studio in realtà urbane più evolute e attente alla qualità dell’architettura contemporanea. E quando capita di confrontarsi con loro senti che il l’orizzonte culturale e simbolico con cui si confrontano è l’Europa e quello che rappresenta
in termini di occasioni e di caratteri. Non credo che andremo incontro a uno “stile” esperanto europeo, quanto piuttosto alla rielaborazione di quei caratteri urbani, insediativi, collettivi che hanno fatto del sistema urbano continentale un modello insediativo in cui ancora individuare modelli e strumenti di riflessione progettuale per il futuro. E su questa linea continua generosamente a lavorare EMBT sotto la regia sorridente e aperta di Benedetta Tagliabue. I lavori di questi anni dimostrano una capacità di ascolto poetico e materico dei luoghi, potente, capace di interpretare, soprattutto attraverso il lavoro ossessivo sugli spazi pubblici, la dimensione mutevole ed irrequieta della società contemporanea e dei suoi desideri emergenti. I piani terra delle opere di EMBT si fanno incessantemente playground e luoghi informali, domestici, d’incontro tra cittadini che cercano di ricostruire legami, tessiture libere all’uso che ripensano discretamente i caratteri della metropoli d’oggi. Il lungo porto di Amburgo, come la sequenza magistrale di spazi pubblici e privati per il parlamento scozzese, ma, insieme, la fragile e poetica macchina scenografica per Merce Cunningham, ci raccontano tutti insieme della stessa volontà e visione, capace di prendere forme e materie diverse a seconda dei luoghi che incontra ed interpreta. Le tessiture murarie, quella capacità arcaica e, insieme, modernista di fondere struttura a paramento trasformando la parete in un laboratorio a cielo aperto non sembra conoscere differenza, ma solo un diversificarsi d’intensità tra le pareti cimiteriali di Igualada e le verticali in mattoni di Amburgo, quelle in legno e cemento di Edimburgo, o le tessiture transitorie e fragilissime del padiglione spagnolo di Shanghai. È una strada complessa, che non ha paura dell’autorialità come dichiarazione di ricerca poetica non fine a se stessa, e della carica espressiva degli spazi come possibile risposta al progetto di uno spazio per nuove comunità. La sensazione struggente che si prova nel vedere i lavori degli ultimi anni, soprattutto man mano che ci si allontana dal “maledetto” 2000, è la caparbietà con cui Benedetta Tagliabue ha cercato di progettare senza fermarsi, senza congelare il dolore nelle forme e nei linguaggi di riferimento. Questo, credo, è stato il modo più alto e amoroso di rispettare la storia intellettuale e creativa di Enric Miralles e, insieme, di trasformarla in un motore libero, potente per continuare le ricerche e le strade che, anche lui, aveva contribuito ad aprire in questi anni di profonda e irrequieta metamorfosi.